di Laura Bruzzaniti

Si decide questo mese il destino dell’ex Presidente peruviano Alberto Fujimori. Entro maggio, infatti, il Cile deciderà se concedere o meno la sua estradizione in Perù. Se i giudici cileni decideranno per l’estradizione, Fujimori, che si trova in Cile dal novembre del 2005, tornerà in patria per essere giudicato dei reati commessi nel corso dei dieci anni in cui è stato alla guida del Paese, tra il 1990 e il 2000. “El Chino” (il cinese) - è così che lo chiamano in Perù - è accusato di diversi episodi di corruzione, peculato, falso ideologico, associazione a delinquere. Ma soprattutto è accusato di crimini contro l’umanità per i massacri di civili innocenti compiuti da gruppi militari vicini ai servizi segreti (il “Gruppo Colina”) all’inizio degli anni ‘90, gli anni nei quali il governo Fujimori sosteneva la necessità della “mano ferma” per la lotta ai terroristi di “Sendero Luminoso”. Gli episodi più gravi contestati sono due: il 3 novembre del 1991 alcuni militari irruppero in un edificio nel centro di Lima (nel quartiere Barrios Altos) dove si svolgeva una raccolta di fondi e uccisero a sangue freddo quindici persone, tra le quali un bambino di otto anni. Nel secondo caso, il 18 luglio del 1992, i militari portarono via dalla residenza dell’Università “La Cantuta” nove studenti e un professore, che vennero in seguito uccisi e sotterrati clandestinamente in fosse comuni.

In entrambi i casi Fujimori è ritenuto responsabile, in quanto mandante di una politica di violazione sistematica dei diritti umani portata avanti dai militari del Gruppo Colina al comando del Servicio de Inteligencia Nacional (SIN) di Vladimiro Montesinos, alle dirette dipendenze del Presidente/dittatore. Fujimori è accusato inoltre di aver ostacolato il corso della giustizia, per permettere agli esecutori materiali dei massacri di restare impuniti.

Il primo atto per l’estradizione di Fujimori è il parere del giudice Mónica Maldonado, atteso per la metà di maggio. Il parere, che si prevede favorevole all’estradizione, dovrà poi essere ratificato entro cinque giorni dal giudice Orlando Álvarez che sarebbe invece contrario a restituire “il cinese” alla giustizia peruviana. In quel caso la parola passerà, in seconda istanza, ad un collegio di cinque magistrati della Corte Suprema; solo due dei quali, secondo indiscrezioni riportate dalla stampa cilena, si pronuncerebbero a favore dell’estradizione. Ancora incerto, quindi, il destino di Fujimori.

Al di là dell’iter giuridico, l’estradizione è comunque un atto politico e sulla decisione dei giudici peseranno le pressioni dei governi. Quello peruviano chiede con forza l’estradizione di Fujimori. Almeno, questa è la posizione ufficiale. I quotidiani cileni, però, in questi giorni riportano dichiarazioni del Presidente della Commissione per le relazioni esterne, Roberto Muñoz Barra, che afferma che esponenti del governo peruviano gli avrebbero chiesto, nel corso di un colloquio molto privato, di fare pressione sui giudici per impedire l’estradizione. Il caso Fujimori, insomma, è una patata bollente che forse Lima non vuole affrontare, perché “el Chino” può ancora contare su appoggi politici e sostenitori influenti in Perù.

A volerla davvero l’estradizione sono le associazioni di diritti umani, Amnesty International e le associazioni dei familiari delle vittime, che il mese scorso hanno organizzato a Santiago alcune manifestazioni di protesta. “Fujimori, la giustizia peruviana ti reclama” si legge sui poster della campagna per sensibilizzare l’opinione pubblica in Cile come in Perù. E in favore dell’estradizione si è pronunciata anche la Corte Interamericana dei Diritti dell’Uomo nella decisione dello scorso novembre sul massacro de La Cantuta.

Con l’avvicinarsi della decisione sull’estradizione, si fa sentire anche il timore della fuga di Fujimori, che vive in libertà condizionata ormai da diversi mesi e a Santiago conduce una vita normale, come riporta il quotidiano cileno La Naciòn: va al ristorante peruviano quando sente nostalgia dei sapori di casa, cura il giardino ed è stato visto andare a passeggio con la sua canna da pesca. Considerata tanta libertà di movimento, il governo peruviano ha chiesto che, in caso di parere favorevole all’estradizione, vengano anche disposti gli arresti domiciliari.

Perché "el Chino", che a dispetto del soprannome non è cinese ma giapponese di origine e di nazionalità, vive a cinque minuti di macchina dall’ambasciata del Giappone e potrebbe facilmente decidere, una mattina di maggio, di rifugiarsi proprio lì, in territorio extra-nazionale, piuttosto che ritrovarsi a Lima davanti a un tribunale a rispondere di crimini contro l’umanità.

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