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di Giovanni Gnazzi
Le polemiche sulla trasmissione di Bruno Vespa, Porta a Porta, sono ormai ricorrenti come a conduttore conviene. L’occasione ultima è stata offerta dall’intervista di Vespa al figlio di Totò Riina, capo dei Corleonesi nella stagione tremenda dell’offensiva mafiosa, ovvero gli anni ’80 e ’90. Il giornalista abruzzese ha ritenuto di dover ospitare il figlio del boss mafioso che, bontà sua, ha risposto da figlio di mafioso alle domande (invero non particolarmente incisive) riguardo vita, opere e soprattutto omissioni del padre.
E, cosa non secondaria, ha presentato il suo libro prossimo all’uscita e, dunque, trova in Vespa un naturale interlocutore. Che è persino costretto a far vedere prima domande e risposte per ottenere la liberatoria. Glorioso esempio di schiena dritta, momento epico per il giornalismo italiano.
Il figlio di Riina ha il merito di non tentare di presentarsi per quello che non é. Mafioso il padre, da mafioso si atteggia il figlio. Nessun infingimento se non quello di non presentarsi con lupara e coppola. Non presenta un finto quanto inutile pentimento per le malefatte del padre, che invece assolve.
E sebbene tenti di dipingere il boss dei corleonesi come un uomo a metà strada tra il padre modello e un candidato alla beatificazione, per quanto provi maldestramente a vendere una presunta innocenza riguardo le stragi e l’assassinio di Falcone e Borsellino, non tenta di proporre niente di nuovo rispetto alla dinamica processuale. Non era questo lo scopo dell’intervista, anche perché non é questo lo scopo del libro a cui l’intervista è funzionale.
Ma certo le sue parole rimbombano nelle teste dei familiari delle vittime di mafia e vedere seduto nel salotto dei plastici dell’ammiraglia Rai un personaggio che, sia pure da figlio, difende le malefatte del padre, non può certo annoverare la trasmissione di mercoledì sera come una pietra miliare del servizio pubblico. "Le colpe dei padri - diceva Gramsci - non debbono ricadere sui figli". Ma quando i figli le riconoscono come tali e non come meriti.
Le critiche per aver dato udienza ad una interpretazione negazionista ed assolutoria delle gesta criminali di Totò Riina sono arrivate da ogni dove. Quelle più aspre sono arrivate dalla Presidente della Commissione parlamentare antimafia, Rosy Bindi, ma questo era prevedibile, sia per il ruolo istituzionale che per la sensibilità politica dell’ex ministro della salute.
Quello che invece non torna è la presunta correttezza dell’operazione che rivendica Vespa. Perché è lo stesso Vespa che, all’epoca dei cosiddetti “anni di piombo”, rivendicava con altrettanta baldanza il rifiuto da parte dei media di pubblicare i comunicati dei gruppi armati clandestini, Brigate Rosse in testa, perché non si voleva fungere da “cassa di risonanza” ai proclami di chi combatteva contro lo Stato.
Si può ritenere quella posizione giusta o sbagliata e, a distanza di anni, è persino possibile insistere a dispetto della storia politica e giudiziaria intervenuta. Ma non si capisce la ragione di una diversità di trattamento, sebbene è noto come gli editori di riferimento di Vespa non siano stati un esempio di equidistanza tra i due fenomeni.
Non si tratta di porre distinguo tra mafia e terrorismo, che non avrebbero senso, viste le diverse origini, ragioni, scopi e modalità con le quali hanno attraversato la storia del nostro paese. D’altra parte, tentare di associare un fenomeno di rottura dell’establishment (almeno nelle intenzioni) ad uno che invece ne rappresenta da sempre il consolidamento, sarebbe esercizio sperticato quanto sciocco.
Resta invece il doppio standard "giornalistico" che però con il giornalismo ha poco a che fare. E' piuttosto quasi una involontaria ammissione di sentieri del cuore inconfessabili, di verità indicibili. Per questo il contorto sentiero della professione s’inerpica sulla curva prima della quale c’è il mestiere da embedded e subito dopo la passione civile a un tanto al chilo. Per il terrorismo si usa quindi l’elmetto, per la mafia insorge invece un sobbalzo, chiamato affettuosamente diritto di cronaca.
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di Antonio Rei
Il caso di Federica Guidi, che si è dimessa da ministro dello Sviluppo economico per una telefonata in cui assicurava al suo fidanzato il via libera a un emendamento che lo avrebbe favorito, dimostra perlomeno tre cose. Primo: la pretesa superiorità morale della società civile rispetto alla classe politica tradizionale è una delle panzane più grandi che ci abbiano propinato negli ultimi anni, perché l’odore dei soldi piace proprio a tutti, anche a chi si autoassegna la patente di civiltà.
Secondo: il principio per cui “bisogna essere del campo per operare nel campo” - nello specifico bisogna essere un imprenditore per governare lo Sviluppo economico - è qualunquista e miope, perché non tiene conto della molteplicità di conflitti d’interessi diretti e indiretti che si presentano a ogni passo compiuto (per non dire a ogni emendamento approvato). Terzo: la propaganda renziana de “la volta buona” e dell’Italia che “cambia verso” è una favola che non potrebbe essere più lontana dalla realtà.
Al nostro Presidente del Consiglio va riconosciuto un talento nel marketing superiore perfino a quello del fu Silvio Berlusconi. Grazie alla sua propensione al mestiere di imbonitore riesce serenamente a vendere come vittorie e prove di trasparenza persino le figure più meschine e losche. Da Washington, infilando nel calderone un riferimento all’ex ministro Cancellieri, Renzi ha avuto la faccia di presentare la Guidi come innocente martire del buon costume politico: “Non ha commesso nessun tipo di reato o di illecito - ha scandito il Premier - ma ha fatto una telefonata inopportuna, e se prima per telefonate inopportune non ci si dimetteva, ora ci si dimette. L’Italia non è più quella di una volta”.
Invece sì, Matteo, è esattamente quella di una volta. Anzi, forse è perfino peggiore, visto che nepotismo e conflitti d’interessi trovano spazio in questo governo ancor più che negli Esecutivi di Monti e Letta.
A ben vedere, le dimissioni della Guidi non sono arrivate affatto per trasparenza, ma per ben altri motivi. Innanzitutto, l’ormai ex ministro dello Sviluppo economico era un frutto del patto del Nazareno: voluta da Berlusconi per tutelare gli interessi delle imprese, Guidi non solo non faceva parte del Giglio magico, ma era probabilmente il ministro di cui Renzi avrebbe fatto a meno più volentieri.
E così sono bastati pochi secondi per imporle le dimissioni. Un passo indietro decisivo in chiave elettorale per il Pd, visto che, con le amministrative alle porte, l’eventuale tentativo di resistenza da parte della Guidi avrebbe pompato ancora più benzina nel serbatoio delle opposizioni, grillini in testa. Ma soprattutto, l’immediatezza con cui Palazzo Chigi ha imposto alla Guidi di lasciare l’incarico è servita a evitare che l’ennesimo scandalo di questo governo arrivasse a lambire per l’ennesima volta l’adorata Maria Elena Boschi.
Proprio la difesa a spada tratta del ministro delle Riforme è uno dei cavalli di battaglia in cui si manifesta tutto il talento renziano nell’arte di presentare come immacolate anche le operazioni più torbide. Secondo il Premier, Guidi sarebbe colpevole solo di una telefonata inopportuna, non di aver brigato per far passare un emendamento che favoriva la Total e indirettamente anche l’azienda del suo fidanzato: “È un provvedimento giusto - sostiene il presidente del Consiglio - perché porta posti di lavoro. Una cosa sacrosanta”.
E siccome dalla telefonata incriminata usciva fuori chiaro e tondo il nome della Boschi, Renzi si è affrettato a inventare spiegazioni: “È naturale che il ministro dei Rapporti con il Parlamento firmi un emendamento del governo”. La diretta interessata ha aggiunto il carico con la consueta arroganza: “Lo rifirmerei domani mattina”.In realtà quell’emendamento non era affatto sacrosanto e la firma del ministro delle Riforme non era per nulla un atto dovuto. Al contrario, la misura pro-Total era stata bloccata alla Camera dal un deputato di Sel, Filiberto Zaratti, e dal presidente della commissione Ambiente, Ermete Realacci (Pd), che lo aveva ritenuto inammissibile. Non è perciò un caso che, nella telefonata col fidanzatino, Guidi lasci intendere che il via libera all’operazione dipenda essenzialmente dal consenso della Boschi.
Ma il nome di “Mariaele” non si può infangare, questo Renzi non lo permetterà mai. Non si è parlato di “opportunità politica” quando Boschi figlia sedeva nel Consiglio dei ministri che ha deciso il destino di Banca Etruria, l’istituto che Boschi padre ha contribuito a mandare in bancarotta, probabilmente truffando anche migliaia di risparmiatori. Se ne era parlato invece, oltre che per la Guidi, anche per l’ex ministro Maurizio Lupi, che pur non essendo mai indagato fu costretto a dimettersi dal governo Renzi per il Rolex e i lavori offerti a suo figlio dall’imprenditore Stefano Perotti, coinvolto nell’inchiesta sugli appalti delle “grandi opere”.
Insomma, il metro di valutazione cambia a seconda di quale ministro finisce nei guai. Ma nepotismo e conflitti d’interessi no, quelli davvero non cambiano mai.
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di Fabrizio Casari
Un insuccesso senza precedenti quello registrato domenica dal Partito Democratico. Sono stati infatti solo 50.000 i votanti, ovvero la metà del minimo stabilito dallo stesso PD per poter definire un successo le primarie a Roma per la scelta del candidato a sindaco. Se si pensa che gli iscritti del PD a Roma sono oltre diecimila, si capisce subito come sia ridotta al minimo la capacità di appeal elettorale. La diserzione in massa del popolo del PD dalle primarie ha fatto sì che in un deserto di affluenza vincesse un candidato renziano.
Il fatto che Giachetti abbia ottenuto più del 60 per cento delle preferenze conta poco e, semmai, indica quello che tutti i romani sanno: ovvero che a votarlo è corso l’apparato e che con il solo apparato non vincerà le elezioni, bene che andrà arriverà secondo.
Una affluenza così scarsa indica come prima cosa che Giachetti non scalda i cuori di nessuno. più che vincere in realtà ha messo la prima pietra sulla sua sconfitta. Risulta quindi ridicolo il giubilo dell’ex sottopancia di Rutelli, che parla di vittoria e afferma di lavorare alla formazione della squadra di governo. Al più conferma la stoffa da esaltato perdente che da sempre lo caratterizza.
A ben vedere, Giachetti avrebbe dovuto riconoscere il dato politico oggettivamente inequivocabile, che associa il suo nome ad una sicura disfatta per il partito e per lui stesso e, quindi, rinunciare alla corsa. Ma l’ambizione lo divora e dunque ne verrà divorato. Pazienza, nessuno si straccerà le vesti per lui. La questione più generale certifica invece che il PD ha perso il suo popolo e la sconfitta che l’attende a Roma è solo l’ultima e più grave conseguenza dell’avvento di Renzi alla guida del partito.
Sono diversi i fattori che hanno concorso al raggiungimento del flop, che è politico, non solo numerico. Il primo di essi ha a che vedere l’immagine del PD dopo lo scoperchiamento del pentolone putrido di Mafia Capitale, nel quale le cosche del partito romano bollivano allegramente insieme all’immondizia neofascista e al clan degli affari che, trasversalmente, apparecchiava, consumava e digeriva l’indigesto banchetto. Il partito erede dell’etica berlingueriana prima e interprete forse abusivo di Mani Pulite poi, ha ampiamente dimostrato come il nuovo corso della governabilità con chiunque e comunque, con ogni mezzo, lecito o illecito, non trova sostegno in un elettorato che ha già preso le misure a questo nuovo abito e non vuole più indossarlo.
Privo di riferimenti ideali quanto si vuole, ma con ancora gli anticorpi dell’impegno civile, il popolo del centrosinistra indica con il ritiro dalla contesa la giusta distanza da un apparato di potere privo di ogni disegno che non sia quello di sopravvivere a se stesso.
Il secondo elemento che spiega la diserzione in massa dalle primarie ha invece a che vedere con quanto avvenuto con la giunta Marino, dove il PD, capitanato dal voltagabbana Orfini, passato nello sbattere di ciglia da oppositore a presidente in cambio di obbedienza, ha deciso di spodestare il sindaco eletto con una maggioranza assoluta dai romani, che prima ancora l’avevano scelto (contro il volere dell’apparato correntizio del partito) come il candidato a sindaco per una stagione di rinnovamento dopo le sconcezze della giunta Alemanno (per i romani Aledanno). La scelta di cacciare Marino è stata devastante sia nel merito che nel metodo.
Nel merito perché è stato costruito un battage politico-mediatico di sapore complottistico destinato a danneggiare l’immagine di un Sindaco che non distribuiva prebende. La goffagine di Marino aveva poi condito la polpetta avvelenata concepita a Palazzo Chigi, dove si voleva la caduta della giunta romana come prova generale del Partito della Nazione e per dare in pasto al clan composito degli affari romani i fondi del Giubileo. Nel metodo perché la scelta di recarsi dal notaio a sottoscrivere il ritiro della fiducia dei consiglieri e, così, la caduta della giunta, è apparso squallido, stupidamente burocratico da un lato e indicatore del clima di sfiducia esistente all’interno degli stessi consiglieri, che non si fidavano l’uno dell’altro.Il terzo elemento è l’evidente risposta della base del partito alla mutazione genetica in corso nel Pd. La versione renziana del partito, il suo progetto politico centrista di co-governo con la destra di cui il bullo toscano si fa interprete, rende chiaro come a suo tempo l’accusa al governo Letta di stare in maggioranza con la destra fosse solo strumentale. Letta governava con la destra in assenza di una maggioranza alle Camere, mentre Renzi, che sposta ogni giorno di più il partito su posizioni neocentriste, vede proprio nel governo con la destra il suo orizzonte strategico.
Godono sia il M5S che Marchini, mentre il centrodestra assapora con gioia il risultato di Giachetti, ritenendolo giustamente il primo vero sondaggio elettorale. Per la sinistra romana, per quello che ne rimane, c’è ora una dead line obbligata: trovare la strada per azzerare ogni polemica e differenza, abbandonare ogni protagonismo e calcolo di bottega, scegliere un cammino unitario e un nome che sappia rappresentare una prospettiva di governo progressista per la città. Forse è già tardi, quasi certamente il tentativo è superiore alle forze disponibili, ma non si può voltare la testa altrove. Questo è l’appuntamento chiave anche per una sinistra del PD che voglia alzare la testa.
Ci si deve provare. Per non riportare Roma sotto le unghie dei fascisti che l’hanno spolpata, per evitargli figli di papà ai quali ogni idea rischia di perdersi nel vuoto della mente, e per salvaguardarla da improbabili tribuni con amicizie indebite, che hanno preferito candidarsi alla sconfitta piuttosto che rendere elastiche le regoline interne di un movimento che parla di Europa mentre vive in Corea del Nord. Roma si trova così a rappresentare i difetti peggiori della politica italiana. E non lo merita.
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di Fabrizio Casari
L’ennesima capriola mediatica con la quale il governo è riuscito ad addossare al M5S la colpa di una legge monca sulle unioni civili, ha segnato il definitivo ingesso nella maggioranza di governo degli ascari guidati da Denis Verdini. Un dato politico non riassumibile in un ambito di tecnica parlamentare al quale si somma l’ennesimo distinguo della minoranza del PD, autentico ectoplasma politico che in luogo di una linea politica esprime lamenti. Responsabile prima dell’ascesa di questo nuovo gruppo di potere vorace e privo di etica e poi, da due anni, di imbastire un inutile minuetto.
Questo nuovo quadro di governo, fatto di nuovi arrivi e nuove defezioni, di cambi di casacche identitarie in favore della formazione di un nuovo, autentico soggetto politico, racconta di una definitiva mutazione genetica ormai intervenuta nel PD, cha dismette completamente l’identità progressista e muove a passi decisi verso il cosiddetto Partito della Nazione.
Che però, a ben vedere, per le dinamiche che innesta ed il rullo compressore che mette in campo nell’occupazione assatanata di ogni spazio di potere ed influenza, è con tutta evidenza un partito degli affari di osservanza toscana, i cui riferimenti sembrano essere più quelli di una congrega di amici affamati di bottino che non di un gruppo dirigente.
Sul piano squisitamente teorico, però, il cosiddetto Partito della Nazione altro non se non la versione 2.0 della Democrazia Cristiana. Di quell’eredità politica Renzi appare il più fedele interprete e lo stesso oscillare tra posizioni apparentemente diverse sotto il profilo della cultura politica che esprimono (non c’è dubbio che la legge sulle Unioni Civili non è farina del sacco della storia della DC) non è in contraddizione con la rinascita dello scudo crociato del terzo millennio. La DC, del resto, conteneva anime diverse, persino antagoniste tra loro, senza che ciò ne alterasse in profondità l’approccio ideologico fondamentale, basato sul anticomunismo ed Atlantismo e la fedeltà ai dettami vaticani.
Non a caso, sotto la spinta della società che trovava nel PCI e nella sinistra extraparlamentare l’espressione politica e sociale che drenava la costante modificazione in senso progressista del costume nazionale, determinando un senso comune diverso prima ancora che una linea politica precisa, la stessa Democrazia Cristiana approvò importanti riforme sul piano socioeconomico che, complessivamente, offrirono al nostro Paese una delle migliori versioni del welfare a livello europeo.
Ciò perché era fortemente radicata nella stessa DC una cultura assistenzialista che di fronte alle stagioni di proteste per il cambiamento del Paese mirava al contenimento delle contraddizioni sociali e tentava di ridurre la dimensione della forbice socioeconomica proprio in funzione di pacificazione sociale.
In Renzi prevale la cultura cattolica dell’elemosina, lo stile delle Dame di San Vincenzo. Oltre che al meschino calcolo elettorale nell’elargizione di bonus (tutti annunciati e pochi realizzati), il sapore degli 80 Euro a chi già ne guadagna 1600 e i 500 ai giovani (che non arriveranno mai) hanno decisamente il sapore di un’elemosina, soprattutto perché restano sul tavolo il dramma della disoccupazione, gli esodati, la mancata riforma delle pensioni che preveda l’uscita anticipata con una penalizzazione (unica soluzione per il ricambio generale degli occupati e per intervenire sugli over 55 senza lavoro e senza pensione).
Su questi temi, dove servirebbe una politica economica, Renzi balbetta e scimmiotta le tesi monetariste che fanno della bassa inflazione l'obiettivo primario. Così aumenta il prelievo fiscale per finanziare i suoi bonus elettorali, mentre riduce ulteriormente le prestazioni del welfare quando un loro aumento avrebbe invece stimolato la domanda aggregata e stabilizzati i consumi. E l'Italia sprofonda.Ciò che di progressista resta nel PD, ovvero alcuni suoi esponenti e diversi suoi militanti, deve quindi cogliere l’occasione del Congresso per decidere se permangono margini di compatibilità tra la loro cultura politica di provenienza e il disegno del Partito della Nazione. Anche perché una dimensione interclassista e priva di riferimenti ideali e culturali condannata alla navigazione a vista.
E’ allora giunto il momento di produrre uno scatto di reni da parte di quanti vivono da due anni tra le virgole e le parentesi di un discorso che ormai anche i ciechi sanno leggere. Se si vuole contrastare il dogma ultraliberista che condanna all’estinzione della civiltà sociale e politica il Paese, serve la nascita di un nuovo polo della sinistra, che rimetta al centro il lavoro e i diritti, la ricerca di un equilibrio progressista nel sistema Italia.
Serve un progetto politico che cerchi, di fronte alle sfide del terzo millennio, una voce per gli ultimi, un’idea dello sviluppo di un paese che guardi all’interesse generale ed alla compatibilità tra diritti sociali e sviluppo economico.
Il Congresso del PD sarà per Renzi l’occasione per lo sterminio finale di tutti coloro che non s’inginocchiano e non vi sarà margine sostanziale per i distinguo. Dunque, qualunque ipotesi di condizionamento dall’interno è destinata a fare la fine della cavalleria polacca nel ’39.
Il congresso è l’ultima spiaggia per gli indecisi a tempo indeterminato. La rottura dell’architettura renziana è condizione imprescindibile per far ripartire una cultura critica di cui tutto il Paese ha bisogno. Si tratta di ricostruire e servono architetti e muratori, ma senza grembiulino. A meno di non voler morire democristiani dopo aver vissuto da vassalli.
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di Antonio Rei
Dopo ben nove anni passati al Quirinale a seguito di una rielezione inattesa, speravamo di esserci liberati di Giorgio Napolitano. Invece no. L’ex Presidente della Repubblica non si gode la pensione facendo il nonno a tempo pieno, ma esercita ancora un ruolo di peso nei rapporti fra Italia e Ue. La settimana scorsa il presidente della Commissione europea, Jean Claude Juncker, è venuto in visita a Roma. La logica, la prassi e l’etichetta istituzionale lasciavano supporre che la prima meta del numero uno di Bruxelles sarebbe stata Palazzo Chigi. Macché: ancor prima d’incontrare Matteo Renzi, Juncker si è recato in visita dal buon vecchio Re Giorgio.
Un appuntamento a dir poco irrituale, durato più o meno 45 minuti e al termine del quale non è stata concessa ai giornalisti neppure una foto ricordo. E’ stato lo stesso Juncker a pubblicare su Twitter le uniche due immagini del colloquio, seguite da un cinguettio in italiano: “Con il mio caro amico Napolitano. Sempre vivo il suo grande spirito europeo”.
L’ex Capo di Stato italiano, invece, ha fatto sapere che “l'incontro è stato estremamente amichevole e ha consentito di puntualizzare insieme il quadro delle sfide che l'Unione Europea, e in particolare la Commissione presieduta da Juncker, sta in questo momento fronteggiando”.
Non è inutile polemica chiedersi a quale titolo l’ex presidente, ora solo senatore a vita, dunque privo di incarichi istituzionali, incontri il capo della Commissione europea ancor prima del Primo Ministro. Un incontro amichevole? A questo punto la domanda sorge spontanea: quanto è stretta ancora questa “amicizia”? Quanto è ancora “vivo” il “grande spirito europeo” del Presidente che ha massacrato l’Italia? Ciò che più ha caratterizzato il “novennato” di Napolitano è stato proprio il suo servilismo nei confronti di Bruxelles e di Francoforte, di cui ha pedissequamente eseguito ogni ordine.
Sull’altare europeo l’ex Capo di Stato ha sacrificato ogni cosa, perfino il rispetto della volontà popolare: prima con l’imposizione dall’alto dell’infausto governo Monti, poi con il lavoro più sotterraneo e meno dannoso per portare a Palazzo Chigi l’amorfo Enrico Letta (una manovra che, per la verità, è stata possibile solo grazie all’inettitudine politica di Pier Luigi Bersani), successivamente con l’arrivo di Renzi, mai votato, mai eletto e nonostante ciò delegato alla restaurazione politica del Paese in nome degli interessi di chi ce lo ha imposto.
Ora, è evidente che i contenuti del recente colloquio Juncker-Napolitano non verranno mai alla luce. Ma anche sorvolando sulla sostanza e limitandosi alla forma, è ovvio che la scelta del capo della Commissione Ue di recarsi dal “caro amico Giorgio” prima che dal meno affettuoso “friend Matteo” non è casuale né priva di significato. Arriva dopo un periodo di altissima tensione con il governo italiano e subito prima di un cessate il fuoco stipulato per pura convenienza politica, perché in questo momento sono altri i Paesi di cui Bruxelles deve preoccuparsi (Portogallo, Irlanda, Austria, Ungheria, Grecia…).
Secondo i retroscena, quando l’acredine fra Roma e Bruxelles ha toccato il livello più alto, dalla Commissione sarebbe partita una telefonata al Quirinale per chiedere al Presidente di tirare le briglie a Renzi, colpevole di aver usato toni eccessivamente duri contro le politiche europee. Mattarella però, che siede sulla sua poltrona proprio grazie a Renzi, avrebbe rifiutato di prodursi in qualsivoglia ingerenza, per rispettare l’obbligo d’imparzialità che il ruolo di garante della Costituzione gli impone.
Uno scrupolo che Napolitano non si è mai nemmeno sognato, meritandosi così la perpetua stima di Bruxelles, che infatti - dopo il fallimento con Mattarella - è tornata prontamente a chiedere aiuto al suo vecchio amico. Il quale ha obbedito con solerzia, riproponendosi in una lunga intervista a La Repubblica come garante degli interessi europei in Italia. Il messaggio che emerge da tutto questo sembra abbastanza chiaro. La prima autorità politica che Bruxelles riconosce in Italia è ancora quella di Napolitano: con lui Bruxelles si relaziona in via preferenziale, a lui si rivolge quando i governanti di turno a Roma si permettono di alzare troppo la voce. E non è un caso che il bullo di Pontassieve, come già un mese prima con la Cancelliera Merkel, abbia di nuovo calato le braghe.
La dietrologia serve a poco e spesso è dannosa, ma pensare che il colloquio della settimana scorsa sia stato un semplice ritrovo fra compagni di bevute, impegnati a discutere genericamente delle sfide che l’Ue “sta in questo momento fronteggiando”, è quantomeno inverosimile. Quando si va a casa del burattinaio, di solito, si parla delle marionette. Di quelle che oggi occupano il teatrino e, magari, di quelle che un giorno le rimpiazzeranno.