Attraverso questa lettera esprimo la mia inequivocabile condanna di Amnesty International riguardo al suo ruolo destabilizzante in Nicaragua, il mio paese di nascita. Apro questa lettera citando Donatella Rovera, che fino a questo momento era stata una delle investigatrici sul campo di Amnesty International per più di 20 anni:
"Situazioni di conflitto creano ambienti altamente politicizzati e polarizzate. (...). Gli attori e le parti interessate passano attraverso straordinaria di manipolare e fabbricare" prove "per le distanze dei consumi interni ed esterni. Un recente, ma non per questo unico, esempio è fornito dal conflitto siriano, che è spesso considerato la "guerra di YouTube", con innumerevoli tecniche utilizzate per manipolare sequenze video di incidenti avvenuti in altri momenti, in altri luoghi, anche in altri paesi - e presentarle come "prova" delle atrocità commesse da una o dall'altra parte nel conflitto in Siria ".

 A tre settimane dalle elezioni presidenziali in Messico, si continuano ad inzuppare campagne sporche e pressioni nazionali ed estere per evitare che il centro-sinistra di Andrés Manuel López Obrador (AMLO) raggiunga la presidenza, anche se nelle intenzioni di voto supera di gran lunga i due candidati elementi di destra.
 
La scorsa settimana si è scatenato una campagna telefonica intensa fingendo di effettuare sondaggi, contro Lopez Obrador: robotizzato messaggi diffusi che attaccano e diffamano il candidato e terrorizzano i cittadini. Questa campagna si aggiunge a quella svolta dai principali uomini d'affari del paese, che sollecitano pubblicamente i lavoratori delle loro aziende ad astenersi dal votare per AMLO.

L’esito del G7 canadese, con le due mosse clamorose di Donald Trump (riapertura a Putin e partenza anticipata per Singapore) ha reso esplicito ciò che, fino a qualche settimana prima era solo un sospetto: cioè che “America First” significa che l’Europa è già passata in secondo piano nella graduatoria degli interessi mondiali.

 

Difficile pensare che si tratti di un capriccio transitorio del presidente americano in carica, specie se si mettono nel conto anche i dazi su alluminio e acciaio e la decisione unilaterale di stracciare l'accordo sul nucleare iraniano contro (senza neanche consultarli) l'opinione di tutti gli alleati atlantici, oltre che quella della Russia e della Cina. L'impressione generale di questa girandola di colpi pugilistici è quella di un grande sconquasso. Che potrebbe essere addirittura più sostanziale di quello che appare a prima vista.

“Abbiamo bisogno di leader che sappiano siglare grandi affari per gli americani”. Così Donald Trump nel 2015 agli inizi della campagna elettorale per la presidenza degli Stati Uniti. Per Trump i politici americani non sapevano negoziare per la mancanza di esperienza imprenditoriale che lui invece possiede a iosa.

Negoziare nel mondo degli affari è una cosa ma al livello di politica internazionale si tratta di un'attività molto più complessa che l'inquilino della Casa Bianca non ha ancora capito. La storia recente della sua presidenza ce lo conferma.

Managua. La mobilitazione ‘azul y blanco’ del 30 maggio per le madri di (una parte) delle vittime degli scontri che hanno afflitto il Nicaragua nelle ultime sei settimane è stata gigantesca. Quasi impossibile calcolare il numero di persone che hanno deciso di uscire per le strade e camminare pacificamente attraverso l'autostrada centrale fino a Masaya.

 

In parallelo, sul viale da Chávez a Bolívar, che divide la capitale in due e raggiunge il lago Xolotlán, il partito governativo convocava la sua militanza per celebrare la festa della mamma con una cantata. Anche qui una folla di persone che canta e scandisce slogan. Non tutti sono riusciti ad arrivare. Il convoglio di autobus che veniva dal nord del paese a Managua è stato attaccato con armi da fuoco da persone sconosciute. Al momento il saldo è di un morto e almeno 22 feriti, alcuni gravemente.


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