di Fabrizio Casari

Un accordo, proprio in quanto tale, é sempre un compromesso tra le parti. Compromesso onorevole, ma pur sempre un compromesso. Che tiene conto delle ragioni e delle esigenze di tutti i firmatari, ma che solo nella breve e media prospettiva si rivela nella sua lungimiranza politica. Sotto questo aspetto succede, a volte, che chi incassa di più non è attore diretto, ma indiretto, del conflitto per la cessazione del quale il compromesso è stato raggiunto. Ma ogni accordo è, in primo luogo, la fotografia politica e militare dello stato del conflitto che intende far cessare. Quello raggiunto all'Onu, votato all'unanimità dal Consiglio di Sicurezza, è per l'appunto la certificazione nero su bianco, con mille morti di ritardo ed un paese distrutto, di una situazione de facto che vede la sconfitta d'Israele e l'idiozia politica degli Stati Uniti da un lato, la vittoria di Hezbollah e del radicalismo arabo e dell'Iran dall'altro. La sostanziale uscita di scena della Lega Araba, prigioniera delle sue contraddizioni, è una ulteriore sconfitta delle posizioni moderate e rappresenta invece la conferma delle convinzioni delle forze radicali del mondo arabo che considerano ormai l'organismo come vuoto a perdere.

di Carlo Benedetti

MOSCA. Le elites del mondo politico e diplomatico della Russia si stanno interrogando sull'identità dei nuovi principi-chiave che Putin va disegnando, in questi ultimi tempi, nel campo delle relazioni internazionali. Tutto avviene in modo improvviso. Anche con colpi di scena e apparizioni improvvise, dal momento che il Presidente manifesta una sempre più accentuata attenzione verso quei nuclei tematici che, dal punto di vista istituzionale, dovrebbero rappresentare una sorta di riserva di caccia del ministero degli Esteri. Putin sconfina. E la cosa più interessante è che, con le sue azioni, sembra proprio lanciare una sfida a quella grande potenza (gli Stati Uniti) che pochi anni fa vantava apertamente la vittoria sull'impero del male. C'è, quindi, una sorta di nuova dottrina strategica che comincia a delinearsi all'interno dell'establishment del Cremlino e che vede, soprattutto, una accentuazione di interessi anche verso realtà che sembravano ormai lontane da Mosca. Il caso più importante riguarda il colpo d'ala nei confronti del lontano Venezuela.

di Sara Nicoli

Se ci fossero riusciti, l'11 settembre sarebbe stato archiviato come il primo atto di un'escalation terroristica di dimensioni planetarie, culminata nei cieli dell'Altlantico e nell'esplosione contemporanea di almeno dieci voli diretti da Londra verso gli Usa. E le cronache avrebbero probabilmente consegnato alla storia il numero 11 come il giorno maledetto per eccellenza nella vicenda umana mondiale di questi primi anni del ventunesimo secolo. E' andata diversamente. Scotland Yard li ha fermati. Forse solo un attimo prima che kamikaze islamici, di origine inglese, al soldo di Al Queda - secondo un'immediata lettura del governo Usa - caricassero a bordo un esplosivo artigianale in forma liquida portato in cabina con il bagaglio a mano. Scotland Yard ha dunque sventato il più terribile piano terroristico dopo la distruzione delle Twin Tower.

di D.J. Angrisani

Dopo settimane di notizie negative, lutti e tragedie da tutto il mondo, forse una buona notizia per coloro che sperano nella pace, arriva dagli Stati Uniti d'America. Alcuni notti orsono, nelle primarie democratiche del Connecticut, Joe Lieberman, senatore ebreo democratico ex candidato vicepresidente con Al Gore, indubbiamente il più filo Bush tra i democratici, è stato sconfitto da un ex perfetto sconosciuto, Ned Lamont, che ha basato la propria campagna presidenziale su un concetto molto semplice: il ritiro delle truppe americane dall'Iraq. Questa sfida delle primarie era diventata molto importante in quanto si era di fatto trasformata in un referendum della base democratica sulla politica estera del partito e sull'appoggio fornito da diversi senatori democratici alla guerra in Iraq. Il suo risultato, all'inizio completamente insperato, darà molte preoccupazioni a coloro che, all'interno del partito democratico, aspirano alla nomination nel 2008, ma che hanno sulla propria coscienza la macchia di aver votato a favore della guerra in Iraq.

di mazzetta

Nel cuore dell'Africa si sono appena tenute storiche elezioni. Al voto sono andati milioni di congolesi che, per la prima volta dopo 40, anni hanno potuto votare. Perché un paese come il Congo sia solamente alla sua seconda esperienza elettorale nella storia ha una spiegazione tutto sommato banale: il Congo è un paese talmente ricco che il suo governo è sempre stato ostaggio delle potenze straniere e degli interessi delle compagnie minerarie multinazionali. Il Congo, che per le ricchezze del suo sottosuolo è stato definito uno "scandalo geologico", è grande come l'Europa occidentale con una popolazione tutto sommato modesta, possiede solo 500 km di strade asfaltate, una ferrovia e un imponente debito estero. Una delle domande alle quali nessuno fornisce mai una risposta soddisfacente è quella riguardo a come un esportatore netto di tanta materia prima possa essersi indebitato con l'estero. La risposta è scontata per quanto è trasparente dalla storia congolese: il Congo è stato sistematicamente derubato e flagellato dalle grandi compagnie fin dalla sua fondazione.
Le elezioni appena svoltesi sono solo l'ultimo atto di una tragicommedia e non è un caso che la chiesa cattolica locale e alcuni candidati alla presidenza (sono più di trenta) le abbiano già definite truccate.


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