L’era Netanyahu potrebbe finalmente essere arrivata al capolinea. Dopo l’ultima guerra contro i palestinesi nella striscia di Gaza, le fortune politiche del primo ministro israeliano sembravano poter essere rilanciate, grazie a un possibile ricompattamento della destra, ma le ultime ore hanno invece registrato un passo avanti forse decisivo nella formazione di un nuovo gabinetto senza il Likud e il più longevo capo di governo nella storia dello stato ebraico.

Il coalizzarsi di forze estremamente eterogenee con l’obiettivo di rimpiazzare Netanyahu è stato stimolato dal persistere di uno stallo politico che minaccia di portare Israele al quinto voto anticipato in due anni e mezzo.

La volontà di evitare il precipitare della crisi, anche nel caso il nuovo governo dovesse effettivamente nascere, non porterà comunque a una stabilizzazione del sistema. Anzi, il possibile prossimo governo sarà segnato da una grandissima fragilità, dovuta sia al margine risicato della potenziale maggioranza in Parlamento (Knesset) sia alla necessità di mettere d’accordo l’estrema destra con la sinistra e, addirittura, con gli arabo-israeliani.

L’eventuale fine dell’era Netanyahu lascerebbe spazio anche a un nuovo primo ministro per certi versi ancora più a destra del premier uscente. Secondo l’accordo che sarebbe vicino a essere ratificato, il leader del partito di estrema destra Yamina, Naftali Bennett, dovrebbe infatti assumere la carica di capo del governo per primo e fino all’autunno del 2023. Solo allora l’incarico passerà al numero uno della forza politica che ha ottenuto il numero maggiore di seggi dopo il Likud nelle elezioni dello scorso marzo, vale a dire Yair Lapid del partito centrista Yesh Atid (“C’è un Futuro”).

Proprio Bennett ha rotto gli indugi nella serata di domenica e, con una drammatica dichiarazione televisiva, ha chiuso ogni ipotesi di trattativa con Netanyahu e annunciato la sostanziale accettazione della proposta di governo di Lapid. Bennett era stato in forte dubbio circa le scelte del suo partito dopo il voto. Nelle fasi precedenti l’inizio dell’aggressione israeliana di Gaza, i leader di Yamina e Lapid sembravano essere vicini a un’intesa per la formazione di un nuovo governo. Il clima di guerra venutosi a creare aveva però congelato i negoziati e per Bennett l’interlocutore principale era tornato a essere Netanyahu.

Domenica, invece, Bennett ha detto di aver preso atto dell’impossibilità di mettere assieme un governo fatto soltanto di forze di destra. Dopo avere attaccato Netanyahu per la sua doppiezza, come testimonia anche il mancato rispetto dell’accordo di governo precedente con Benny Gantz, Bennett ha annunciato di voler dedicare “tutte le sue energie” alla costruzione di un governo di “unità nazionale” con “l’amico Yair Lapid” per “rimettere Israele in carreggiata”.

L’ex consigliere e ministro di Netanyahu è ben consapevole del rischio politico di entrare in una coalizione con il centro-sinistra, considerando anche il già modesto risultato ottenuto nelle ultime elezioni. Per questa ragione, ha dedicato buona parte del suo intervento di domenica a schivare preventivamente gli attacchi che Netanyahu avrebbe iniziato a rivolgerli poco più tardi. Bennett ha dovuto anche far fronte a forti resistenze nel suo partito, tanto che uno dei sette deputati di Yamina aveva da tempo fatto sapere di non avere intenzione di appoggiare un governo con Lapid.

I malumori tra gli elettori di Yamina sono già sfociati in alcune manifestazioni contro la decisione di Bennett, il quale ha provato a spiegare che, tutto sommato, il governo che potrebbe nascere non sarà poi così di “sinistra”. Anzi, ha spiegato il premier in pectore, il prossimo esecutivo sarà “leggermente più di destra di quello attuale” di Netanyahu, visto che i partiti di centro-sinistra hanno dovuto accettare “difficili compromessi”.

In particolare, Bennett ha sottolineato come la “sinistra” abbia concesso la carica di primo ministro a un ex leader del principale movimento dei coloni israeliani in Cisgiordania. Il ministero della Giustizia dovrebbe andare inoltre a un altro irriducibile della destra, Gideon Sa’ar, uscito qualche mese fa dal Likud per fondare il partito della Nuova Speranza. Bennett ha infine assicurato che Yamina, anche se al governo con la “sinistra”, non “abbandonerà i propri valori”, cioè non farà passi indietro sugli insediamenti illegali né “il contesto politico” creerà scrupoli nel condurre operazioni militari contro Gaza, se ciò risulterà necessario.

Sulla nuova coalizione rimangono ancora non poche incertezze e, se anche tutto dovesse andare secondo i piani di Bennett e Lapid, la nuova maggioranza sarà la più ristretta possibile, cioè di 61 deputati su 120. Il mandato esplorativo di Lapid scade alla mezzanotte di mercoledì e, per il momento, un accordo informale è stato raggiunto con tre partiti, quello dell’ultra destra laica Yisrael Beytenu dell’ex ministro degli Esteri Avigdor Lieberman, il Partito Laburista e quello di sinistra Meretz. Oltre a Yamina, da convincere restano il Partito Blu e Bianco del vice-primo ministro Benny Gantz e Nuova Speranza di Sa’ar. Discorso a parte riguarda il partito arabo-israeliano Ra’am. I quattro membri della Knesset di quest’ultimo sarebbero decisivi, ma fornirebbero comunque solo un appoggio esterno al gabinetto Bennett.

Vista la situazione, le incognite sono molteplici, soprattutto perché la strategia già messa in atto da Netanyahu è di fare appello ai singoli deputati eletti nei partiti di destra che stanno trattando con Lapid per respingere l’accordo di governo. La speranza è che anche un numero minimo di essi finisca per defezionare e rendere impossibile il raggiungimento della soglia dei 61 deputati. In ogni caso, non sembrano esserci prospettive per un nuovo incarico a Netanyahu, ma l’obiettivo del premier uscente è ora quello di una quinta elezione anticipata, in modo da rimanere in carica e quanto meno rimandare le conseguenze del processo per corruzione che lo vede alla sbarra.

Nelle sue prime dichiarazioni dopo le parole di Bennett, Netanyahu è andato subito all’attacco sollevando dubbi sull’impegno della nuova coalizione di governo per la “sicurezza” di Israele, sia in relazione all’Iran sia a Hamas, ma anche alla difesa degli insediamenti illegali e, addirittura, ai possibili procedimenti per crimini di guerra che potrebbe aprire il Tribunale Penale Internazionale.

Netanyahu, peraltro, aveva cercato in tutti i modi di convincere Bennett e Sa’ar ad accettare un’intesa per un governo di destra. La stampa israeliana ha scritto che era stata messa sul tavolo una proposta che prevedeva l’assegnazione dell’incarico di primo ministro a Sa’ar, il quale dopo quindici mesi avrebbe riconsegnato l’incarico a Netahyanu che, a sua volta, dopo due anni si sarebbe avvicendato con Bennett. L’offerta è stata discussa e messa da parte dal direttivo di Yamina, mentre Sa’ar l’ha rispedita subito al mittente, nonostante le pressioni per accettarla di almeno un deputato del suo partito.

Visti i tempi ristretti per chiudere la crisi politica, letteralmente nelle prossime ore si conoscerà la sorte di Netanyahu e le chances del nuovo governo. Anche solo un “ribelle” nelle file dei partiti di Bennett e Sa’ar potrebbe far saltare l’operazione per liquidare Netanyahu, ma il fatto che l’ipotesi di accordo sia sopravvissuta alla recente guerra contro Gaza lascia ben sperare i suoi promotori.

Il gabinetto che eventualmente nascerà dopo dodici anni di governo ininterrotto di Netanyahu avrà davanti delle sfide formidabili che renderanno molto difficile il completamento del mandato quadriennale. Ad esempio, la questione palestinese è tornata prepotentemente al centro del dibattito sia in Israele sia a livello internazionale e sarà perciò improbabile che possa rimanere fuori del tutto dall’agenda del governo, com’è stato ipotizzato in queste ore per evitare uno scontro prematuro tra le varie anime della nascente maggioranza.

Da valutare sarà anche la risposta del prossimo governo al riassetto delle politiche mediorientali dell’amministrazione Biden dopo quattro anni di quasi idillio tra Trump e Netanyahu. Il portafoglio degli Esteri dovrebbe finire a Yair Lapid, così da evitare frizioni eccessive tra Washington e Tel Aviv. Gli orientamenti ultra-nazionalisti delle principali anime dell’esecutivo che dovrebbe essere guidato inizialmente da Naftali Bennett lasciano tuttavia intravedere pericolose tensioni se la Casa Bianca intenderà andare fino in fondo con alcuni dei propri obiettivi regionali, come il ristabilimento dell’accordo sul nucleare iraniano (JCPOA) o il rilancio dei negoziati per la creazione di uno stato palestinese.

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