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Siamo entrati nel 2017 ma il 2016 non ci ha abbandonati. In fondo, per molti aspetti quello appena finito è stato significativo, nel bene e nel male, di ciò che siamo oltre che di quel che siamo stati. L’Italia è stordita da una crisi economica che si è già mutata in crisi di civiltà e il susseguirsi di governi mai votati e di politiche mai volute estranea sempre più. La stagione di caccia ai diritti sociali non si chiude mai e l’aggettivo più usato dell’anno è “populisti”. Ma i populisti non esistono, esistono invece le politiche antipopolari.
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- Scritto da Fabrizio Casari
Lascia sbigottiti la sentenza della Corte di Cassazione n.25201 del 7 dicembre scorso. Licenziare, a detta della Suprema Corte, sarebbe legittimo sempre e comunque. Ovvero non solo nei casi di crisi economica aziendale, d’impossibilità alla prosecuzione del rapporto di lavoro a fronte di un disinvestimento o della chiusura di tutta o anche solo una parte della produzione, in presenza di episodi di slealtà o, nel caso di un dirigente, nel venir meno del rapporto fiduciario.
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di Fabrizio Casari
Leggere la lista del cosiddetto governo Gentiloni è come un deja-vu. Identico, fatto salvo per qualche spostamento di caselle a quello precedente, si propone infatti come proseguimento del renzismo con altro manico. La Boschi, tra i principali artefici della disfatta referendaria, che aveva garantito di seguire la sorte del Premier in caso di sconfitta, ha battuto i piedi fino a che non gli è stato garantito un ruolo. Nemmeno con il gioco delle differenze si potrebbero scorgere segnali di discontinuità tra il governo Gentiloni e quello Renzi. E' il governo Renzi formalmente guidato da Gentiloni. Siamo di fronte al primo governo ventriloquo della storia d’Italia.
Verdini ha annunciato che in assenza di poltrone ministeriali per il suo gruppo non voterà la fiducia ma è tutto da dimostrare che ciò avvenga. Quello tra lui e Renzi potrebbe essere un gioco di sponda: l’ex uomo di fiducia di Berlusconi sa bene che Renzi ha bisogno di allargare il suo consenso interno al PD e fare a meno di Verdini costituisce mossa a ciò destinata. Infatti, leggendo in controluce la compagine governativa, si capisce come l’equilibrio nelle nomine ministeriali serva ad allargare i consensi per il segretario nella scacchiera correntizia in seno al PD.
Per questo Renzi, che al Congresso vuole arrivare blindando sé e i suoi, allarga all’area Dem con l’innesto della Finocchiaro e della Fedeli. L’operazione è destinata ad un maggiore coinvolgimento degli ex-bersaniani, nel tentativo di evitare che possano saldarsi con l’area Franceschini. Perché è di Franceschini che l’ex-premier si preoccupa e non a caso, pur avendo scelto Gentiloni, non si fida fino in fondo degli ex rutelliani e lascia la Boschi a guardia del Palazzo, coadiuvata da Lotti. Ci riusciranno?
Non è detto che l’operazione riesca con semplicità. Il PD è in subbuglio e l’interlocuzione con i poteri forti del Paese è stata messa in discussione dopo la sconfitta rovinosa alle regionali, alle municipali e nel referendum, che ha dimostrato come Renzi sia tutt’altro che un cavallo vincente. Ad indicare le difficoltà nel processo di affidamento dei poteri forti con il segretario del PD c’è stato incarico di Lotti allo Sport: si è trattato di evidente ripiegamento, visto che il segretario PD si era battuto per promuoverlo Sottosegretario con delega ai Servizi, nel ruolo che da diversi anni ricopre Minniti. Ha pensato che promuovendo Minniti al Viminale e lasciando così libera la casella della sua delega, ci si potesse infilare il suo Lotti. Errore. E’ stato stoppato come già gli accadde con la nomina dell’altro suo sodale Carrai, che l'ex premier voleva nominare addirittura Capo della cyber security dei Servizi Segreti.
Non vi riuscì per via dell’opposizione degli stessi vertici delle "barbe finte", che ritennero l’idea una assoluta provocazione. Proporre ai vertici delle strutture d’intelligence un personaggio estraneo alle stesse e decisamente incompetente in materia, solo per essere amico personale del premier, apparve una boutade di cattivo gusto e determinò un deciso stop anche Oltreoceano.
Insomma Renzi da due anni a questa parte tenta l’assalto alle posizioni di primo piano nella struttura della nostra intelligence, che ritiene pedina strategica per il rafforzamento e l’affermazione definitiva del suo gruppo di potere, il Renzi power come lo chiamano. Il fatto che non vi riesca racconta della sua arroganza e incapacità, visto che invece di scegliersi interlocutori privilegiati nell’ambito dei Servizi civili e militari per un avvicinamento graduale e discreto, tenta d’imporre a forza amichetti del giglio magico privi di ogni curriculum e di ogni affidabilità adeguati all’ambito. Ma Renzi è questo: non c’è sconfitta che possa trascinarlo nel regno della politica.Sul piano del messaggio politico si dimostra altrettanto incapace. I peggiori ministri del governo Renzi sono nel governo (per modo di dire) di Gentiloni. Eppure l’occasione per dimostrare di aver compreso che lo scontro con tutte le categorie sociali del Paese potesse trovare un serio ripensamento era ghiotta: togliere i ministri più discussi avrebbe rappresentato la dimostrazione di un partito e del suo segretario che, appresa la lezione, invertono la rotta fin qui fallimentare e cercano di ricostruire un dialogo con le vittime delle loro politiche.
Si è preferito invece proseguire, anche simbolicamente, con la sfida aperta a 17 milioni di italiani, con la ricerca dello scontro sociale e politico. Questa è la continuità che inopinatamente rivendica Gentiloni. Legge elettorale e appuntamenti internazionali non saranno sufficienti a ridurre il rifiuto popolare verso Renzi e sarà il PD, quale che sia l’esito del congresso, a pagare il prezzo più alto.
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di Fabrizio Casari
Con l’ormai più che probabile incarico a Gentiloni, si chiude la prima parte delle consultazioni del Quirinale alla ricerca di una soluzione politica alla crisi di governo. La richiesta di reincarico formulata da Renzi sembrerebbe essere stata bloccata da Mattarella e da buona parte del suo stesso partito, che tra regionali, municipali e referendum è stanco di perdere sotto l’effige del giglio magico. Resta ancora in pista Padoan: con la vicenda MPS che incombe, potrebbe rappresentare maggiori garanzie per i mercati e la stessa BCE. Ma tutto è in movimento, anche se la richiesta di Renzi di elezioni a breve, parrebbe essere stata respinta.
Fatto salvo al momento l’assoluto rispetto delle procedure istituzionali, c’è spazio anche per il paradosso nel centro dello scenario. Paradossale, infatti, è che tra Mattarella, Gentiloni, Renzi e Franceschini, emerge l’assoluta centralità di personaggi provenienti dalla Democrazia Cristiana, che si voleva uccisa tramite fax dall’allora segretario Benigno Zaccagnini.
Paradossali - ma gravi - sono le state invece le consultazioni parallele di Palazzo Chigi, dove Renzi ha ricevuto (dandone notizia) tutti i possibili incaricati del suo partito. Non li ha ricevuti a casa sua o al partito, cosa che si giustificherebbe con il ruolo di segretario del PD, ma nella sede del Governo, a voler ribadire che è lui a tenere il pallino della crisi in mano, che è lui e non l’arbitro formale della crisi - Mattarella - a decidere chi formerà il nuovo Esecutivo.
Si compie così un pesante sgarbo istituzionale e politico verso il Quirinale, si conferma l’incomprensione totale del tamarro toscano delle prassi istituzionali e, nello stesso tempo, la sua ansia incontenibile per il suo personale destino.
Non c’è infatti il ritiro di Renzi dalla politica come ripetutamente annunciato. In linea con il suo operato al governo, annuncia ciò che non fa e fa quello che non aveva annunciato. L’arroganza e la superbia che lo caratterizzano in ogni sua espressione, fisica e verbale, gli impediscono di leggere ciò che è avvenuto il 4 Dicembre 2016. Non c’è stata ammissione di errore, bensì la colpevolizzazione di un PD che è apparsa fuori luogo. Invece di dire “dove ho sbagliato” e prendere atto di una stagione che si è conclusa per sempre, ha incolpato una parte del PD del risultato.
Ma quel PD correntizio, ormai riflesso di minor valore di ciò che fu la DC, pur non condividendo in buona parte il contenuto della riforma ha fatto il possibile per vincere. Non c’è riuscito perché il PD non è maggioranza nel Paese, perché la riforma faceva schifo e soprattutto perché il suo promotore è uno dei personaggi più detestati dagli italiani.
Obnubilato dal suo ego, Renzi non capisce che non si tratta di un complotto di Palazzo, ma di un rifiuto generalizzato degli italiani nei suoi confronti, conseguenza di una linea politica e di uno stile personale di governo che se ha trovato nella grande impresa e nelle banche il suo referente, ha però offeso e colpito praticamente tutte le categorie sociali della nazione. Lo stesso assalto alle nomine, lo sfacciato perseguimento del Renzi Power, insieme all’aggressione verbale, all’insulto e ai ricatti, distribuiti a mani basse, hanno prodotto una vera e propria crisi di rigetto del Paese verso il tamarro toscano.
Lotti ha spiegato agli aficionados che "si è cominciato dal 40 alle primarie e si riparte dal 40% dei voti al referendum". Peccato che non sia il gioco dell’oca, nel quale probabilmente Lotti eccelle, mentre non si registra pari competenza nella scienza delle dottrine politiche. L’idea che il 40% sia di Renzi è ridicola. Come ha spiegato l’istituto Cattaneo, il Sì ha raccolto molti consensi nell’area di centrodestra che mai voterebbe il PD alle elezioni. Dalle dinamiche innescatesi nel referendum si ricava invece che il 60% degli italiani è contro Renzi e il dimostrarsi attaccato alla poltrona nell’estremo e penoso tentativo di salvare lui e la sua cricca toscana, accentua ulteriormente le distanze con l’Italia.
Renzi e Lotti hanno una sola preoccupazione: non uscire di scena, non buttare alle ortiche il lavoro di occupazione del potere perseguito con ogni lena ed eccessiva sfacciataggine in mille giorni. Amici piazzati su indicazione dei poteri forti e marci che li hanno insediati è stato il vero core business del governo del giglio magico, con annesse le storielle inconfessabili. La rottamazione è stata solo sostituzione di un apparato di potere con un altro.
E’ chiaro dunque che qualora il prossimo governo dovesse decidere di iniziare l’opera di smantellamento, a cominciare dalla Rai e passando per i consigli d’amministrazione di enti e società controllate di diversa grandezza, finendo con estraniarli dalle nomine prossime ai vertici di Carabinieri e Guardia di Finanza, il mesto ritorno a Pontassieve della cricca del giglio magico sarebbe inevitabile.
Come coloro che ballarono una sola estate, la destinazione indicata dal Gps sarebbe Via dell’Oblio. Ad evitare questo scenario, Gentiloni - avatar di Renzi come lo definiscono i 5 stelle - gli appare come la soluzione meno pericolosa. Ma, pur consapevole dello spessore davvero relativo dell’attuale ministro degli Esteri, del suo essere tutt’altro che un leone indomito, l’idea che possa essere etero-guidato dal Nazareno appare non priva d’incognite.
C’è comunque la necessità di aprire una fase che, di tre, cinque o di otto mesi, è comunque una fase politica con le elezioni sullo sfondo. Ovunque si chiede il voto, cosa che sarebbe doverosa dal momento che ci si avvia al quarto governo mai scelto dai cittadini. E’ vero che l’ordinamento costituzionale prevede che i governi si formano in Parlamento, ma c’è anche un elemento di opportunità politica che non può non essere considerato.
Perché il voto referendario ha espresso con forza l’intenzione degli italiani di riprendersi la parola e questa non è una indicazione che può essere sottostimata in ragione di prassi istituzionali che, seppure ineccepibili, non risultano politicamente adeguate al contesto politico.
Ma va anche detto che le richieste di voto rapido sono in buona parte “ammuina”, dal momento che i centristi non sono nulla, la sinistra deve essere ricostruita, la destra è frammentata e il PD è frantumato. Solo il M5S ha fretta di capitalizzare l’esito referendario cavalcando l’onda lunga che dalle municipali di Giugno lo vede in vantaggio sugli altri partiti.
Il PD non ha nessuna intenzione di suicidarsi definitivamente, cosa che avverrebbe se si votasse entro 3 mesi e se restasse Renzi alla sua guida. Ma il Congresso della resa dei conti - inevitabile - per quanto si possa accelerare ha bisogno di almeno tre mesi per essere realizzato. A meno che Renzi non scelga di fondare il suo partito personale o che Bersani non decida che si può abbandonare la "ditta", il percorso non sarà brevissimo.
La destra da parte sua non ha ancora risolto il problema dell’unità e della leadership: Berlusconi (ancora sotto provvedimento giudiziario che lo rende incandidabile) ha inteso riprendersi la guida, ma sa che dovrà di nuovo ricostruire una identità politica precisa e avviare un percorso unitario che, ad oggi, appare difficile.
La Lega, da parte sua, sa bene che pur avendo travalicato i confini padani, quando si spalma sul territorio nazionale il suo consenso corre il rischio di non superare la soglia di sbarramento e l’alleanza con Fratelli d’Italia non ne garantisce il suo agile superamento, visto che quelle della Meloni sono si truppe fedeli ma non certo numerose.
E poi al voto, ma con quale legge elettorale? Tutti affermano di voler attendere il 24 Gennaio il pronunciamento della Corte costituzionale in merito ai ricorsi sull’Italicum ma è altra “ammuina”.
Se si vuole votare con l’Italicum rivisto e corretto dalla Consulta non sarà sufficiente una operazione di sottrazione degli articoli contestati. Cambiare anche solo un aspetto di una legge elettorale comporta spesso cambiarne la logica della stessa. Bisognerà quindi riscrivere una legge elettorale nuova, perché quanto sentenziato sull’Italicum (e prima ancora sul Porcellum) dovrà essere amalgamato e ricomposto in una nuova legge elettorale.
Si potrebbe scriverne una simile? Difficile perché al momento, in assenza di coalizioni certe, non ci sono partiti che possano giovarsi del secondo turno come lo prevedeva lo scellerato Italicum. Grillo, che infatti è quello che vuole le elezioni subito, interpreta il lento abbandono dell’Italicum come un complotto ai suoi danni. Sa bene che solo con l’Italicum, per quanto rivisto dalla Corte, potrebbe vincere, ma solo con quello. Perché il rifiuto di M5S di coalizzarsi con altre forze, in un sistema elettorale che non prevedesse un premio di maggioranza al primo partito, bensì alla coalizione, non gli offrirebbe grandi possibilità di vittoria. Senza qualcosa di simile all’Italicum, insomma, rischierebbe di diventare quel che già è: la più grande forza dell’opposizione.
Comunque se si vorrà ridisegnare una nuova legge elettorale si andrà avanti per lo meno fino ad Aprile e, considerando i 54 giorni di legge per la campagna elettorale, si voterebbe a Giugno. Si è disposti ad attendere tanto? Perché se si volesse davvero votare subito, l’unica strada sarebbe scrivere un solo rigo che cancellasse la legge elettorale vigente. In automatico tornerebbe in vigore il Mattarellum e si potrebbe votare rapidamente.L’aria che tira è quella di una generale riconsiderazione del valore del sistema proporzionale. Non per afflato istituzionale, intendiamoci, ma per convenienze incrociate e per aver verificato come la sbornia del maggioritario ha prodotto vulnus ripetuti tanto alla sovranità popolare che alla stessa governabilità. E allora, se si decidesse di riprendere il cammino interrotto dal referendum Segni, l’unica soluzione valida per tutti è una legge elettorale proporzionale con una soglia di sbarramento al 4 per cento (modello tedesco).
Il sistema di voto proporzionale garantirebbe la rappresentatività di tutte le sensibilità politiche. Queste però, vista la necessità di superare lo sbarramento, si vedrebbero costrette alla ricerca di una dimensione di coalizione, favorendo così la governabilità e riducendo la frammentazione. Non a caso con la proporzionale in vigore i partiti erano 9 e con il maggioritario (che doveva limitarli !) sono diventati 19. Dunque sarebbe bene tornare sui propri passi. Non è mai troppo tardi per riprendere a pensare.
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di Fabrizio Casari
Questo Paese ama la sua Costituzione. La rispetta e la difende contro qualsiasi manipolazione, non importa da dove venga. Considera la sua Carta dei principi, il tessuto connettivo della nostra società e non consente avventure politiche alle sue spalle. Soprattutto quando a produrle sono un ex Presidente della Repubblica come Napolitano, che ha imposto a Renzi il terreno dello scontro costituzionale. Non si può tacere del ruolo fondamentale avuto dall’ex-presidente della Repubblica in questa vicenda.
Silente nella soluzione dei problemi politici e sociali dell’Italia, Napolitano ha caratterizzato la sua presidenza con l’ossequio costante verso i poteri forti internazionali; lo ha fatto anche ampliando a dismisura i poteri d’intervento del Presidente della Repubblica previsti dalla Costituzione, arrivando ad intestarsi la direzione politica de facto dell'Italia.
Quale che fosse il Presidente del Consiglio, Napolitano lo ha soverchiato assumendo su di sé le scelte fondamentali del Paese, tra le quali il pareggio di bilancio in Costituzione e la controriforma Boschi ieri rifiutata dagli italiani.
Ma il voto di ieri non è solo la dimostrazione della fedeltà alla nostra Carta, pure ribadito con simile forza. Contiene un giudizio netto e senza appello anche sul governo, sulla sua proposta politica, persino sullo stile di governo di un premier intriso di bullismo. Che ha voluto trasformare la campagna elettorale in un plebiscito su di sé, conducendo una competizione fatta di bugie, ricatti, minacce, campagne terroristiche destinate ad installare la paura nell’elettorato.
Il voto esprime il rifiuto popolare verso un premier considerato un abusivo e un arrogante, un bugiardo seriale dotato di ambizione eccessiva e di spregiudicatezza senza limiti nella ricerca della sua affermazione personale. Tutto ciò ha certamente inciso molto sul sentiment del Paese espresso nel voto. Ha definito “accozzaglia” la storia della politica italiana, ma non é servito: anzi, è probabile che la sua scorrettezza abbia spinto al voto più gente di quanta ci si sarebbe aspettato.
La chiave del successo del NO è stata la risposta di milioni di italiani piagati dalle politiche economiche del governo. Che hanno visto nel voto la possibilità di riprendersi la parola negata da governi che si succedono senza esser stati eletti. E, quello Renzi, oltre all’assunzione inginocchiata delle disposizioni della UE, ha operato per azzerare il patto sociale e costituzionale, visto come scalpo necessario per riscrivere l’assetto dei poteri, da raggiungere piegando ogni opposizione ed estromettendo i corpi intermedi della società dal suo ruolo di mediazione sociale.Hanno risposto NO come era logico attendersi i lavoratori privati dell’articolo 18, ritrovatisi senza tutele nei confronti dell’arroganza padronale. Allo stesso modo gli insegnanti derisi e umiliati dalla “buona scuola”, così come i giovani che si sono visti turlupinati con i vaucher, spacciati come occupazione quando invece sono elemosina precaria utile solo a truccare i dati sul mercato del lavoro.
Hanno votato NO le persone che erano prossime alla pensione ma che sono state schiacciate dalla riforma Fornero, che li ha trasformati in esodati a tempo indeterminato. Una riforma che non solo Renzi non ha modificato (come aveva promesso) ma che addirittura ha infarcito di presa in giro degli italiani con la proposta di anticipo pensionistico.
Ha votato NO il Paese schiacciato dalle politiche del governo dispiegate, oltretutto, con arroganza e sarcasmo. Ha votato NO chi ritiene che sia necessaria una nuova politica industriale per l’occupazione, che vuole porre al centro dell'agenda politica una politica salariale che riporti alla decenza la prestazione lavorativa, che inverta la tendenza alla riduzione pesante dello stato sociale, confermata negli anni con la rinuncia ad ogni intervento di sostegno su sanità, previdenza e assistenza.
E non è casuale che il Si abbia vinto nei pochi centri dove il contesto socioeconomico è migliore e che proprio al Centro Italia e nel Sud, dove invece le piaghe sociali sono più dolorose, la vittoria del NO sia stata così netta.
Sul piano più strettamente partitico, il voto di ieri indica anche la fine della breve ed ingloriosa storia del PD. L’esperimento di laboratorio che ha obbligato alla convivenza forzata due culture politiche conquistata attraverso l’uccisione di quella di sinistra, non ha funzionato. Si apre ora una fase completamente diversa e la analizzeremo nei prossimi giorni.
Ma quel che è certo è che è rimasto sepolto sotto le schede elettorali è il progetto renziano del Partito della Nazione. Il PD, che ha perseguito una strategia fondata sulla eliminazione della sinistra e l’attrattiva per il voto moderato, ha ridato vigore alla sinistra dentro e fuori dal partito mentre ha perso il voto moderato.
La promessa di Renzi di risollevare l’Italia e sconfiggere Grillo è diventata il peggioramento dei conti del Paese e l’affermazione del M5S. Il voto ha invece dimostrato che, molto più del PD, è il M5S che ha la capacità di intercettare i voti orfani della storia ideologica del Paese, persino quelli dei moderati. I giovani, che si volevano arruolabili nella battaglia renziana per la rottamazione, hanno rottamato il rottamatore. Un fallimento completo e senza appello.
Oltre al PD renziano, la grande sconfitta è la struttura mediatica del Paese, che a Renzi è stata devota per la sintonia piena tra il personaggio e le banche che sostengono i rispettivi gruppi editoriali. Toni apocalittici, pressioni e sotterfugi, bugie ricevute e rilanciate senza decenza deontologica, non sono però state sufficienti.
L’occupazione militare della RAI da parte di Renzi, lo schieramento vergognosamente di parte di Mediaset e Sky e la mobilitazione della grande editoria cartacea, che ha stampato su carta quello che Palazzo Chigi indicava, non sono servite. I pizzini elettronici con i quali Filippo Sensi indicava contenuti e titoli alla maggioranza degli organi di stampa, da ieri sono carta straccia e si registra una la più pesante sconfitta di sempre per il sistema mediatico ufficiale.
L'informazone è stata trasformata in propaganda e questa, destinata alla persuasione forzata (palese come occulta) dell’opinione pubblica, è stata sconfitta da una consapevolezza generale della posta in gioco. E, sempre per restare nella sfera mediatica, non sono servite le genuflessioni di Benigni e di Santoro, per non parlare dei conduttori del 90 per cento delle trasmissioni televisive e radiofoniche. Il dialogo tra le persone ha prevalso sulle lingue battenti sui tamburi.Finisce qui la carriera politica di Renzi e ciò è certamente un bene per il Paese e anche per lo stesso PD. Da oggi la parola è al Capo dello Stato che dovrà ricevere le dimissioni di Renzi e cercare la soluzione parlamentare alla crisi.
Ma se le prerogative presidenziali potranno delinearsi solo attraverso le procedure previste dalla Carta, quelle popolari hanno già fornito una indicazione netta e senza appello. Legge di stabilità (da modificare sensibilmente) entro Dicembre, quindi Riforma elettorale e poi alle urne. Gli italiani vogliono tornare a votare: questo ha detto, chiaro e forte, il voto di ieri.