di Alessandro Iacuelli

Liberate le infermiere bulgare e il medico palestinese, il presidente francese Nicolas Sarkozy si è affrettato a recarsi in Libia per firmare un accordo commerciale. La Francia si è dichiarata disponibile a fornire un reattore nucleare per la potabilizzazione dell'acqua di mare. Ma a fremere non è solo la diplomazia di Parigi: alla volta di Tripoli è partito anche il viceministro degli esteri britannico, Kim Howells, mentre il segretario di Stato americano, Condoleezza Rice, spera di poterci andare presto. La Libia possiede grandi giacimenti di petrolio e di gas, cosa che le permetterebbe di diventare un Paese "appetibile" a quelle stesse diplomazie occidentali che l'hanno isolata qualche decennio fa. Così, durante la visita ufficiale francese, il presidente Sarkozy ed il premier libico Gheddafi hanno firmato un un memorandum di intesa per la cooperazione in un progetto di energia nucleare, secondo quanto annunciato da un portavoce del governo francese. "L'obiettivo è di collaborare per lavorare all'installazione di un reattore nucleare in Libia finalizzato alla desalinizzazione dell'acqua del mare ed alla fornitura di acqua potabile", ha detto lo stesso portavoce.

di Carlo Benedetti

MOSCA. C’è uno sciopero operaio che agita la stagnante vita sociale e sindacale della Russia. Potrebbe avere conseguenze inaspettate: estendersi e trovare nuovi punti di appoggio. Focolai di una “guerra salariale” per normali condizioni di vita. Il segnale arriva da una fabbrica che è il cuore della classe operaia locale. Tutto accade sulle rive del Volga dove, a partire dal 1964, è sorta la città dedicata a Togliatti. Allora fu un gesto di simpatia politica che il Cremlino volle esprimere nei confronti del Pci. Ma fu, allo stesso tempo, l’avvio della costruzione di una azienda automobilistica (realizzata con la diretta collaborazione della Fiat e denominata “AvtoVaz”) che doveva segnare una svolta nella vita industriale dell’Urss. Da allora le auto che escono dalle catene di montaggio di “Città Togliatti” portano il nome delle colline a ridosso del Volga, le “Gigulì”. Tutto ok, quindi. Automobili, prestigio, notizie di nuove soluzioni tecnico-industriali ed altro ancora. Ma anche - dopo il crollo dell’Unione - giro di oligarchi e di grandi speculazioni favorite da un Cremlino onnipresente e mai attento ai danni provocati dalla nuova classe padronale. Ed ora la situazione esplode (mentre l’azienda è controllata dalla holding “Rosoboroneksport” che è poi quella che ha il monopolio statale dell'export di armamenti) con uno sciopero mai visto che blocca l’azienda e coinvolge l’intera comunità: 110.000 dipendenti fra operai, tecnici, ingegneri e amministrativi.

di Daniele John Angrisani

Nelle more della politica internazionale, di questi tempi ci si trova sovente di fronte ad alcune questioni a prima vista incomprensibili per una mente normale. Una di queste è sicuramente la problematica relativa all'indipendenza della provincia serba a maggioranza albanese, il Kosovo. Da un lato sono schierati i kosovari che, con l'appoggio degli Stati Uniti e dell'Unione Europea, chiedono a gran voce l'indipendenza del proprio Paese; dall'altro il governo di Belgrado che invece, con l'appoggio forte dei russi, è impegnato a cercare di evitare, in tutti i modi, che tale prospettiva possa tramutarsi in realtà, in quanto considera la provincia come parte storicamente integrante del proprio territorio. Il Kosovo, a seguito della guerra del 1999 e della sconfitta della Serbia di Milosevic, è diventato un protettorato internazionale protetto dalle truppe della NATO su mandato delle Nazioni Unite, in attesa dei negoziati che si sarebbero dovuti tenere tra serbi e kosovari sullo status definitivo della provincia. Son passati anni e di questi negoziati non si è vista alcuna traccia fino a tutto il 2006. Nel frattempo, sotto gli occhi vigili delle truppe internazionali, si è potuto procedere ad una vera e propria pulizia etnica dei serbi ancora viventi in Kosovo che sono stati sottoposti ad ogni sorta di violenza da parte dei reduci dell'UCK, la guerriglia kosovara, senza nessuno che abbia mosso un dito in loro difesa, fino ai pesanti scontri del 2004. Da allora vige una sorte di "convivenza gelida" tra le due etnie.

di Bianca Cerri

Il ragazzo afferra la coda dell’iguana mentre gli amici gli fanno cerchio tutto attorno. Dopo tre giorni di digiuno, l’animale sarà il loro unico pasto e chissà quando ce ne sarà un altro. Tre giorni, un tempo eterno per i giovani ispanici ma finalmente sta per arrivare il treno che li porterà verso il futuro. La gente alla stazione di Tecnosique li ha avvertiti: tornatevene a casa perché quel treno vi mangerà ma loro vogliono prenderlo a tutti i costi. Soldi per il biglietto non ne hanno, aspetteranno che il treno riparta per saltare su prima che prenda velocità. Finalmente arriva il segnale di partenza e i ragazzi iniziano a correre, afferrano la maniglia e, con una spinta si reni, si issano a bordo. La loro gioia è incontenibile e, voltandosi verso il passato che si lasciano alle spalle, urlano al vento che stanno andando verso “el norte”.

di mazzetta

Dopo mesi di attivismo, com’era prevedibile, la Francia è riuscita a trascinare l’Europa nella sua guerra africana. La UE ha infatti deciso l’invio di truppe in Ciad e Repubblica Centrafricana allo scopo, formale, di aiutare i profughi del Darfur. Il Darfur è però un pretesto, la Francia non è per nulla interessata alla sorte dei profughi sudanesi; alla Francia importa avere una copertura legale per le proprie operazioni militari nei due paesi. La mancanza di conoscenza della situazione sul terreno e la scarsità di notizie sui bagni di sangue nell’area, hanno spinto il nostro paese ad offrire addirittura appoggio logistico, si parla di elicotteri, ad un’avventura che ha tutti i crismi della truffa come non se ne vedevano dai tempi dell’invasione dell’Iraq. Come per l’Iraq la partecipazione del nostro paese è fondata su una menzogna; in Iraq c’erano da neutralizzare le armi di distruzione di massa, qui invece ci sono da salvare i profughi del Darfur. Ora, a parte il fatto incontestabile che i profughi del Darfur sono stati abbandonati a loro stessi per anni, salvo quando qualche politico o attore occidentale aveva bisogno di una photo-opportunity, la realtà è molto diversa da quella che ha portato il nostro paese ad aderire a questa nuova avventura.


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