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di Fabrizio Casari
Siamo dunque giunti al momento del voto, per decidere se la Carta Costituzionale deve essere difesa o diventare invece lo strumento giuridico fondamentale per le nuove avventure autoritarie. E' una controriforma folle, pasticciata nella sua elaborazione e demenziale nella sua applicazione.
Sul piano politico generale é una controriforma che affossa il patto sociale e costituzionale siglato dalle forze politiche a seguito della sconfitta del fascismo. Sul pian normativo afferma la fine dell’equilibrio fra i tre poteri dello Stato (Esecutivo, Legislativo e Giudiziario) e, con la venuta meno della relazione tra pesi e contrappesi (il famoso ceck and balance) sancisce la supremazia dell’Esecutivo sugli altri due.
Attraverso la legge elettorale che l’accompagna, la controriforma di Renzi propone con un solo 25% dei voti al secondo turno la conquista della maggioranza assoluta dei seggi alla Camera; il che, attraverso il consenso del Parlamento, consente la formazione del Governo, la nomina della Corte Costituzionale e di una quota del Consiglio Superiore della Magistratura, oltre che dei vertici della RAI. Quindi, gli organi di controllo del Governo saranno nominati dal partito che vincerà le elezioni.
Questo stabilisce che i controllori diverranno controllati e i controllati diverranno controllori. Il Primo Ministro diventa imperatore. E non a caso il governo Renzi ha imposto al Parlamento la fiducia per far passare la sua legge elettorale. Anche se ora inganna gli elettori dicendo che la cambierà, in realtà Controriforma costituzionale e Italicum fanno parte della stessa operazione, si tengono l’una con l’altra.
Il Paese si è diviso come mai nelle epoche recenti e già questo dovrebbe indicare l’impraticabilità di questa controriforma, dato che le modifiche alla Carta, oltre alle procedure previste all’articolo 138, si fondano su un consenso ampio e trasversale di tutta la società, dal momento che le regole del gioco democratico devono incontrare il favore di tutti coloro che al gioco partecipano.
Già in premessa c’è da osservare l’assurdità del tutto. Che a riformare il Senato sia stato un Parlamento eletto con una legge incostituzionale, rappresenta perfettamente il lato paradossale di questa penosa commedia italiana, così come lo è altrettanto il fatto che un premier eletto da un complotto di corte si erga a garante del funzionamento democratico.
Nel merito, poi, se vincerà il Sì, il Senato sarà destinato a diventare il maggiore e più costoso ente inutile del sistema pubblico. I risparmi non esistono, visto che il costo per le attività dei nuovi senatori sarà superiore ai risparmi, comunque ammontanti a un caffè all’anno per ogni elettore. Verrà insediato senza un voto popolare ma scelto dal censo imperante, cioè la casta partitocratica venduta a quella finanziaria.
I nuovi senatori avranno un doppio incarico (e annessa immunità) e daranno ai partiti la possibilità di scegliere chi nominare senatore senza nemmeno togliersi il disturbo di chiedere il voto popolare. Così, la riforma del Titolo V della Carta resta impantanata nell’applicazione del dettato del Piano di Rinascita Democratica redatta da un toscano ancor più famoso di Renzi.Solo in Italia è possibile ipotizzare l’elezione di un organo legislativo che non sia votato dagli elettori. In nessun altro paese al mondo sarebbe possibile anche solo pensarlo. Se si vogliono cercare parallelismi internazionali è bene ricordare un esempio su tutti: nel 1913, gli Stati Uniti decisero che i senatori - fino ad allora eletti dalle assemblee degli stati - dovessero essere eletti direttamente dai cittadini, proprio per rafforzare la democrazia rappresentativa.
Una ulteriore anomalia di questa campagna elettorale è stata il protagonismo del Governo, che diversamente da quanto prevede una prassi consolidata, non è stato affatto neutrale. Anzi, si è schierato con i mezzi e le risorse di cui dispone grazie alla fiscalità generale, alterando così la regolarità del confronto che dovrebbe basarsi sulla parità di condizioni.
Ed è proprio sull’invasione di campo del governo nel referendum che si è misurato il peggio di questa campagna elettorale. Minacce, bugie spudorate, insulti, aggressioni e ricatti, manipolazione dei dati e della stessa scheda elettorale, false informazioni sulle ricadute economiche del voto, raggiro del voto estero, sono state la quinta essenza della campagna di un Primo Ministro scorretto e bugiardo, capace di vendere fumo e mentire pur di vincere.
Chiunque può porsi una domanda semplice: perché tanto livore, tanta furia? Perché esibire un armamentario come quello testé citato visto che il Paese fino ad oggi è andato avanti lo stesso? Perché trasformare in un Armageddon una riforma che, anche chi ha deciso di votarla, ammette non essere certo un capolavoro?
Le ragioni sono diverse, di ordine interno ed internazionale e sarebbe lungo trattarle qui ed ora. Ma quello che si può dire subito è che la posta in gioco è molto più alta di una modifica della Carta, che non sarebbe poi né la prima né l’ultima. La controriforma di Renzi non ha come obiettivo snellire i procedimenti legislativi, bensì quello di imporre un modello autoritario di governo che, ad oggi, non potrebbe realizzarsi a Costituzione vigente.
Il disegno di controriforma costituzionale, infatti, rappresenta la formalizzazione di una nuova idea di comando del potere economico e finanziario (al quale è asservito quello politico) sulla società italiana. Di fronte ad un evidente scollamento tra Paese reale e Paese politico, si è scelto di impedire che il primo orienti o condizioni il secondo.
Con il venir meno della capacità di governare, si sceglie il controllo autoritario sui governati, imponendo la fine dei processi elettorali per interrompere il problematico legame tra rappresentanze e rappresentati. La causa evidente di questa involuzione autoritaria sta proprio nella difficoltà da parte dei poteri dominanti di governare i processi di scomposizione sociale determinati dalla crisi economica che attanaglia le società europee.
E’ una crisi di credibilità e di prospettive quella delle elites, seguita al fallimento della proposta ideale della globalizzazione, dipinta come l’età dell’oro e rivelatasi invece come la crisi più nera della storia economica e sociale contemporanea. Il capitale ha dichiarato guerra al lavoro e l’idea del fare denaro con il denaro è stata la summa della trasformazione di un sistema che ha imposto la progressiva supremazia del capitalismo finanziario su quello industriale, mentre l’ideologia del rigore finanziario ha sostituito quella di un modello economico applicabile e inclusivo.
Ciò ha trasformato il lavoro in una variabile da sostenere solo se in condizioni di schiavitù e con politiche salariali destinate verso il minimo di sussistenza in nome del contenimento dell’inflazione. Queste politiche hanno determinato lo sprofondamento dei ceti medi verso l’area della proletarizzazione e, quest’ultima, è divenuta un magma fondato sulla precarietà più assoluta, oltre a veder chiaro come l’ascensore sociale sia ormai un malinconico ricordo.
Parallelamente, i ricchi sono diventati molto più ricchi e i poveri molto più poveri, la forbice sociale si è allargata a dismisura e l’azzeramento del welfare è stato la leva per costruire nuova capitalizzazione attraverso la privatizzazione dei servizi.
Ma la sostituzione dei servizi pubblici a vantaggio del profitto privato, oltre a rappresentare la fine della concezione universalistica dei diritti, ha uteriormente impoverito il Paese. Con una disoccupazione giovanile che sfiora il 55%, una mancanza di lavoro che arriva al 12%, con 11 milioni di italiani che hanno smesso di curarsi per mancanza di risorse e l’erosione del risparmio familiare, si è creata una condizione di arretratezza economica che ha riportato l’Italia indietro di decenni. La crescita è ridicola, non arriva allo 0,9% e non è stata in grado di approfittare della congiuntura straordinariamente positiva, determinata dal prezzo basso del petrolio e dal quantitative easing della BCE.
Nemmeno questo è servito: il debito pubblico è aumentato ed il riassetto idrogeologico italiano non è nemmeno cominciato. Ma il governo, da quattro mesi, si occupa solo del suo disegno di potere, l’Italia è ormai terra di conquista per un manipolo di grembiulini e compassi dalle ambizioni decisamente superiori alle loro qualità.
In questo quadro, quindi, inutile tacciare di populismo le reazioni della società colpita, umiliata e ridotta a variabile dei cicli economici. In assenza della rappresentanza di interessi popolari e in presenza di un processo normativo che tende con forza all’eliminazione dei corpi intermedi, si delinea una distanza incolmabile tra le esigenze di tenuta del quadro sociale che si riverbera su quello politico.
Ecco perché la contrazione degli spazi di democrazia che ci viene proposta esprime una insopportabilità delle regole che lo stesso sistema liberal-democratico si è dato: l’investitura popolare delle istituzioni risulta un terreno minato per i poteri e la governabilità si trasforma in comando.Uno dei passaggi nei quali avviene il percorso di rigetto della volontà popolare è proprio la riduzione ai minimi termini dell’esercizio del voto, che ha imposto - con la complicità attiva del Quirinale a guida Napolitano - ben tre governi tecnici, espressione cioè del controllo europeo sul Paese.
Certo, la Carta prevede che sia il Parlamento a fornire della fiducia il governo e che questo non sia diretta espressione del voto popolare, ma questo aspetto non tragga in inganno. Costruire governi in Parlamento è legittimo quando lo stesso è espressione comunque del voto, mentre sia il governo Monti che quello Letta, e a maggior ragione quello Renzi, sono espressione di equilibri determinatisi negli apparati di sistema interni ed esteri e non conseguenza di un voto popolare.
E che la tendenza sia quella di bypassare completamente la volontà popolare lo si può osservare ad ogni livello. Esempi? Nonostante una sentenza della Corte Costituzionale, anche nella controriforma s’impedisce la possibilità di apporre le preferenze sulla scheda elettorale; benché continui l’esistenza di un ente come le Province, si toglie ai cittadini il diritto di votarle; nonostante si mantenga in vita il bicameralismo, si nega al popolo il diritto di eleggere i senatori. Di questo passo non voteremo più nemmeno nelle assemblee di condominio.
La possibile dicotomia alla quale Norberto Bobbio si riferiva quando poneva a confronto la democrazia formale e quella sostanziale, trova così la sua sintesi peggiore e definitiva: ormai lontana quella sostanziale, si elimina del tutto anche quella formale.
Questo è quello su cui siamo chiamati a votare: la possibilità di continuare a farlo. Il tentativo di Renzi è quello di assegnare ai poteri forti - e speso occulti - il dominio completo sull’Italia. Sarà obbligatorio dire di NO. Abbiamo bisogno di un Paese di sana e robusta Costituzione.
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di Antonio Rei
Mentre tutta Europa aspetta il referendum del 4 dicembre e mezza Italia s’interroga sul verdetto della Corte Costituzionale in merito all’Italicum, la Consulta spiazza tutti e boccia la riforma della pubblica amministrazione. Una sberla inattesa per il governo, che pochi giorni prima aveva varato cinque decreti attuativi proprio della legge Madia. Provvedimenti che ora andranno riscritti, visto che i giudici costituzionali hanno ritenuto illegittima la legge delega che sta a monte.
In particolare, la riforma della PA contraddice la Carta nel punto in cui stabilisce che per gli atti di riordino del settore pubblico (compresi i licenziamenti) il Governo non è tenuto a trovare un’intesa con la Conferenza Stato-Regioni: basta che ne ascolti il parere. Un’impostazione contro cui si è scagliato il Veneto, che ha fatto ricorso perché non accettava di non poter più nominare i direttori generali delle aziende ospedaliere regionali, i quali dopo la riforma sarebbero stati imposti da una commissione di nomina governativa.
La reazione del premier Matteo Renzi è sembrata mossa da furia impulsiva: “Noi avevamo fatto un decreto per rendere licenziabile il dirigente che non si comporta bene - ha detto - e la Consulta ha detto che siccome non c’è intesa con le Regioni, avevamo chiesto un parere, la norma è illegittima. E poi mi dicono che non devo cambiare le regole del Titolo V. Siamo circondati da una burocrazia opprimente”.
Al di là della solita arroganza, non è chiaro se stavolta Renzi sia arrivato a insultare addirittura la Corte Costituzionale, a cui logicamente dovrebbe essere riferito quel poco onorevole epiteto di “burocrazia opprimente”. Sono parole di un leader sull’orlo di una crisi di nervi, ma stavolta è comprensibile. Il Premier sa benissimo che questo pronunciamento della Consulta avrà un peso sull’esito del referendum della prossima settimana.
In effetti, a qualsiasi elettore può sorgere un dubbio assai banale, ma non per questo sbagliato. Ovvero: perché mai dovremmo consentire a questo governo di riformare 47 articoli della Costituzione, visto che non è stato in grado nemmeno di riformare la PA senza violare la Carta? La risposta è altrettanto banale, ma non per questo meno giusta: non dovremmo.
E non dovremmo soprattutto perché lo stesso destino della riforma Madia ci dimostra quale sia la reale concezione del potere ai tempi del renzismo. Per l’attuale Premier la parola “concertazione” è una bestemmia, a qualsiasi livello, mentre la “sussidiarietà” di cui parlavano i padri costituenti si è una parola uscita da vocabolario. Il bullismo istituzionale del Presidente del Consiglio si fonda su un presupposto semplice: l’efficienza è inversamente proporzionale al numero di persone che esercitano il potere. In altri termini, l’obiettivo principale di Renzi è il rafforzamento dell’esecutivo a danno degli altri poteri e delle altre istituzioni.Di qui il Governo che decide senza ascoltare le Regioni, la Camera che legifera senza bisogno del Senato, il partito vincitore delle elezioni che incassa il 54% dei seggi anche se rappresenta il 30% (o meno) degli elettori, il capo del partito che stabilisce le liste elettorali determinando chi sarà eletto deputato. Fa tutto parte dello stesso pacchetto, che s’inserisce nella logica post-berlusconiana dello Stato come azienda e del governo come Consiglio d’amministrazione. Un’ottica in cui gli statali vengono licenziati come fossero stati assunti tramite colloquio in una struttura privata anziché al termine di un concorso pubblico.
Vogliono convincerci che questo modo di pensare sia la sola medicina possibile, l’unica via per ammodernare il Paese e farlo ripartire. La Corte Costituzionale ha detto di no e c’è da sperare che il 4 dicembre l’Italia faccia altrettanto.
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di Antonio Rei
Non solo non lo hanno punito né ripreso: lo hanno addirittura premiato. Il governatore della Campania, Vincenzo De Luca, sembra mettercela davvero tutta per screditare se stesso e il Partito Democratico, ma il governo Renzi non può prendere le distanze da uno dei suoi principali amministratori a 10 giorni dal referendum costituzionale. Non era però scontato che decidesse addirittura di approvare un emendamento alla legge di Bilancio per aumentare il suo potere.
Ma andiamo con ordine. Nel corso di una riunione con i sindaci campani, stando a una registrazione pubblicata da Il Fatto Quotidiano, De Luca si è espresso in questi termini: “Prendiamo Franco Alfieri, notoriamente clientelare - risate, applausi - Come sa fare lui la clientela lo sappiamo. Una clientela organizzata, scientifica, razionale, come Cristo comanda. Che cosa bella. Ecco, l’impegno di Alfieri sarà di portare a votare la metà dei suoi concittadini, 4mila persone su 8mila. Li voglio vedere in blocco, armati, con le bandiere andare alle urne a votare il Sì. Franco, vedi tu come Madonna devi fare, offri una frittura di pesce, portali sulle barche, sugli yacht, fai come cazzo vuoi tu, ma non venire qui con un voto in meno di quelli che hai promesso”.
Umorismo vergognoso o istigazione al voto di scambio? Se le parole del governatore costituiscano o meno un illecito penale lo decideranno i magistrati e al momento la Procura competente afferma che non è stata formulata alcuna ipotesi di reato. Ma il punto non è questo. Il punto è che questo volgare discorsetto tra compagni di bevute non è avvenuto in un bar dello sport, ma in una riunione tra amministratori pubblici.
E infatti più avanti De Luca spiega le vere ragioni della sua sfrenata passione per il Sì al referendum. Non c’entra nulla la riforma in sé, né alcuna preoccupazione per la nostra Carta Costituzionale, ma un bieco calcolo di campanile: fin qui il governo Renzi ha concesso alla Campania tutti i soldi pubblici che poteva, come nessuno aveva fatto prima, perciò non deve cadere.
A questo siamo ridotti. Ai sindaci e ai governatori che si spendono per cambiare 47 articoli della Costituzione con l’unico obiettivo di far quadrate i propri conticini della serva. Sarebbe questo il radicamento sul territorio del Pd. E, soprattutto, sarebbe questa la schiatta di politici che andrebbe a colonizzare il Senato nello scenario post-riforma.
In effetti, visto che è tornato di stretta attualità parlare di localismo, campanilismo e soprattutto clientelismo, vale la pena di sottolineare una delle principali aberrazioni che la riforma tanto magnificata da De Luca rischia d’introdurre. L’elezione diretta dei senatori non è un capriccio di chi vota NO, ma l’unico modo per garantire che a Palazzo Madama si riunisca un’assemblea davvero rappresentativa delle autonomie locali. La versione partorita da Boschi e Verdini, invece, prevede che a scegliere i consiglieri regionali e i sindaci che andranno in Senato siano i Consigli regionali.
Questo significa che la carriera politica dei senatori rimarrebbe legata al loro contesto iper-locale. Il che avrebbe conseguenze allucinanti: ad esempio, se il sindaco di Pisa venisse eletto senatore, a Palazzo Madama farebbe gli interessi di Pisa, non della Toscana. E lo stesso discorso varrebbe per i consiglieri regionali legati a particolari province (e lo sono sempre). A quel punto immaginate quante belle conversazioni sulle fritture di pesce.
Insomma, con quel suo sproloquio indifendibile De Luca ci ha spiegato involontariamente ma come meglio non avrebbe potuto per quale ragione dobbiamo votare NO. Ovviamente il governo ha già derubricato le risate sul clientelismo a innocua goliardia, un po’ come faceva Berlusconi qualche anno fa con le sparate assurde di Bossi e compagnia padana.
Solo che, nel caso di De Luca, il Pd ha addirittura rilanciato. La commissione Bilancio della Camera, infatti, ha approvato l’emendamento del relatore della legge finanziaria (Mauro Guerra, Pd) che prevede la possibilità per i presidenti di Regione di ricoprire l’incarico di commissari della sanità quando si verifica un percorso di rientro dai conti in rosso.
Una norma cucita addosso al governatore della Campania, che si trova proprio in questa situazione. L’unico vincolo che dovrà sopportare sarà una verifica semestrale da parte dei ministeri dell’Economia e della Salute. E tra un controllo e l’altro, sai quante altre battute esilaranti?
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di Fabrizio Casari
La notizia è passata inosservata, com'era inevitabile vista la rilevanza, ma il fatto è che l'ex sindaco di Roma, Alemanno e l'ex presidente della Regione Lazio, Storace, hanno deciso di tornare insieme. Questione di decimali elettorali, certo, ma indicativo di un altro passo verso la rieggregazione dell'ex Msi, poi An. Ma ai piccoli passi di un'area seguono le grandi distanze in altre attigue. Non trova pace la destra italiana.
Quella ufficiale, s’intende, che è cosa numericamente inferiore a quella diffusa, trasversale e insinuata pressoché ovunque. Ma quella ufficiale, ovvero il corpo vedovo del berlusconismo, non ha ancora trovato una collocazione, dunque nemmeno una sigla e meno che mai un leader.
Ma è in particolare l’area di ciò che un tempo fu Forza Italia a vivere nell’incertezza, priva di una prospettiva politica a breve termine. Alla permanente ricerca del “quid”, nostalgica di ciò che fu e incerta su cosa essere, la maggioranza silenziosa che si riconobbe nel miracolo berlusconiano resta in lista d’attesa. Dopo Alfano e Toti, la ricerca del successore di Berlusconi prosegue senza successo; l’ultima investitura, quella di Parisi, come le precedenti si è convertita in una morte prematura.
Berlusconi continua a detenere, teoricamente, la quota di maggioranza del pacchetto azionario, ma le convulsioni e gli sbarramenti che a giorni alterni pongono gli ex-colonnelli di AN e gli ex cortigiani di Berlusconi, le uscite dei vari Alfano e Verdini da una parte, della Meloni e di Alemanno dall’altra, aggiungono confusione e veti incrociati e rendono opaco il tutto.
La destra radicale, da parte sua, sembra voler strappare ma non lo fa: benché l’OPA di Salvini e Meloni sul centrodestra sia ormai ufficiale, la scalata è difficile. I due pasdaran, che insieme non fanno un leader, dispongono però di una quota di controllo sull’elettorato di destra che, seppure non basta per vincere, è più che sufficiente per far perdere. Dunque impossibile tenerli ai margini della ricostruzione della destra, perché quanto avvenuto nel 1994, con il partito di Berlusconi alleato con la Lega al Nord e con An al Sud non è più riproponibile, considerati i mutamenti del quadro politico ed elettorale intervenuti, tra cui appunto, la scomparsa di Forza Italia, ovvero il collante del processo.
Ma Parisi dal suo punto di vista ha ragione: nel caso i moderati del centro-destra volessero disporre di un proprio partito, allora la scelta non potrebbe certo essere quella di seguire Meloni e Salvini.
Mantenere una diversa identità tra “centro” e “destra” è molto più che non un trattino. Possono rappresentare un programma politico in comune? Oggi è quanto mai difficile. Proprio per questo, però, proprio Berlusconi dovrebbe sostenere Parisi, ma appare ormai evidente come sia proprio il Cavaliere a non voler avviare il processo di ricostruzione del centro-destra deberlusconizzato.
In fondo Berlusconi sa che le aggregazioni politiche importanti hanno bisogno di un contesto che ne favorisca la genesi. Nel 1994 la fine della DC fu la leva per la migrazione del suo elettorato verso la nuova destra; lontani dalle suggestioni fascio-legiste, milioni di italiani ritrovarono la loro collocazione politica, perché prima di essere democristiani erano soprattutto anticomunisti e ostili alla sinistra in generale.
Oggi però la collocazione al centro degli eredi della sinistra non favorisce l’innesco ideologico che ci fu nel ’94 e la questione è tutta di architettura politica. Qui risiedono le difficoltà del Cavaliere nel dare il via libera a Parisi. Da imprenditore, sa come e quando intervenire per riempire un vuoto, per intercettare una domanda di rappresentanza. E il problema è, appunto, che lo spazio che fu di Forza Italia alle origini è lo stesso su cui di dirige il Partito della Nazione dell’accoppiata Renzi-Verdini, con Alfano e i resti del CCD a seguire.
Berlusconi non cerca un nuovo leader per i moderati perché c’è già Renzi che presidia quello spazio. A Renzi, al netto delle frasi e delle smentite di circostanza, Berlusconi riconosce una sua unicità e nei suoi confronti, anche riservatamente, esprime giudizi lusinghieri. La diaspora del centrodestra gli interessa fino a un certo punto: altro che Parisi, Salvini o Toti, il suo uomo di fiducia è Denis Verdini, autentico ufficiale di collegamento con Renzi e garante del rispetto del Patto del Nazareno.
Non è quindi un caso che il cosiddetto NO di Berlusconi arrivi tanto flebile da sembrare un SI; l’ex leader del Polo auspica la vittoria di Renzi ma non può dirlo. E’ la versione berlusconiana della politica dei due forni. Solo la permanenza di Renzi sarebbe una garanzia per lui e le sue aziende. Ma, non essendo certo di cosa potrà avvenire, se cioè il garante del Patto del Nazareno avrà o no un futuro, schiera Forza Italia per il No e Mediaset per il Si. Così si tiene aperte tutte le possibilità.
Renzi, da parte sua, oltre a far conto proprio sui voti degli elettori di Forza Italia per superare il 4 Dicembre, non fa niente per deludere il Cavaliere: da tempo è all’inseguimento del berlusconismo, soprattutto sotto il profilo della comunicazione politica, al punto che ormai diventa difficile non cogliere nei suoi atteggiamenti una continua rincorsa al modello di comunicazione che fu di Berlusconi.Convinto che l’ex-leader di Forza Italia sia il modello vincente, utilizza l’arma della spregiudicatezza politica e l’ossessiva presenza mediatica come braccia di un corpo votato definitivamente allo stesso obiettivo del suo ispiratore. L’obiettivo è chiudere con la storia della sinistra e dei sindacati. Il maestro non vi riuscì, l’allievo ci prova.
Per questo insieme di fattori, l’appuntamento referendario sarà decisivo anche per la ricostruzione del centrodestra. Oltre alla riuscita o meno del progetto di trasformare il sistema democratico in autoritario, gli elettori in ente inutile e la sinistra in destra, il 4 Dicembre sarà forse anche data decisiva per una destra che dovrà ricontarsi per provare a rifondarsi.
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di Antonio Rei
Nella corsa a ostacoli verso il referendum del 4 dicembre si è iscritto anche un nome a sorpresa. Quello di Ignazio Visco, governatore della Banca d’Italia. La campagna con cui il governo Renzi cerca disperatamente di far risalire il SÌ, che tutti i sondaggi danno in svantaggio, è costellata di tutti i colpi bassi possibili. Non era però scontato che si prestasse al gioco anche una delle istituzioni più importanti e autorevoli del nostro Paese, tenuta all’indipendenza all’imparzialità rispetto alla politica. Bankitalia, appunto.
A pagina 28 dell’ultimo “Rapporto sulla stabilità finanziaria dell’Italia”, i tecnici di Via Nazionale scrivono quanto segue: “Il differenziale fra la volatilità implicita del mercato italiano e quella dell’area dell’euro è elevato; gli indicatori segnalano un forte aumento della volatilità attesa per il mercato italiano a ridosso della prima settimana di dicembre, in corrispondenza con il referendum sulla riforma costituzionale”.
In precedenza, lo stesso Visco aveva detto la sua in modo piuttosto chiaro: "Io non so quanto inciderà l'esito del referendum. Nel mondo, è opinione diffusa che la vittoria del No potrebbe essere un problema. Io penso, e lo dico agli interlocutori esteri con i quali parlo ogni giorno, che potrà esserci un po' di tensione, ma aggiungo anche che bisognerà andare oltre la tensione, perché le riforme istituzionali vanno fatte in ogni caso".
Tutto ciò si somma alle parole di Salvatore Rossi, direttore generale della Banca d’Italia, che in un’intervista di qualche settimana fa si era espresso in questi termini: “Da un punto di vista di efficienza del processo decisionale di politica economica non c’è dubbio che il bicameralismo perfetto all’italiana sia un sistema da correggere. Non a caso la comunità internazionale si è convinta trattarsi della ‘madre’ di tutte le riforme strutturali per l’Italia. Come farlo è materia di tecnica costituzionale e in fin dei conti di grandi scelte politiche, dunque è giusto che a pronunciarsi sia tutto il popolo”.
Il popolo infatti si pronuncerà, ma la posizione dell’istituto centrale - che con la politica non dovrebbe avere nulla a che fare - è assolutamente cristallina. Bankitalia vota SÌ, lo possiamo dire con certezza. Di per sé questa non è una grande sorpresa, ma a stupire sono i modi scelti da Via Nazionale per alimentare la campagna propagandistica del Governo.
L’affermazione riguardo al “forte aumento della volatilità” in corrispondenza del referendum, per di più a così breve distanza dal voto, è evidentemente l’ultima delle molte profezie di sventura pronunciate per intimorire la classe media. L’obiettivo ultimo è spingere gli indecisi a non deludere le aspirazioni dell’establishment, che farebbe di tutto pur di non rinunciare all’accentramento di potere previsto da questa riforma.
E allora ecco che Renzi prima dice di non voler fare campagna sulla paura, perché se vincesse il NO non arriverebbe l’apocalisse, poi però prospetta agli italiani uno scenario in cui con la riforma crescerebbe il Pil, mentre senza salirebbe lo spread. Anche il ministro del Tesoro, Pier Carlo Padoan, ha lanciato più volte lo stesso avvertimento, seppur in termini meno grossolani.
In realtà, il terrorismo psicologico del Governo sullo spread è in mala fede, poiché da anni la Bce ha messo in campo gli strumenti necessari a scongiurare qualsiasi attacco speculativo contro l’Italia. Ma anche la tempesta in Borsa paventata da Bankitalia non è poi così scontata. I titoli bancari hanno perso molto nelle ultime sedute proprio perché gli operatori stanno già traendo le conseguenze della prevedibile vittoria del NO. Se e quando questa arriverà sul serio, perciò, il mercato l’avrà già scontata, almeno in parte.
Non bisogna poi dimenticare quello che è accaduto dopo i rivolgimenti politici più assurdi di quest’anno: la Brexit e la vittoria di Donald Trump alle presidenziali Usa. Nel primo caso il panic selling durò pochissimo e i mercati persero molto meno di quanto gli analisti avevano previsto; nel secondo, incredibilmente, le Borse mondiali hanno reagito in modo addirittura positivo, smentendo le solite Cassandre interessate che avevano previsto una perdita fino al 7% per Wall Street in caso di sconfitta di Hillary.Ma in fin dei conti, la considerazione che più conta è un’altra. In gioco con questo referendum c’è la Costituzione italiana. La Carta più importante, quella che descrive chi siamo e che determina in che modo saremo governati. Davvero dovremmo decidere di stravolgerne 47 articoli (sì, sono 47!!) perché altrimenti cade il Governo e i mercati si agitano?
Anche ammettendo per assurdo che questo sia il Governo migliore della nostra storia e che davvero i gli investitori scateneranno l’Armageddon se lo vedono fallire, sarebbero questi dei motivi validi per votare SÌ? La risposta, anche in questo caso, è NO.