di Bianca Cerri

Sembra incredibile ma fra tanti giornalisti, “esperti” di malesseri infantili e preti mediatici che nei giorni scorsi hanno parlato della Bielorussia come della patria degli orchi, a nessuno è venuto in mente di indagare sui motivi che hanno costretto le repubbliche ex-sovietiche a rendere più severe le leggi sulle adozioni internazionali. Brutta storia. Mani affondate nella melassa di cui ormai gli italiani non possono più fare a meno e neppure una parola sul business delle adozioni di orfani dei paesi dell’Est che negli Stati Uniti realizza un fatturato annuo di un miliardo e mezzo di dollari. Basta pagare tra trenta e quarantamila dollari a una delle centinaia di agenzie specializzate e gli aspiranti genitori frustrati dalla mancata nascita di un figlio naturale, potranno portarsi a casa un bambino proveniente da uno qualsiasi degli ex-paesi sovietici.

di Carlo Benedetti

MOSCA. Nel clima di scetticismo che domina in Russia nessuno crede più alle promesse. Ma la speranza, come si sa, è l’ultima a morire. E così questo progetto del quale si parla ora sembra proprio destinato a sconvolgere - nei prossimi decenni - la vita dell’Eurasia e, in particolare, di una regione come la Siberia (10 milioni di chilometri quadrati). Tutto avviene in seguito ad un progetto di quattro paesi - Russia, Kasachstan, Mongolia e Cina - che decidono di unirsi per trasformare le caratteristiche di un intero territorio. Farne un immenso centro turistico internazionale, collegato all’occidente con nuove arterie stradali, nuove linee aeree e ferroviarie. E, soprattutto, dotato di moderne strutture turistiche capaci di rispondere alle esigenze di un pubblico internazionale. Progetto del secolo? Per ora tutto è sulla carta, ma già il mondo del business mondiale è allertato. Si muovono aziende che operano nel campo delle costruzioni stradali, fabbriche che producono materiale ferroviario, società di telecomunicazioni... E soprattutto grandi società turistiche che puntano ad assicurarsi l’esclusiva per centri di riposo, alberghi, motel, aree di caccia e stazioni invernali.

di Luca Mazzucato

La situazione politica nei Territori palestinesi è da alcune settimane in fibrillazione, attorno alla questione del nuovo governo di unità nazionale. Giorno dopo giorno, si rincorrono gli annunci dell'accordo raggiunto (da parte di Abu Mazen, presidente dell'ANP e leader di Al Fatah) e le immancabili smentite (da parte di Haniyeh, premier palestinese e leader del braccio politico di Hamas). Lo snodo che si gioca attorno alla creazione del nuovo governo è cruciale per gli equilibri di potere nei Territori. La situazione attuale, per certi versi, è simile a quella dei primi anni novanta, quando la svolta nell'OLP portò al riconoscimento di Israele e alla firma degli accordi di Oslo, ai quali Hamas si oppose fieramente.I primi a muoversi, ovviamente, sono i russi che hanno convocato, nella città di Barnaul - al centro della catena degli Altaj - la prima convention ufficiale del comitato organizzatore del progetto che viene chiamato “Nasc obsij dom”, la nostra casa comune. Che avrà come “padroni” anche i kazaki, i mongoli e i cinesi. Tutti interessati a sviluppare, nelle loro aree di confine con la Russia, le nuove infrastrutture.

di Matteo Cavallaro e Giorgio Ghiglione

Varie sono le teorie che tentano di spiegare la politica estera dell’amministrazione Bush. C’è chi dice che bombardare un paese faccia fiorire la democrazia; chi dietro vede solo l’ombra nera del petrolio; chi parla di un tentativo di fermare una presunta nuova valuta internazionale nota ai più come petroleuro e ultimi, ma non per importanza, i soliti complottisti che in tutto ciò vedono un piano per la dominazione del mondo. In pochi però si preoccupano di dare un’interpretazione geografica delle tensioni in atto.Il problema di analizzare l’azione delle grandi potenze dentro lo spazio geopolitica, da sempre appassiona studiosi e non. Il primo a codificare una vera e propria teoria al riguardo fu un certo Sir Halford Mackinder. Questo geografo inglese, all’inizio del XX secolo inventò il termine “Heartland”, intendendo con esso la zona centrale dell’Eurasia. Ebbene, secondo Mackinder, chi controllava questo territorio, controllava il mondo. Ovviamente tale ipotesi era figlia del suo tempo e negli anni ’30 l’americano Spykman rivistò la teoria sopracitata.

di Fabrizio Casari

Domenica prossima, 125 milioni di elettori brasiliani dovranno decidere se nel loro futuro non c’è posto per il passato. Se cioè Ignacio “Lula” da Silva, più semplicemente Lula, avrà la possibilità di completare il lavoro svolto o se, ricacciando indietro nel tempo speranze e aspettative, la parola dovrà tornare agli antichi predatori. Lula era considerato un intruso, una presenza scomoda. Rappresentava – e rappresenta – un blocco sociale che mai, nella storia dell’immenso paese sudamericano, aveva avuto voce in capitolo, ma ha cambiato la storia politica del Brasile. La sua elezione, nel 2002, per quanto prevista dai sondaggi e auspicata da buona parte del Paese, ha invertito il destino manifesto del Brasile che risultava – e ancora risulta – il paese dove alberga la forbice più drammaticamente grande tra ricchezza insultante e povertà estrema. Il 10 per cento della popolazione dispone del 46,7 per cento della ricchezza nazionale, mentre il 40 per cento della popolazione, la più povera, dispone solo del 7,7 per cento.


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