di Antonio Rei

La svolta bulgara di Matteo Renzi sull'Italicum frantuma il Partito Democratico e non convince gli italiani. Ma al Premier non interessa, ormai la decisione è presa. L'attuale Parlamento - delegittimato politicamente in quanto eletto con il Porcellum, dichiarato incostituzionale dalla Consulta - voterà una raffica di fiducie e seguirà una tabella di marcia a tappe forzate per approvare una legge elettorale che, in combinazione con la riforma del Senato, distorce l'assetto istituzionale del nostro Paese in senso autoritario.

Grazie al doppio turno e al premio di maggioranza previsto per la Camera, chi otterrà la maggioranza relativa nelle urne porterà a casa una quantità di seggi oceanica nell'unica Aula che avrà ancora potere decisionale sulle leggi ordinarie, visto che Palazzo Madama si trasformerà in un dopolavoro per enti locali. Addio ai pesi e ai contrappesi previsti dai padri costituenti: quello che ci attende è un presidenzialismo forte e mascherato, in cui il capo del governo avrà molto più margine decisionale rispetto ad oggi.

Il tutto amplificherà il meccanismo già in atto che attribuisce all'Esecutivo anche il potere legislativo tramite la pratica illegittima di moltiplicare l'associazione decreto-legge-voto-di-fiducia. Con tanti saluti al principio di rappresentanza e alla divisione dei poteri, evidentemente derubricati come inutili vezzi costituzionali. D'altra parte, la legge elettorale deve assicurare governabilità, no? Si parla e si discute, ma alla fine qualcuno deve pur decidere, giusto? Poco importa che questa strada logica, se percorsa fino in fondo, riesca a giustificare il dispotismo (in fondo, nel Ventennio mancavano i diritti, non certo la governabilità...).

"Il capo dello Stato conosce bene le prerogative del Parlamento e del governo - commenta Rosy Bindi, facendo seguito alle critiche di Pier Luigi Bersani -. Io comunque non faccio previsioni né do consigli a Capo dello Stato ma mettere la fiducia vuol dire tradire i rapporti fra governo e Parlamento e tradire la nostra vita democratica. La richiesta di fiducia sull'Italicum sarebbe una prova di debolezza da parte del governo e da Renzi non ce lo aspettiamo, ci aspettiamo prove di coraggio". Anche secondo il capogruppo dimissionario Roberto Speranza "Renzi sta commettendo un errore grave nel procedere con questa legge elettorale senza alcuna modifica. La scelta della fiducia è irricevibile, sarebbe errore politico madornale, una violenza vera e propria al Parlamento italiano".

I 5 Stelle minacciano "azioni extraparlamentari" e Arturo Scotto, capogruppo di Sel e Montecitorio, sottolinea che "la fiducia sulla legge elettorale è un'aberrazione: parliamo di una legge di rango costituzionale e sulla Costituzione nessun governo guidato dal buonsenso porrebbe mai la questione di fiducia".

Intanto, un sondaggio Ipsos pubblicato dal Corriere della Sera fotografa una situazione inquietante: il 35 percento degli italiani dichiara di non sapere quale sia il contenuto dell'Italicum (e l'ignoranza è in crescita, visto che a dicembre era il 29 percento), il 51 percento è contrario al provvedimento e solo il 34 percento si dice favorevole (un dato che sta cadendo a picco: dopo l’insediamento di Renzi, nel febbraio 2014, era al 58%, mentre lo scorso dicembre era al 45%). Il 61 percento, infine, ha una particolare avversione per i capilista bloccati.

Quest'ultimo punto è di particolare rilevanza. Di per sé, in verità, il tema generale delle preferenze assomiglia molto a uno specchietto per le allodole. La vulgata sostiene che bloccare le liste o i capilista significhi limitare la libertà di scelta degli elettori per favorire un sistema meno democratico di nomine. In realtà, si tratta di una considerazione parziale: anche con le preferenze gli elettori possono scegliere solo all'interno di una rosa limitata di nomi indicata dai partiti, perciò è evidente che non stiamo parlando di chissà quale strumento di democrazia diretta.

Tutto questo però non toglie che proprio l'avversione dello stomaco degli italiani al concetto di "blocco" nelle liste potrebbe spostare in modo decisivo l'ago della bilancia quando gli elettori saranno chiamati alle urne per il previsto referendum confermativo (o abrogativo?) sulle riforme. L'Italicum, insomma, otterrà quasi certamente il via libera Parlamento e non si trasformerà nella pietra su cui si consumerà la caduta del governo. Ma potrebbe comunque non sopravvivere fino alle prossime elezioni.

di Fabrizio Casari

Sono passati 70 anni da quando la lotta partigiana contro il fascismo e l’occupazione nazista ebbe il suo epilogo vittorioso. Da quel 25 Aprile del 1945 i partigiani, che avevano dato il loro sangue e il loro coraggio per la liberazione della Patria, riscattarono la dignità di un paese che era stato piegato e piagato da 20 anni di fascismo e dalla guerra che Mussolini volle combattere al fianco di Hitler.

Leggi razziali e guerre coloniali, cessione del paese all’occupante straniero, gas contro le popolazioni africane e uccisioni, fine della libertà politica e sindacale, galere e confino contro gli oppositori, sono solo alcuni dei caratteri emblematici del fascismo, che ha avuto nella partecipazione attiva all’Olocausto la cifra simbolica della sua storia ributtante.

Dagli scioperi del 1943 fino all’insurrezione del 1945, il lavoro clandestino politico e militare della Resistenza, guidata dal Partito Comunista, dal Partito Socialista, dal Partito D’Azione e dalla Democrazia Cristiana, cambiò in profondità sia il volto dell’Italia che l’epilogo del dominio nazifascista. Il cuore combattente, nelle montagne e nelle città fu certamente quello del PCI guidato da Luigi Longo, ma anche il contributo socialista, azionista e cattolico non va sminuito. Da quel 25 Aprile proprio le Brigate Partigiane, contribuirono a formare la cintura di sicurezza di un Paese che nella sconfitta del nazifascismo cominciava a costruire il suo futuro di democrazia partecipativa.

Il 25 Aprile sanciva, infatti, la data spartiacque di due epoche storiche. Dichiarava, senza possibilità di replica, la nuova dimensione dell’Italia che iniziava la sua ricostruzione con sulle spalle l’esperienza della lotta di liberazione. E se oggi continuiamo ad avere una Costituzione tra le più avanzate al mondo, forse la migliore dei paesi occidentali, è proprio grazie alla Resistenza.

Vanno dunque accolte con soddisfazione le parole del Presidente della Repubblica, Mattarella, che ha voluto ribadire con forza come “la Costituzione sia il frutto della lotta antifascista contro la dittatura e la guerra”. Anche per questo è stato quindi un atto dovuto, ma bello, vedere pochi giorni orsono i partigiani festeggiati dall’aula di Montecitorio, che grazie alle loro armi cessò di essere “l’aula sorda e grigia” di mussoliniana memoria.

Una storiografia faziosa e revisionista, che vorrebbe vergognosamente equiparare la legittimità di vincitori e vinti, assegna all’intervento angloamericano il merito della resa nazifascista e della liberazione del Paese dall’occupazione straniera. Ma è bene ricordare come il contributo della lotta di liberazione partigiana sia stata determinante, sia per l’indebolimento politico e militare dell’occupante e del suo alleato fascista, sia per aprire la strada all’ingresso delle truppe alleate.

Tedeschi e fascisti dovettero subire l’incessante attività militare partigiana che ne fiaccò non poco la loro tenuta e spazzò via la loro presunta invincibilità. In montagna come nelle valli e nelle città: in nessun luogo gli invasori e i loro alleati fascisti poterono sentirsi al sicuro.

Senza l’azione militare partigiana i tempi e il costo in vite umane dell’arrivo degli alleati sarebbero stati di gran lunga maggiori e le truppe naziste avrebbero potuto disporre di più tempo per tentare di opporre una maggiore resistenza agli sbarchi alleati.

Il contributo militare della Resistenza, dunque, in faccia al revisionismo destrorso che lo vorrebbe limitato nella partecipazione e negli effetti, fu invece fondamentale, come del resto riconosciuto anche dal comando alleato. Basti pensare a Milano o a Genova, dove i tedeschi trattarono la resa direttamente con i partigiani, ben prima dell’arrivo delle truppe angloamericane.

Ma prima ancora che i suoi indiscutibili meriti militari, la resistenza antifascista fu fondamentale per aver offerto al popolo italiano la possibilità di alzare la testa, di trovare la strada possibile per la sua ribellione contro l’oppressore nazifascista. Questo furono i partigiani: il nuovo collante delle classi lavoratrici, che seppero unire il desiderio di libertà al sogno di una società di eguali.

Settant’anni dopo quel 25 Aprile, si possono anche ricordare tutti i tentativi, falliti ma non cessati, di riscrivere la storia di quella guerra e di quella ribellione in chiave revisionista, e nello spacciare una sorta di dolore per tutte le vittime, si tenta di azzerarne le scelte in un indistinto calderone che piega la storia alle convenienze politiche.

Un'operazione politica alla quale anche presunti esponenti della sinistra come l’ex Presidente della Camera Violante hanno offerto il loro contributo, insieme a qualche penna pentita, convertitasi per denaro e rancore alla causa della rilettura di destra della storia. Lo hanno fatto cercando di raccontare quella vicenda assoluta e tragica come una guerra civile tra opposte fazioni e negando così, in profondità, i crimini del fascismo e la resistenza ad essi.

Ma, come scrisse Italo Calvino, “tutti uguali davanti alla morte, ma non davanti alla storia. Come ha ben detto il Presidente Mattarella, “non c'è dubbio che la pietà e il rispetto siano sentimenti condivisibili di fronte a giovani caduti nelle file di Salò che combattevano in buona fede.  Questo non ci consente, però, di equiparare i due campi: da una parte si combatteva per la libertà, dall'altra per la sopraffazione. La domanda di Bobbio ai revisionisti è rimasta senza risposta: che cosa sarebbe successo se, invece degli alleati, avessero vinto i nazisti?".

La società italiana e la sua vicenda politica non rispecchia, a tanti anni di distanza, quel sistema di valori per il quale i partigiani furono disposti a combattere e a morire e che, certamente, sognavano un’altra Italia e non quella che si andò costruendo. Non a caso e non per errore si è parlato spesso di “Resistenza tradita”, proprio per significare la distanza ideale, politica, sociale, civile e morale dai valori della Resistenza a quelli oggi imperanti.

Ma, settant’anni dopo, il ricordo e la testimonianza di coloro che ebbero l’onore di scrivere nelle città e nelle montagne le pagine più belle della storia italiana, non possono che rappresentare un incitamento a non arrendersi, a cercare il cammino della giustizia sociale e della democrazia.

La libertà e la giustizia sociale sono le due gambe su cui cammina la democrazia e affermarle insieme contro la barbarie fascista di ritorno è il modo migliore di celebrare il settantesimo anniversario della rinascita dell’Italia.

Oggi la Resistenza può continuare a rappresentare la parte migliore della storia dell’Italia se saremo capaci di non dimenticare, di non perdonare, di non indietreggiare; se saremo capaci di vigilare e opporsi con forza all’ignoranza barbara del fascismo di ritorno. Impedendo in primo luogo che venga sbianchettata la pagina più nobile della nostra storia in nome d’insopportabili riconciliazioni nazionali, che vogliono azzerare le responsabilità criminali dei vinti e i meriti storici dei vincitori.

di Fabrizio Casari

Settecento morti, forse novecento, sono l’ultimo tragico numero con cui l’Occidente può ritenersi un muro invalicabile. Una ecatombe che trasforma il Canale di Sicilia in un cimitero acquatico disegna un confine di morte che supera le acque territoriali e lo spazio aereo e disegna l’unico confine esistente, quello tra la vita e la morte. Stipati, anzi strizzati, in un barcone di 20-30 metri partito dalla zona est di Tripoli, hanno viaggiato come animali e sono morti come nessuno mai dovrebbe morire.

Altre fonti parlano di 950 persone che si trovavano a bordo dell'imbarcazione, dunque i morti potrebbero essere oltre 900. Ventotto i superstiti. Difficilmente verranno ripescati tutti i corpi, ancor più difficilmente verranno ricordati i nomi. Dal 1996 ad oggi, sono ormai decine di migliaia (quasi seimila dal 2013) i corpi sepolti nel Canale di Sicilia, il braccio di mare che per i dannati della terra dovrebbe separare l’orrore dalla speranza.

L’Africa e il Medio Oriente ci restituiscono con decine di migliaia di corpi di disperati il saccheggio del loro territorio e l’indegno supporto a dittatori sanguinari che combattono con l’orecchio teso alle convenienze delle multinazionali e l’occhio aperto sulle vendette tribali che caratterizza la barbarie del combattere. Da questo inferno di povertà e morte gli esseri umani fuggono.

A secoli di sfruttamento delle sue risorse minerali, si sono aggiunti gli appetiti dei trafficanti di armi e delle compagnie petrolifere. Avvoltoi che hanno trovato il menù preferito nelle decine di migliaia di disperati che per un salario combattono e uccidono  e in altri avvoltoi quelli che organizzano il traffico di esseri umani che dall’inferno provano a fuggire.

Le guerre scatenate in tutto il Maghreb, la formazione di organizzazioni militari come l’Isis che ha alzato ulteriormente il livello della macelleria nordafricana e mediorientale. Dalla Libia alla Siria, dall’Iraq allo Yemen, il risiko geopolitico che garantisce il dominio occidentale sui paesi produttori di petrolio ha trasformato l’intero Medio Oriente e l’area del Golfo in una pozza di sangue, dollari e petrolio. Ma se il petrolio finisce nella disponibilità delle dinastie e degli emiri e i dollari vanno nelle tasche delle multinazionali, i poveri ci mettono il sangue.

E gli innocenti fuggono, perché restare significa morire. Sanno perfettamente che il loro viaggio non è privo di rischi, ma il morire in mare viene considerato meno brutto e più veloce che morire nel deserto. Morire cercando di sopravvivere rappresenta comunque una possibilità, per quanto scarsa, rispetto alla certezza di non sopravvivere.

Le parole di Papa Bergoglio, il miglior Vescovo di Roma in tutta la storia pontificia, rimbombano nel vuoto assoluto della politica che, per definizione, dovrebbe lasciare alla Chiesa il lavoro sulle anime, occupandosi invece lei quello sui corpi. I campioni del cattolicesimo variamente allocati che straparlano quando si tratta di negare i diritti civili, tacciono sui diritti umani.

La politica italiana, a dimostrazione di come il suo livello rasenti ormai il fondo del fondo, è costretta a subire persino l’ascolto delle parole (per modo di dire) di Salvini, un balubba per il quale dobbiamo augurarci possa provare almeno un giorno della sua vita quello che provano tutti i giorni di tutta la vita i migranti.

Ma se quello che esprime Salvini altro non sono che flautolenze del pensiero alla ricerca di voti dei balubba come lui, ben più preoccupante risulta l’incapacità del governo di porre con forza in sede europea il tema dell’assistenza ai migrati.

L’indifferenza di Bruxelles, covo di fanatici funzionari al servizio della grande finanza, non può diventare l’alibi per fermare operazioni come Mare Nostrum. Ci sono modi e forme per far scontare all’Unione Europea il mancato contributo e il mancato rispetto degli impegni assunti in tema di assistenza ai migranti.

A Bruxelles si dovrà dire che o s’impegnano le risorse necessarie all’amministrazione del problema che ha, ovviamente, dimensione europea, oppure saremo noi a ridurre il filtro, a consentire cioè che l’Italia diventi sbarco e terra di passaggio verso i restanti paesi dell’Unione. A questi cialtroni dai colletti bianchi e dalle scarpe nere, che prevedono la libertà assoluta di circolazione per il denaro e il divieto assoluto per gli uomini, non può che essere presentato lo scenario peggiore come scenario unico.

Lungi dal poter pensare che l’Italia possa farsi carico di ricevere e ospitare ogni quantità di migrazione, Roma non può però invocare l’assenza di validi contributi europei per ridurre la presenza umanitaria nelle sue acque territoriali e in quelle di prossimità. L’Italia deve muoversi, Europa o no.

E non è certo con i gulag a cielo aperto come i CIE che potrà essere affrontato il tema dello smistamento dell’accoglienza. Europa o no non possiamo rimanere fermi al limite delle nostre acque a fornire assistenza ai corpi già in mare, ma possiamo e dobbiamo intervenire contro le organizzazioni internazionali degli scafisti ovunque esse si trovino ed operino.

Atteso che non sono nemmeno ipotizzabili politiche preventive e repressive nel fenomeno della migrazione, che riguarda l’intero pianeta, dobbiamo rendere in qualche modo governabile l’immigrazione.

Non solo perché un dovere etico e umanitario, ma proprio perché il tema della salvezza di decine e decine di migliaia di vite umane non può e non deve subire le regole della contabilità. Il valore della vita, l’aiuto ai più deboli e l’assistenza agli innocenti non può essere misurato con la compatibilità dei ragionieri.

E, se proprio si vuole mettere mano alle compatibilità delle risorse finanziarie con quelle dell’animo, si cominci ad indagare quali e quanti sono i costi maggiorati causa corruzione e appalti a “cooperative” nate alla bisogna dalle tasche dei comprimari della politica per riportare le cifre sotto la cifra delle decenza dovuta.



di Antonio Rei

Il Def è arrivato e, secondo il mantra del governo, non ci saranno "né tagli alla spesa né aumenti delle tasse". A ben vedere, però, la realtà racconta una storia diversa, il cui finale deve ancora essere scritto. Mercoledì si terrà una riunione della Conferenza Stato-Regioni tutt'altro che semplice per l'Esecutivo, che dovrà stabilire insieme ai governatori come e dove applicare i 2,3 miliardi di tagli alla sanità previsti per il 2015, ovvero oltre il 50% dei 4 miliardi di spending review imposti per quest'anno alle Regioni dall'ultima Legge di Stabilità.

Circa un miliardo e mezzo arriverà dal taglio all’acquisto di beni e servizi e altri risparmi sono attesi da interventi sulla rete ospedaliera e forse anche dalla revisione della spesa farmaceutica. Il premier Matteo Renzi ha parlato di una "razionalizzazione della spesa sanitaria" che dovrebbe articolarsi su due piani: applicazione dei costi standard (con "la famosa siringa che dovrà costare la stessa cifra dalla Lombardia alla Calabria") e riduzione delle poltrone ("vi pare possibile che ci siano Regioni con 7 Province e 22 Asl?").

Questi tagli dovrebbero rientrare nei 7,2 miliardi di riduzioni di spesa previsti in generale per tutto l'apparato pubblico, compresi gli altri enti locali (un miliardo dai Comuni) e i ministeri. Il governo assicura che queste decurtazioni non si tradurranno in aumenti delle tasse locali, ma si tratta di un'affermazione discutibile per almeno due ragioni.

Primo: per evitare che l'anno prossimo scatti una clausola di salvaguardia da 16 miliardi, il governo deve reperirne almeno 10 nel 2015. Per riuscirci non può limitarsi a confermare i tagli già previsti dalla scorsa manovra, ma deve aggiungerne di nuovi, e difficilmente ci riuscirà rimanendo sul terreno della "razionalizzazione" e della riduzione della poltrone. E in generale - anche allungando lo sguardo oltre il 2015 -, è ovvio che la diminuzione dei trasferimenti agli enti locali si tradurrà (com'è già accaduto) in un aumento delle accise da parte di Comuni e Regioni, anche perché gli enti locali devono continuare a combattere contro il patto di Stabilità interno, che impedisce loro d'indebitarsi eccessivamente.

Secondo: il governo non aumenta le tasse, ma intende ricavare altri 2,4 miliardi dalla revisione delle agevolazioni fiscali. Non è chiaro se questa operazione, la cosiddetta "tax expenditure", colpirà solo le imprese o - come pare più probabile - anche le famiglie, ma è evidente che un colpo di falce sulle detrazioni produce un effetto analogo a quello di un aumento delle tasse. L'esecutivo, in ogni caso, promette di ridurre la pressione fiscale sotto il 43%: al 42,9% nel 2015 e al 42,6% nel 2016, in entrambi i casi al netto del bonus Irpef da 80 euro.

Nel frattempo, con un occhio puntato alle prossime elezioni regionali, il governo ha recuperato un tesoretto da 1,6 miliardi di euro aumentando il deficit dal 2,5% al 2,6% del Pil. Risorse che per il momento Renzi tiene in frigorifero, assicurando che la loro destinazione sarà decisa "nelle prossime settimane". I sindacati vorrebbero che a beneficiare delle nuove risorse fossero i pensionati, i disoccupati, e soprattutto gli incapienti, ovvero le persone che guadagnano troppo poco per pagare l'Irpef e che perciò sono rimaste escluse l'anno scorso dal bonus di 80 euro. All'epoca il Premier aveva assicurato un intervento anche nei loro confronti, ma da allora non se n'è più sentito parlare.

Intanto, il governo ha trovato il modo di litigare anche con Confindustria, che si è fatta sentire picchiando duro con il proprio braccio giornalistico.  Il Sole 24 Ore ha scoperto che in uno dei decreti attuativi del Jobs Act è spuntata una clausola di salvaguardia secondo la quale - nel caso in cui si esaurissero i fondi destinati agli incentivi alle assunzioni - le risorse necessarie sarebbero recuperate con un contributo di solidarietà a carico di imprese e lavoratori autonomi.

"Prevedere un aumento dei contributi per tutte le imprese come clausola di salvaguardia dello sconto contributivo per le aziende che stabilizzano i precari supera ogni immaginazione - scrive Fabrizio Forquet sul Sole -. Sembra una boutade, uno sketch di Crozza. E invece qualcuno lo ha scritto davvero nel decreto legislativo sui contratti. Bisognerebbe pretendere il nome di cotanto genio. Di sicuro Renzi interverrà. O no?".  Com'era ovvio, il mea culpa del governo è arrivato a stretto giro: il ministro del Lavoro, Giuliano Poletti, ha assicurato che "la clausola sarà superata prima dell’ok definitivo al provvedimento".

di Antonio Rei

E' un'onda di numeri a caso quella che Matteo Renzi riversa sui giornalisti a Palazzo Chigi. In attesa di venerdì, quando il Governo presenterà ufficialmente il nuovo Documento di economia e finanza, martedì pomeriggio il Premier si produce in una conferenza stampa dai toni quanto mai berlusconiani. La sparata più grossa, come sempre, riguarda le tasse.

Il Presidente del Consiglio sostiene di averle ridotte addirittura per 21 miliardi: 10 dal bonus di 80 euro, otto dalla decontribuzione dei contratti e tre dal disinnesco di precedenti clausole di salvaguardia. Sorvoliamo sul fatto che la decontribuzione vale tre anni (poi addio) e sull'assurdità di considerare la mancata applicazione di una clausola di salvaguardia alla stregua di una riduzione delle tasse. Restiamo sui numeri.

Il 2 aprile scorso l'Istat ha fatto sapere che nel quarto trimestre del 2014 la pressione fiscale è risultata pari al 50,3%, in aumento di 0,1 punti percentuali su base annua. In tutto l'anno passato, invece, il dato ha raggiunto il 43,5%, in aumento anche in questo caso di 0,1 punti percentuali rispetto al 2013. Com'è potuto accadere, visti i 10 miliardi di riduzione dell'Irpef (per gli amici, "gli 80 euro") decisi a giugno scorso da questo governo? Semplice: se finanzi i tagli alle tasse centrali diminuendo le risorse da girare agli enti locali, questi ultimi compensano i mancati trasferimenti spingendo al massimo le accise locali.

Il meccanismo dei vasi comunicanti si ripete: è già accaduto e continuerà ad accadere. Secondo un focus della Uil, ad esempio, soltanto l'introduzione della Tasi e l'aumento delle addizionali Irpef regionali erodono oltre il 40% dei famosi 80 euro. Poi ci sono gli aumenti scattati a gennaio su sigarette, canone Rai, giornali e benzina (a proposito: come mai l'Eni non taglia mai il prezzo alla pompa in proporzione al crollo delle quotazioni del petrolio?). Si tratta di rincari che pesano sulle tasche di tutti gli italiani, non soltanto su quelle di chi beneficia dei famosi 80 euro, ovvero la classe media.

Basterebbe questo per smentire l'affermazione di Renzi secondo cui "non ci saranno aumenti delle tasse nel 2015". Ci sono già stati, Presidente. Ma Renzi non si ferma e arriva ad assicurare che quest'anno non arriveranno ulteriori tagli alla spesa pubblica. Lo dice proprio mentre il tandem Yoram Gugteld/Roberto Perotti - fresco di nomina al timone della spending review - si sta industriando per portare al Governo 10 miliardi di risparmi nel corso del 2015.

Ora, è verosimile che il duo delle meraviglie arrivi a una cifra del genere solo razionalizzando la spesa, senza tagliare nemmeno un euro ai bilanci degli amministratori? Certo che no, ma non è nemmeno questo l'aspetto più grave. Anche in caso di miracolo, infatti, quei soldi non basterebbero: 10 miliardi non sono pochi, ma le famigerate clausole di salvaguardia valgono 16,8 miliardi nel 2016 e addirittura 23 miliardi nel 2017.

"Non ci saranno tagli alle prestazioni per i cittadini", ribadisce il Premier, distillando rassicurazioni su scelte che non spettano a lui, "ma c'è bisogno che la macchina pubblica dimagrisca un po' e, se i sacrifici li fanno i politici o salta qualche poltrona nei consigli di amministrazione, male non fa". Nulla di più banale e populista, peccato che si scontri con la realtà dei numeri.

Ne sa qualcosa il ministro del Tesoro, Pier Carlo Padoan, il quale garantisce che "se la crescita sarà migliore delle attese le clausole di salvaguardia si disinnescheranno automaticamente". Non è esattamente il rigore scientifico che ci si aspetterebbe da un tecnico, ma lasciamo stare. Concentriamoci piuttosto sulle "attese": il governo prevede per quest'anno una crescita del Pil pari allo 0,7%. E' quanto verosimilmente riusciremo a incassare nell'anno del petrolio a prezzi di saldo e del Quantitative easing della Bce.

In pochi lo ricordano, ma a dicembre lo stesso Padoan aveva detto che il greggio a 60 dollari al barile prolungato nel tempo "potrebbe essere una buona notizia" e portare ad uno "0,5% di crescita in più". Oggi la quotazione del Brent è in risalita, ma al momento rimane comunque sotto i 57 dollari.

Quanto alla politica monetaria della Banca centrale, il programma di espansione abbatte i tassi reali sui titoli di Stato e indebolisce l'euro, rafforzando "l’attività economica - ha scritto il Centro studi di Confindustria -. I minori tassi alzano il Pil italiano dello 0,2% nel 2015 e di un ulteriore 0,4% nel 2016; il cambio più debole dello 0,6% in ciascun anno. La spinta complessiva è dunque pari allo 0,8% nel 2015".

Calcolatrice alla mano, tutto ciò significa che, senza il crollo del petrolio e l'apertura dei forzieri da parte della Bce, anche quest'anno avremmo dovuto esultare in caso di stagnazione.


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