Lo scenario post voto resta complicato. Al centro di ogni ipotesi di accordo vi è il cupio dissolvi del PD, la cui Direzione prenderà atto oggi delle dimissioni finte di Renzi e darà inizio alla resa dei conti tra renziani e non renziani per la prossima segreteria, con il neoacquisto Calenda pronto a saltare sulla giugulare del gattone ferito. Ma non è certo con il cambio del segretario che il PD potrà uscire dalla sua crisi terminale.

 

Intanto perché i nomi che circolano – da Del Rio a Zingaretti – non fanno presagire una leadership carismatica, che sappia ridare smalto al progetto e, nel contempo, tenere il partito al riparo dalle manovre del ducetto di Rignano. Poi perché sono nomi che si muovono in sostanziale continuità con le politiche del PD dal 2011 ad oggi, non rappresentano certo il segnale forte di una inversione di rotta.

 

Comunque l’uscita di Renzi non potrà che far bene ad un partito schiantato. Lascia dietro di se milioni di elettori persi, un partito ridotto a poche migliaia di iscritti, la perdita di ogni riferimento sociale. Municipali, provinciali, regionali, parlamentari e referendum: ha perso ovunque e con percentuali ogni volta più umilianti, trascinando il partito in un tunnel senza luce.

Lo scenario post voto consegna un quadro politico di difficile lettura. Nella ricerca più o meno affannosa di una maggioranza parlamentare, si assiste ad uno sfoggio di fantasia che s’infrange però sul muro che separa le compatibilità politiche e i numeri. Né la Lega né i 5 Stelle possono immaginare percorsi autosufficienti, il numero di seggi che mancherebbero è tale da non poter essere colmata né con la campagna acquisti per la destra, né per ipotetici transfert di parlamentari dal PD per i penta stellati.

Come nel Paese delle Meraviglie il Cappellaio Matto festeggiava il suo non-compleanno, a Piazza Affari si festeggia il non-crollo dei mercati. Dopo il trionfo delle forze populiste alle elezioni di domenica 4 marzo, lunedì il Ftse Mib ha toccato in giornata una perdita massima del 2%, ma poi ha chiuso con un ben più modesto -0,4%. E martedì è addirittura salito dell’1,75%, maglia rosa fra i listini europei. Intanto, lo spread Btp-Bund viaggia placido in zona 130 punti base, lontanissimo dai livelli di guardia.

Il risultato elettorale disegna un’Italia inedita. Si chiude l’epoca del bipolarismo su base maggioritaria concepito negli ultimi venti anni e viene archiviato il modello dell’alternanza tra centrodestra e centrosinistra. La destra fascio-leghista arriva vicino al 25% (complessivamente) mentre scompare la sinistra, che non arriva al 5%.

 

La più importante novità è l’affermazione straordinaria del Movimento 5 Stelle, che ha superato ogni previsione dei sondaggi. Sul piano numerico il M5S è il primo partito del paese perché riesce a imporsi in tutto il Sud, addirittura con risultati schiaccianti in Sicilia e Calabria, dove distrugge l’antico sistema di potere feudale gestito dai partiti. I grillini catalizzano tutto lo scontento del paese per la macelleria sociale delle politiche rigoriste e ai disastri di quelle ipocrite e  improvvisate sull’immigrazione che producono ulteriore disagio.

Jean Claude Juncker, oltre a fare di mestiere il presidente della Commissione europea, è anche un gaffeur di prima categoria. La settimana scorsa si è prodotto davanti ai microfoni nella seguente affermazione: “Sono preoccupato per l’esito del voto in Italia. Dobbiamo prepararci allo scenario peggiore, quello di non avere un governo operativo”, che potrebbe portare a “una forte reazione dei mercati nella seconda metà di marzo”.

 

In piena campagna elettorale, forse nemmeno a mettersi d’impegno con 10 collaboratori si riuscirebbe a concepire una sortita più inappropriata e offensiva per la sovranità dell’Italia e del suo elettorato. Sembra quasi che, periodicamente, i vertici di Bruxelles dimentichino l’importanza del proprio ruolo e le basi del rispetto istituzionale.

 

Per certi versi la perla di Juncker ricorda quella distillata un anno fa dell’ex (e non rimpianto) presidente dell’Eurogruppo, Jeroen Dijsselbloem, che qualificò i Paesi mediterranei come spendaccioni dediti all’alcol e alle donne. Qualcuno deve averlo fatto notare al lussemburghese, che infatti poco dopo ha provato a rattoppare il buco smentendo le sue precedenti affermazioni. Ancora più patetico.  

 

Dal punto di vista europeo, quella di Juncker non è solo una figuraccia, ma anche un atto di autolesionismo. Possibile che, fra Commissione e dintorni, nessuno si renda conto di quanto disprezzo circoli fra le masse elettorali nei confronti delle istituzioni comunitarie? Davvero nessuno si è accorto che quando uno dei vertici Ue prende posizione su una questione interna a un Paese membro, la reazione degli elettori è sempre di segno opposto? Eppure basterebbe ricordare come andò a finire nel 2016, dopo che Bruxelles aveva passato mesi a paventare invasioni di cavallette e piogge di fuoco in caso di vittoria del No al referendum costituzionale italiano.

 

Ma al di là della loro stupidità politica, le parole di Juncker hanno un pregio. Ci ricordano una realtà banalissima, di cui siamo e saremo responsabili, ma che al momento abbiamo rimosso. Ovvero che, in caso di sbando elettorale, i fondi inizieranno a vendere titoli di Stato italiani e azioni delle aziende del nostro Paese, scommettendo sul declino della nostra economia. Non si tratta di evocare la dittatura dei mercati finanziari, né di suggerire che in cabina elettorale bisognerebbe pensare prima al volere degli investitori che al contesto sociale. Il punto è un altro.

 

L’eventuale impossibilità di formare un “governo operativo” dopo il 4 marzo non andrà imputata agli elettori, ma al Rosatellum. Una legge elettorale concepita solo per evitare la vittoria del Movimento 5 Stelle (forse per riflesso all’Italicum, che invece avrebbe decretato senza dubbio il trionfo grillino), ma che al contempo dà la semi-certezza di non poter formare alcuna maggioranza in Parlamento. L’unica coalizione che ha qualche possibilità di farcela sembra essere quella di centrodestra, in cui Berlusconi si presenta come padre nobile del Ppe, mentre Salvini ciancica tutti gli slogan dell’antieuropeismo più pecoreccio.

 

Al momento, l’unica certezza è che tutte le parti in campo hanno respinto 100 volte l’ipotesi di costruire una grande coalizione in stile Enrico Letta. Se terranno fede a questa promessa, rimarranno solo due alternative: l’assenza di governo oppure un governo di cui fa parte Matteo Salvini. Come dire che ci troviamo a un bivio tra la confusione e il caos.

 

In queste condizioni, è logico prevedere che i mercati reagiranno male. Non ci saranno cataclismi né spari dai tetti, ma sul breve periodo lo spread salirà (anche perché nel frattempo la Bce sta chiudendo il Qe) e le nostre aziende quotate perderanno dei soldi.

 

Alla fine, perciò, Juncker ha fatto come il bambino di una fiaba di Andersen, quella in cui due truffatori rifilano a un Re vanitoso e credulone un vestito “invisibile agli stolti”. Mentre tutto il reame finge di vedere ciò che non esiste, il bimbo grida con candore: “Il Re è nudo”.


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