di Antonio Rei

Inizia nel più solenne dei modi una stagione d’affanni per Matteo Renzi. Il Premier ospita oggi a Ventotene il presidente francese François Hollande e la cancelliera tedesca Angela Merkel per parlare di temi come la gestione dei migranti e la lotta al terrorismo. La scelta di tenere l’incontro nello stessa isola dove durante la guerra Spinelli, Rossi e Hirschmann scrissero il Manifesto “Per un'Europa libera e unita” voleva essere simbolica, evocativa, ma il risultato è una grottesca parodia del progetto concepito negli anni Quaranta.

Per dare almeno un’impressione di unità avrebbero potuto organizzare a Ventotene una riunione paneuropea. Invece, con involontaria onestà, hanno scelto l’isola del Manifesto unitario per celebrare la frammentazione che governa l’Ue, dove le decisioni vengono prese dal direttorio franco-tedesco e ratificate dagli altri Paesi.

A questi vertici di comando partecipava negli anni passati anche il Regno Unito, che però si è auto-escluso con il voto in favore di Brexit. All’Italia è stato concesso il posto lasciato libero da Londra, ma la posizione del nostro Paese rimane più che mai subalterna, soprattutto dopo gli ultimi sviluppi del quadro economico.

Al di là dell’agenda ufficiale, è facile prevedere che il Presidente del Consiglio sfrutterà la riunione di oggi per affrontare in modo informale il nodo della flessibilità sul deficit che l’Italia si prepara anche quest’anno a chiedere alla Ue. In sostanza, il Premier vuole convincere Merkel e Hollande a concedergli le risorse aggiuntive necessarie alla nuova legge di Stabilità, che a sua volta dovrà servire da grimaldello per la vittoria del Sì al referendum costituzionale.

Il problema è che, numeri alla mano, il nostro Paese sta andando peggio della media europea e difficilmente potrà meritare altri sconti. Secondo la stima preliminare dell’Istat, nel secondo trimestre il Pil è rimasto al palo: +0% (non accadeva dal 2014), contro il +0,1/+0,2% che il ministro dell’Economia Pier Carlo Padoan aveva detto di attendersi soltanto lo scorso 27 luglio.

A questo punto il governo dovrà ridurre le stime di crescita per il 2016 nella nota di aggiornamento del Documento di economia e finanza che sarà pubblicata entro settembre. Ormai “siamo decisamente sotto l’1%”, ha anticipato il viceministro Enrico Morando. Lo scorso aprile, invece, il governo aveva previsto di chiudere quest’anno con una crescita dell’1,2% e un deficit al 2,3% del Pil, un dato inferiore al 3% imposto dalle regole di Maastricht, che perciò avrebbe consentito buoni margini di flessibilità.

Tuttavia, poiché il Pil aumenterà molto meno del previsto - e contemporaneamente non arriverà alcun taglio alla spesa pubblica - il rapporto deficit-Pil sarà superiore alle attese, limitando molto la flessibilità che potrà essere concessa al nostro Paese. Come anticipato dal Corriere della Sera, gli scenari peggiori contenuti nello stesso Def prevedono per il 2016 una crescita dello 0,7% e un deficit al 2,9% del Pil. Una vera batosta per la manovra pro-referendum.

Renzi potrebbe aggirare l’ostacolo portando gli elettori alle urne sulla riforma costituzionale entro fine novembre, cioè prima del via libera alla legge di Stabilità 2017. In questo modo potrebbe sfruttare l’effetto annuncio, promettendo mance, mancette e favori sparsi (ai pensionati, ad esempio, ma anche ai lavoratori dipendenti e agli autonomi) per accumulare voti in favore del Sì, salvo poi fare marcia indietro in fase di chiusura della manovra.

Del resto, lo spettacolo è già iniziato. Il Premier non spreca un’occasione per ribadire che “il governo continuerà ad abbassare le tasse con la nuova legge di Stabilità”. È il nuovo mantra renziano, che tutti i membri dell’Esecutivo hanno il compito di ripetere fino alla noia, ovviamente senza mai entrare nel merito. Si dice che la priorità sarà data allo stop dell'incremento automatico dell'Iva e al taglio dell’Ires, mentre l’intervento sull’Irpef (ben più costoso) sarà rinviato ancora.

Basterà per comprare il voto degli italiani, molti dei quali vogliono bocciare la riforma della Costituzione per semplice ostilità nei confronti di questo governo? Probabilmente no. Sempre che da Ventotene non arrivi un salvagente per il maldestro inquilino di Palazzo Chigi.

di Giovanni Gnazzi

L’Anpi? Può partecipare ma non parlare. Questo è quanto ha stabilito il soviet supremo del PD in relazione alla partecipazione dell’Associazione Nazionale Partigiani Italiani alla Festa dell’Unità. Il festone a base di tortelli e passerelle, quest’anno, pare sia dedicato in esclusiva alla campagna per il SI al referendum costituzionale d’autunno e, in barba ad ogni rivolo di decenza, le posizioni di chi ha scelto di schierarsi per il NO non sono ammesse. Il che è davvero sintomatico e apre gli occhi anche ai più tenaci degli increduli circa il tasso di democrazia interna al partito di Matteo Renzi.

Immaginiamo cosa possano diventare i momenti conviviali della direzione del PD, fin troppo facile ipotizzare menù unici per pensieri unici. Sintomatico però per un partito che ha costruito la sua proposta di riforma e l’intera politica governativa sulla base di un patto immondo e segreto con la destra che a non poter parlare sia proprio la sinistra.

A detta degli organizzatori, il PD ha il diritto di non sentire critiche alle sue posizioni trovandosi a casa propria. Ovvero, si ospita solo chi la pensa allo stesso modo. Il confronto, che dovrebbe essere il sale della democrazia, viene così rivisitato in una nuova formulazione: chi non è d’accordo con me, non può venirlo a dire in casa mia.

Ovviamente la questione non riguarda solo una scarsa concezione dell’ospitalità. La verità è che il PD ha ormai il terrore di una campagna elettorale che rischia di diventare la tomba politica della lobby che del PD si è impossessata. L’autorità morale e la legittimità politica di una organizzazione come l’ANPI, d’altra parte, giustamente riscuote un rispetto assoluto nelle fila degli iscritti al PD e dunque, il loro NO avrebbe certamente un peso che potrebbe riverberarsi in tutta l’area degli indecisi. Anche perché le notizie circa il dissenso crescente nelle sedi di partito per la scelta governativa sono ormai quotidiane.

Ma in tutta la sua cialtroneria, l’idea di una discussione nella quale sono ammesse solo le posizioni concordanti racconta bene la paura degli argomenti, oltre che dei sondaggi. Del resto l’ANPI, già accusato duramente da Maria Etruria Boschi di deragliare dai suoi compiti istituzionali a seguito del Congresso dove l’associazione decise di schierarsi per il NO ad una riforma a dir poco sbagliata, ora dovrebbe rispettare persino la consegna del silenzio che i parvenu della Leopolda hanno deciso d’imporre a tutti coloro che non spingono sul carretto delle loro ambizioni personali e politiche.

Fa niente che si deve proprio ai partigiani la possibilità che in Italia sia permesso di tenere dibattiti politici con posizioni contrapposte, dal momento che senza la sconfitta del fascismo nessuno potrebbe parlare di niente. Emerge comunque, nella posizione dei dirigenti del PD, una mancanza di rispetto verso quelli che sono stati lo scheletro della nascita del PCI e dell’intera sinistra italiana e questo si accompagna ad un’idea arrogante e totalitaria della politica e ad una concezione proprietaria del partito.

Detti elementi dovrebbero far riflettere la cosiddetta “sinistra del PD”, che ritiene aver ancora margini di discussione interna, con tanto di “pontieri” dell’ultima ora impegnati a ridurre le distanze, a costruire ponti, insomma, tra due sponde che si vorrebbero lontane.

Sarebbe opportuno, per i professionisti del malumore interno perenne, dichiarare che dove non ha diritto di parola la storia, le radici, l’eredità morale del PCI e dei suoi derivati, nemmeno loro possono partecipare. Che i loro seguaci, a qualunque titolo, non parteciperanno a nessuna delle feste, che sembrano essere diventate feste riservate ai signorsì.

Sarebbe un modo efficace per ribadire la connessione sentimentale con i partigiani. L’ANPI, infatti, ove non venisse meno il divieto renziano, non parteciperà alle Feste dell’Unità. Scelta doverosa oltre che comprensibile. Non ebbero la tentazione del silenzio dinanzi all’occupazione militare nazifascista, figuriamoci di fronte all’occupazione di un partito orientato verso la deriva morale e politica che ne sancirà la caduta. Quando mai, del resto, la storia si è impressionata davanti alla cronaca?

di Fabrizio Casari

E’ un voto netto, senz’appello, che indica due letture distinte ma non distanti. Quella di un voto contro Matteo Renzi e il PD, e l’affermazione decisa del M5S, che del governo Renzi è avversario acerrimo. Movimento 5 Stelle che da ieri smette di essere un’ipotesi, un’incertezza, una scommessa politica. E’ ora, a tutti gli effetti, una forza di governo, sebbene la sua affermazione risulti ancora a macchia di leopardo, con consensi importantissimi in alcune zone del paese e maggiori difficoltà in altre. Vedremo da oggi quale sarà la capacità di proporsi come alternativa di medio-lungo termine per un movimento che, difficile da inquadrare ideologicamente, rappresenta certamente una forza di rottura del sistema politico italiano.

Ma sarebbe un errore leggere solo come voto di protesta il consenso ai M5S: il voto di protesta si registra semmai nell’astensione, mentre il voto ai pentastellati appare piuttosto come consapevole, ragionato, che identifica nella novità politica una rappresentanza possibile. Il fatto che il Movimento abbia prevalso ovunque la partita lo abbia visto contro il PD, evidenzia che molti sono stati gli elettori della sinistra, privi di una casa di riferimento, che si sono recati a votare per loro. Perché i meno distanti, perché i più puliti, sono molte le sfaccettature che si sono mescolate in ogni voto di questa porzione significativa dell’elettorato con i 5 stelle.

Ma, prima ancora, perché è ormai persino epidermicamente evidente la percezione del PD renziano come partito di regime, come strumento della lotta per il potere senza nessuna pregiudiziale ideologica o politica. Da Mafia capitale al Nazareno, fino a Verdini, il PD appare ormai come un partito che ha un solo disegno strategico: il potere per il potere, a qualunque prezzo.

E che il voto della sinistra decida ancora lo dimostra la vittoria di Sala a Milano. Di fronte alla possibilità di rivedere la destra a Palazzo Marino scatta la disciplina repubblicana della sinistra radicale e degli indecisi della stessa area che vanno alle urne per votare la soluzione meno drammatica. A conferma di ciò c’è il margine di vittoria di Sala su Parisi, che equivale nelle percentuali al voto della sinistra radicale del primo turno. E indica nei numeri un elemento politico chiaro: la contrapposizione tra il PD e il Centrodestra è l’unica possibilità che vede il PD prevalere.

A conferma di ciò particolarmente significativa risulta l’affermazione di Torino, ottenuta con una candidata portatrice di un pedigree inequivocabilmente di sinistra. E non è casuale che la vittoria di Appendino nasce nei quartieri operai della città, nelle aree più colpite dalla deindustrializzazione, che ha costruito le nuove marginalità sociali. Sono le aree che si ribellano al tradimento della rappresentanza e votano contro una partito che ha scelto l’amministratore delegato della Fiat Marchionne come simbolo della nuova Italia da disegnare, mentre ha riservato un attacco senza sosta, pieno di furore ideologico, contro il sindacato e le rappresentanze dei lavoratori.

Torino è la città delle lotte operaie contro Valletta e Romiti e dunque c’è poco da fare: scegliere il modello Fiat come ispiratore del ridisegno del tessuto economico e sociale, comporta in automatico il rifiuto di chi, di quel modello, è la vittima principale benché non l’unica. Risuonano ora un tantino stonate, anche solo dal punto di vista scaramantico, le parole che Fassino dedicò al Movimento 5 Stelle al quale disse: “Fondi un partito e vediamo se è capace di raccogliere voti”. Ci riesce benissimo, a quanto pare.

La vittoria della Raggi a Roma, prima volta in assoluto di un sindaco donna, è eclatante, tanto per la novità politica che per le dimensioni numeriche, che riducono Giachetti a comparsa e il PD ad un ruolo minore nella città che da sempre lo ha visto come primo partito. D’altra parte, quanto fatto a Marino prima e il coinvolgimento del partito in Mafia Capitale, non potevano restare senza risposta da parte dell’elettorato progressista. E non è certo con Giachetti, espressione del sottobosco politico romano, con Orfini, burocrate listo all’asservimento ai potenti nel ruolo di commissario (ma di cosa e di chi?) o con l’ondivago ed opportunista Barca, tutti nelle vesti di improvvisati salvatori della patria,  che si poteva risanare il PD romano.

A Napoli non c’è stata storia: il sindaco De Magistris ha doppiato Lettieri, espressione della borghesia napoletana dai guanti bianchi per coprire le mani sporche. Desta semmai interesse la percentuale del 67 per cento al sindaco di sinistra, che in due turni ha dapprima interrato il PD di Renzi e poi il centrodestra tutto.

Decisamente ridimensionato appare Salvini, che vede fermarsi a percentuali simili a quelle dei migliori anni di Bossi i consensi alla Lega e, soprattutto, con la sconfitta di Varese perde uno dei suoi feudi storici. L’esposizione mediatica perenne del portatore di felpe non è servita a trasformare le verbosità xenofobe in ipotesi politica. A commento della sconfitta di Parisi a Milano Salvini ha incolpato la scelta di un candidato moderato, dimenticando però che a Roma, dove la sua candidata era tutt’altro che moderata, semmai affine alla storia del fascismo sociale, ha comunque perso. Perché la destra, orfana della leadership di Berlusconi e responsabile di un ventennio negativo nella sua esperienza di governo è somma di voti ma non rappresenta più il sogno con il quale ha incantato milioni di elettori per più di venti anni.

E’ comunque Renzi il grande sconfitto. Lui, per una questione di scontrini, ha scatenato la cacciata indegna di Marino dal Campidoglio, che aveva vinto le elezioni con la stessa percentuale con la quale oggi la Raggi è Sindaco di Roma. Dopo aver perso Perugia, Venezia, la Liguria ed ora Roma e Torino, il Presidente del Consiglio registra un voto che, da nord a sud, si delinea come un voto contro lui e il suo governo.

Non ha solo la colpa di aver trinciato l'anima progressista del suo partito, ma quella di aver inserito con forza la meccanica del complotto, del sotterfugio e dell'ipocrisia come elemento centrale nella battaglia politica, l'affermazione evidente di come le leggi per i nemici si applicano e per gli amici s'interpretano. Da Letta a Marino e in numerose altre circostanze, la cifra etica di Renzi è questa.

Raccoglie, Renzi, l’opposizione trasversale dei diversi settori sociali, chi più chi meno colpiti dal suo governo che appare ormai come un regime. Un regime illegittimo perché mai votato che ha dedicato ogni sforzo a colpire l’area dei diritti sociali per avvantaggiare ulteriormente le sacche di privilegio.

Il suo è un governo che ha incrementato i regali al padronato e la disoccupazione per i lavoratori, che si burla dei pensionati, che toglie le tasse ai ricchi e le aumenta ai poveri, che ha tagliato la spesa sociale pur aumentando la spesa pubblica, che ha provveduto a sistemare la sua rete di compari ed amici nei posti chiave del potere economico, politico, finanziario e mediatico, in funzione della costruzione di una sua rete personale di potere, smentendo ogni promessa di meritocrazia a danno del sistema clientelare.

Invece di intercettare il malessere del Paese si è dedicato al benessere delle imprese amiche. Lo ha fatto con scorrettezza nella comunicazione e con le menzogne diffuse a reti unificate e senza contraddittorio. Il tutto con l’arroganza e la volgarità che sono il tratto distintivo del suo operare. L’abusivo ha abusato.

Nonostante il tentativo di scaricare su candidati e partito il peso della sconfitta, è lui lo sconfitto. Servirà ora sconfiggerlo anche nel suo progetto di riforma della Costituzione e della riforma elettorale, esempio plastico di disegno incerto ed arruffato scritto da incompetenti ma dal chiaro segno autoritario a beneficio dei poteri forti nazionali ed esteri, che vedono all’orizzonte l’azzeramento della centralità della rappresentanza e delle istituzioni. Sarà il referendum d’autunno a scrivere la parola fine all’avventura del rottamatore che finirà rottamato.

di Fabrizio Casari

Il dato emerso dalle urne è che nonostante una partecipazione superiore alle attese, il PD ha subito una severa sconfitta, certificazione di un indubbio ridimensionamento politico. A Roma è passato dal 26% del 2013 al 17 di oggi. A Torino ha perso 32.000 voti, a Bologna ne ha persi 60.000 e a Napoli 27.000. Salerno, Rimini e Cagliari sono i soli tre comuni dove il centrosinistra ha vinto al primo turno, ma nel caso di Cagliari va specificato che Zedda è espressione di ciò che resta di SEL ed è stato eletto da una lista arcobaleno, con la sinistra unita e senza verdiniani di contorno. Il risultato del Movimento 5 Stelle e la crisi del berlusconismo sono invece le due buone notizie di questa tornata.

Renzi sostiene che il voto era amministrativo e che non riguardava il suo governo, ma mente sapendo di mentire. L’elezione di 1342 sindaci è politica “senza se e senza ma”, perché nonostante l’abbondanza di maquillage rappresentato dalle Liste Civiche, sono i partiti che candidano consiglieri e sindaci e i leader o capetti dei partiti s’impegnano pancia a terra per i rispettivi candidati. Inoltre, sono 13 milioni gli elettori coinvolti, più del 30% del totale degli elettori italiani. Alla scienza statistica basta meno per determinare in maniera pressocché scientifica trand e proiezioni a dimensione generale e alla politica serve ancora meno per indicare aspettative e ripercussioni di un voto così ampio.

Hai voglia a dire che sono espressione di consultazioni locali: le scelte dei candidati - da Sala alla Valente, a Giachetti - hanno indicato con nettezza un percorso di conflitto politico con la sinistra. Renzi si smarca perché è abituato ad appropriarsi della scena mediatica in presenza di successi e a defilarsi in caso di sconfitte. Le vittorie sono sue anche quando non gli appartengono affatto (vedi le europee) ma le sconfitte sono degli altri (anche quando i candidati e gli alleati sono scelti da lui). E l’annuncio di un commissario a Napoli fa ridere: chi ha scelto la Valente? E non è poi solo questione di linea politica, c’è anche il livello della leadership che conta per perdere. Quando un personaggio di terza fila come Guerini imputa a Marino invece che a Mafia Capitale la sconfitta di Roma, si capisce qual è lo spessore politico del giglio magico.

Il PD è ridotto ai minimi termini: è ormai solo un comitato elettorale e una struttura di propaganda al servizio della cerchia renziana. Renzi lo ha distrutto, mangiandone il cuore, consegnandone l’anima al centro e riducendone la politica delle alleanze agli affari con Verdini. Il quale, come Alfano, raccoglie percentuali da prefisso telefonico ovunque e riesce persino, dove sale sul palco del candidato del PD, a non farlo arrivare nemmeno al ballottaggio. Logico peraltro, visto che il PD avrebbe ancora, almeno per il 50%, un elettorato di sinistra che su questo terreno vorrebbe essere rappresentato. Quando avverte che il voto serve a ricostruire la DC del terzo millennio, avvolta in grembiulini e cappucci, semplicemente vota altrove.

Il risultato di ieri è, politicamente, un vero e proprio stop definitivo alla strategia renziana, che prevedeva lo svuotamento di Forza Italia e del ventre molle di nostalgie democristiane da un lato e, dall’altro, l’indebolimento progressivo del Movimento 5 Stelle che avrebbe subito il protagonismo finto-nuovista del Presidente del Consiglio. Entrambi gli scenari sono stati smentiti dagli elettori.

Il primo perché il crollo di Forza Italia, lungi dal travasare consensi moderati verso il nuovo PD a caratura democristiana, ha piuttosto indirizzato i suoi elettori verso la destra più radicale. Il secondo perché il Movimento 5 Stelle ha dimostrato una tenuta superiore alle aspettative e, benché abbia candidato figure minori delle sue fila (diversamente dal PD e da Fratelli d’Italia), ha ottenuto consensi crescenti fino ad arrivare ad essere il primo partito a Roma e Torino, solo per fare un esempio, ovvero dove il PD crolla. E crolla perché emerge un travaso di voti proprio dal PD verso il M5S.

La scommessa renziana, di costruire un partito che rappresenti l’establishment, che offra la mediazione tra interessi diversi, governi l’alleanza tra finanza cattolica e finanza laica, garantisca con il suo peso lo spazio lasciato vuoto dalla crisi di riassetto del capitalismo italiano e possa rappresentare il Paese nelle istituzioni politiche europee, è davvero eccessivamente ambiziosa prima che sbagliata. E comunque non può certo realizzarsi per il tramite di un partito diretto da una pattuglia di parvenu esperti solo in arroganza.

Nel frattempo, la mappa del voto racconta di come il PD vince nei quartieri dei centri storici e dei quartieri ricchi, perdendo invece nelle periferie. Non è questa la sede per analizzare a fondo quella che appare come una vera mutazione antropologica, ma certo che la corrispondenza tra questo dato e la linea politica del partito, schiacciata sull’establishment e indifferente ai temi sociali, ha la sua risposta nelle urne. Quando di fronte alla crisi sociale che proletarizza i ceti medi e affossa quelli popolari, il PD esalta Marchionne e dichiara guerra ai sindacati, come dovrebbero votare i lavoratori?.

Il PD si trova all’angolo, guidato da un leader ormai definitivamente entrato nel cono d’ombra. Se disponesse di respiro ideale e programmatico avrebbe già offerto le dimissioni della segreteria (dove Guerini e Serracchiani hanno brillato per l’appoggio convinto agli sconfitti) e la celebrazione di un congresso straordinario. Una convocazione anticipata del congresso sarebbe un segnale di comprensione della realtà.

Ma difficilmente avverrà, dato che, inevitabilmente, rappresenterebbe l’ammissione dei renziani di un caduta inaspettata. Evidenzierebbe, inoltre, la verità plastica di un personaggio che divide, che ha già stancato gli italiani dopo solo due anni di arroganza e si tratterebbe di un colpo durissimo all’ego di Renzi, dunque non avverrà. E del resto intendiamoci: anche avvenisse, vedrebbe una riconferma dell’attuale gruppo dirigente al timone del partito; vuoi per le truppe di fedelissimi, vuoi per l’inconsistenza dei Bersani, Cuperlo e Speranza, lo spazio di manovra dei dissidenti è talmente ridotto che rende impossibile prefigurare un ribaltone interno o anche solo un cambio di linea.

Ora, congresso o no, la sinistra PD ha ancora una ultima possibilità di presentarsi come un’area effettivamente in buona fede, ancorché in difficoltà. La sinistra oggi, piegata e sconcertata, quando non sceglie la via dell’astensione si esprime attraverso il voto radicale, sia esso nelle liste alla sinistra del PD, sia nel Movimento 5 Stelle. Non riconoscerlo sarebbe un grave errore di lettura del contesto e del proprio patrimonio elettorale. Rimanere nel PD pur sapendo che non vi sono tracce di una cultura di sinistra o anche solo ulivista, riaffermando un senso di fedeltà alla “ditta” e chiedendo al massimo maggiore educazione al capo, è solo orpello, elemento decorativo politicamente inutile; è un ghirigoro dell’animo, non una proposta politica.

Adesso si apre uno scenario nuovo. In politica la sfida è sempre quella che deve arrivare e, anche se lo negano, il passaggio delle Amministrative ha un rilievo sia per il risultato in sé che per il referendum che verrà. Su queso Renzi ha deciso di giocare il suo ruolo politico e ciò, di per sé, rappresenta per lui già un fattore di rischio alto, dal momento che proprio la speranza di disarcionarlo contribuirà ad ingrossare le fila del NO.

Si tratta dunque di mobilitarsi per scongiurare la controriforma d’ispirazione massonica insita nelle riforme istituzionali per le quali si voterà in autunno. Impedire la riduzione di una repubblica parlamentare a sistema autoritario è battaglia decisiva sia sul piano politico che su quello culturale ed assume un valore assoluto anche sul piano simbolico. E l’indebolimento ulteriore di Renzi e della sua strategia neoautoritaria passa anche da una ulteriore sconfitta nei ballottaggi per le comunali perché il risultato definitivo delle amministrative inciderà anche su quello referendario perché quei ballottaggi influiranno sul clima politico intorno al PD.

Bisognerà tener conto di tutto ciò quando si voterà per i sindaci delle città. Anche coloro che oggi sostengono Renzi non è detto rimarranno al loro posto. L’Italia è il Paese per eccellenza dove la corsa è a salire sul carro dei vincitori e a scendere da quello degli sconfitti. Bisognerà votare considerando tutti i riflessi che ogni singolo voto avrà sulla tenuta del governo e comportarsi di conseguenza, anche a costo di votare turandosi il naso. Meglio avere il naso chiuso per un minuto che le bocche cucite e le mani legate per i prossimi venti anni.


di Fabrizio Casari

In un sostanziale clima d’indifferenza, a Roma si vota in conseguenza del golpe del PD che defenestrò il Sindaco Ignazio Marino dal Campidoglio. Vicenda emblematica che raccontò il volto nuovo del rapporto del PD con i propri iscritti ed elettori. In primo luogo gli si chiese di votare alle primarie ed essi scelsero Marino. Immediatamente però, il partito cominciò a sbarrargli la strada e tanti saluti alle primarie e ai suoi iscritti.

Ma il chirurgo improvvisatosi candidato non mollò e alle elezioni ottenne la maggioranza assoluta sbaragliando Alemanno. Non contento, il PD decise di dichiarargli guerra o, quantomeno, di non difendere il suo Sindaco per poi giungere fino al paradosso di sfiduciarlo, con tanti saluti agli elettori. Il come poi rappresentò un fatto inedito nella storia della politica italiana: preoccupato di ripensamenti dell’ultima ora, il PD obbligò i suoi consiglieri a firmare - tutti e contemporaneamente, che non si sa mai - le proprie dimissioni di fronte a un notaio. Una versione pubblica del patto tra Berlusconi e Bossi del 1994 che mai a sinistra ci si sarebbe sognati di vedere.

L’attuale candidato renziano è Roberto Giachetti, funzionario politico da sempre, con curriculum professionale candido, praticamente una pagina in bianco. Ex capo di Gabinetto di Rutelli e saltimbanco di ogni schieramento interno all’Ulivo prima e al PD poi, Giachetti è come la rucola, lo trovi ovunque ma senza mai nulla da dire di rilevante. Persona onesta fino a prova del contrario, ma votarlo significherebbe assolvere la condotta del PD che inganna gli elettori e realizza affari con Buzzi e Carminati.

Il Movimento Cinque Stelle candida una donna dal volto gradevole e dai valori variabili. Somiglia nel look ad una pariolina romana e sembra che occulti molto più di quel che afferma. Tutt’altro che carismatica, nemmeno un po’ trascinatrice, desta timori per il gradi di autonomia e colpisce per l’assenza di idee; davvero non evoca sogni, semmai incute ulteriori dubbi sul M5S. Con la sua candidatura i grillini non guadagneranno un voto rispetto a quelli che avrebbero comunque preso, in compenso ne perderanno molti rispetto a quelli che avrebbero potuto prendere con una candidatura più forte e meno ambigua.

C’è poi la Meloni, prima donna a trasformare un gravidanza in manovra politica e il fotoshop in strumento di terapia psicologica. Falsate le immagini, figuriamoci le parole e gli atti. Denominata dai romani “pancetta nera”, la Meloni ha rapidamente dismesso i panni della sodale di Alemanno, con il quale ha sgovernato per quattro anni la città, per presentarsi ora come il “nuovo a destra”. Ma qui non basta l’uso massiccio di trucco e parrucco: la Meloni non ha mai smesso di essere fascista, solo che si vergogna a dirlo, considerando che non ha spazio su quel fronte, già occupato da Casa Pound e frattaglie varie del peggio che ospita Roma.

Per carità di patria tralasciamo Alfio Marchini, autentica perla di vacuità intellettuale che evidentemente sa quanto l’appartenere ad una famiglia di costruttori tra i protagonisti del cosiddetto “sacco di Roma”, davvero non lo rende credibile nei suoi programmi per la modernizzazione della Capitale. Uomo coerente, Marchini va ai comizi in Smart e poi, girato l’angolo, monta sulla Ferrari. Un Fregoli piacione. Uno così, anche senza il vuoto pneumatico che l’attanaglia, non si può votarlo nemmeno essendo di destra. Berlusconi gli ha piazzato Bertolaso a controllarlo, costituendo così una coppia che supera Gianni e Pinotto.

Da ultimo c’è Fassina, espressione e anche vittima della sinistra romana che ha dato il peggio di se nel sostegno alla sua candidatura. Fassina, per quanto privo di ogni pur minima dose di carisma, è persona per bene, competente e preparata. Il risultato possibile per la sua lista non è quello in doppia cifra, ma la valenza è tutta politica; può indicare a quanti ancora giacciono nel ventre molle della minoranza PD una prospettiva politica esterna ad un partito che è ormai la nuova DC. Ogni voto dato a Fassina è quindi da un lato un voto contro la gestione mafiosa del PD romano e dall’altro indicatore della disponibilità a ricominciare a tessere il filo di una sinistra da rinnovare.

Con una astensione che si annuncia maggioranza assoluta, i sondaggi sembrano indicare un ricorso al secondo turno, dove si misurerebbero i 5 stelle e il PD. La scelta più logica indicherebbe in questo caso il voto alla Raggi, se non altro per obbligare alla riscrittura della rubrica telefonica del sottobosco romano e di mafia capitale. Ma oltre a questo, una sua vittoria metterebbe definitivamente alla prova le capacità di un movimento che, se non tritura le potenzialità di cui dispone, se non dimostra con le sue scelte l’inutilità del votarli, può ancora raccogliere ed incanalare in senso progressista lo smarrimento e il rifiuto di tanta parte dell’elettorato.


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