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di Rosa Ana De Santis
Gli specialisti dei sondaggi e della cronaca politica, dopo Piazza del Popolo di sabato scorso, hanno già tracciato l’identikit dell’alleanza pasticciata tra Lega e Casa Pound, nata unicamente per accattonare voti sulle ceneri di Silvio Berlusconi e ammantata con abilità da Matteo Salvini, il vero dominus del minestrone, di ambizioni quasi cristiane: la difesa degli ultimi di questo tempo storico. Gli ultimi dentro il Grande Raccordo Anulare. Divertente.
Fin troppo semplice fare ironia sull’eterogeneità di questo matrimonio tra un movimento politico di ispirazione fascista, tutto patria e nazionalismo, e quel brandello di Lega Nord verginizzato dal nuovo segretario che ha promosso per oltre venti anni la cultura della secessione e il disprezzo per la patria e l’unità nazionale. La bizzarra teoria dell’onore secondo la quale i balilla di Casa Pound accettano in casa le bandiere della Padania restituisce ai commentatori un’immagine penosa degli adepti di questo fascismo 2.0 e del loro dux Di Stefano.
Ve lo immaginate Benito Mussolini siglare un patto d’acciaio con disordinati lanzichenecchi qualsiasi, che sputano sul tricolore, rinnegano la storia risorgimentale e promuovono l’autarchia regionale per il Nord dopo aver saccheggiato i palazzi di Roma?
Casa Pound svela in quest’operazione la sua quintessenza. Altro che formazione e cultura, lezioni di storia e filosofia, recupero dei fasti di una storia nobile, studio delle dottrine alternative. Un drappello impunito di giovinastri animati di violenza verbale e fisica, delinquenziale, con un bisogno disperato di assomigliare a qualcuno, uno qualsiasi, sprovvisti di formazione culturale minima, bramosi di un capro espiatorio a caso per sentirsi valorosi. Manodopera orfana persino dell’orrore delle idee fasciste che si lascia assoldare dai leghisti il cui sogno di secessione è finito a Tirana nella compravendita della laurea del figlio del loro capo. Divertente anche questo.
La pericolosità di questa alleanza consiste proprio nel suo disordine ideologico. Quella del fascismo era annidata nella chiarezza di un manifesto culturale e politico ben definito, che ha avuto una sua parabola di ascesa e declino incastonata nel quadro di un conflitto mondiale. Dal Sansepolcrismo in poi il fascismo italiano, pur in alcuni cambi di rotta dettati dalla scena internazionale, non perse mai alcune connotazioni programmatiche del modello di società su cui era stata fondata la sua tragica missione politica.
Oggi abbiamo invece degli orfani del Duce, perdenti da generazioni e per questo ancor più pericolosi, in cerca pirandelliana d’autore che salgono sul Carroccio solo per la speranza di spuntare una vittoria e di contare di più. Il punto di unione tra secessionisti e nazionalisti è l’atto di guerra ad un nemico comune, peggiore di quelli noti nel perimetro di casa.Il nemico assoluto diventa, nel linguaggio sdoganato e infarcito ormai di turpiloquio perdonato (perché cosi si è più vicini all’uomo della strada e si è più autentici), lo straniero. Non ogni straniero, attenzione, non lo straniero ricco del passato, ma quello disperato e ramingo che arriva per mare, sui gommoni e dalle coste dell’Africa. L’ultimo degli ultimi. Il più debole, proprio lui, fa tanta paura.
Nessuno ricorda più l’immigrazione comunitaria Europea che pure tanti interrogativi di governabilità ha lasciato inesplorati. Ormai lo straniero è africano (nero), islamico, presunto - e nemmeno troppo - terrorista a bordo di un gommone, e magari anche traghettatore di Ebola, quella che ha viaggiato indisturbata in prima classe sugli aerei di linea. Il mix fatale di sotto idee evoca pensieri e parole da Ku Klux Klan.
Questo è il pericoloso vangelo di Lega Pound: etnicizzazione del male e, peggio, etnicizzazione della povertà e di alcune in modo particolare; ridicola ricerca dell’italianità di sangue (non è sciolto il dubbio se settentrionale o meridionale o prima e dopo la legge che Renzi farà sulla cittadinanza alle seconde generazioni di immigrati) come bussola di una qualsiasi azione di governo, nazionale o locale che sia.
Siamo già agli alti livelli della discriminazione razziale del nazismo più fulgido. Altro che fascismo italiota. Siamo alla teorizzazione dei popoli buoni e meno buoni, siamo alla benedizione di un olocausto già in atto. Soprattutto siamo nella confusione di chi avendo studiato poco e male spaccia soluzioni ignorando che il continente africano non sia esattamente come la Lombardia e propone piani di intervento in loco che farebbero sorridere uno studente di scienze politiche al primo anno.
Nella trasmissione di martedi sera, Le Invasioni Barbariche, intervistato da Daria Bignardi, Matteo Salvini ha preso a modello la politica dell’Australia sull’immigrazione. Un buon paradigma certamente.
Ma non si può essere credibili quando si parla di governare il fenomeno dell’immigrazione con velleità da stratega e statista, e nelle piazze si diventa un capo curva di stadio, si incita alla caccia all’uomo, a solleticare gli istinti più bassi e in tv si sguinzaglia come onorevole un Bonanno che definisce i rom “feccia dell’umanità”. La sensazione è che in un paese del primo mondo, come lo chiamerebbe Salvini, questo mercato di stracci non ci sarebbe.Perché Salvini con le sue felpe sta molto bene, a pensarci, in un circo di cinghiamattanza alla Casa Pound, e sta malissimo su qualsiasi scranno istituzionale. Perché non ha pudore di non andare in quelle terre, da Roma in giù, che per anni il suo partito ha umiliato e denigrato. Nessuno stupore che il figlio di Bossi si allei con i fascisti, perché in fondo il fascismo, che storicamente è morto, è diventato un abito dello spirito e, in tal senso, i leghisti lo sono sempre stati anche quando non ne erano consapevoli.
Ben più e meglio di questi reduci di Casa Pound che nelle polverose stanze dei cimeli vorrebbero tornare alla mistica di una violenza politica che nelle loro mani è diventata violenza punto, prestazione d’opera per ovunque ci si possa sentire uomini (magari con una spranga in mano contro un barbone), con un tasso di ingenuità che unico, Salvini, giocatore vanesio di questa partita tutta personale, non ha.
Ci crede davvero nella vittoria il drappello dei zelanti operai del nuovo razzismo made in Italy che le Lega ha assoldato a buon prezzo. Mercenari che saranno sconfitti un’altra volta. Non dalla storia in questo caso, ma dalla geografia. Regaliamo a Casa Pound un atlante.
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di Antonio Rei
Non fosse per la nausea, rimarrebbe solo la tristezza. La baracconata romana organizzata sabato dalla Lega di Matteo Salvini, che ha dato ampio spazio ai neofascisti di Casa Pound, si è risolta in un'accozzaglia di sproloqui male assortiti e male organizzati. Hanno fallito anche nel tentativo di riempire Piazza del Popolo, facendosi surclassare nei numeri dal corteo della sinistra antagonista romana, che ha portato 20mila persone in strada al grido di "Mai con Salvini" e "Fascisti e leghisti fuori da Roma".
Gli antirazzisti e gli antifascisti romani sono stati più che sufficienti a umiliare lo zoo fascio-leghista, ma è assurdo che l'unica risposta all'abominio salviniano sia arrivata dalla società civile. Davanti al palco di Salvini c'erano bandiere con croci celtiche bianche su fondo nero, ritratti di Benito Mussolini, energumeni rasati a pelle con il braccio destro caricato a molla per il saluto romano.
Non è mancata la solidarietà degli amichetti stranieri: dal videomessaggio di Marie Le Pen, leader dell'estrema destra francese, ai simpatizzanti di Alba dorata, il partito nazista che siede nel parlamento greco. Accanto a tutte queste amenità sventolavano i vessilli della Lega e le bandiere anti-euro. Qualcuno, poco seguito, blaterava di quote latte, indossando con ingenua coerenza elmi cornuti.
Ha aderito alla manifestazione perfino il sindacato autonomo di Polizia, chiarendo a tutti in quali mani sia l'ordine pubblico. Sarebbe interessante sentire cosa pensa di fare il ministro dell'Interno, Angelino Alfano, ovvero quali provvedimenti intenderà adottare nei confronti degli agenti intervenuti sabato sul palco, alla luce dell'articolo 81 della legge n. 121 del 1981, in cui si chiarisce che "gli appartenenti alle forze di polizia debbono in ogni circostanza mantenersi al di fuori delle competizioni politiche e non possono assumere comportamenti che compromettano l'assoluta imparzialità delle loro funzioni. Agli appartenenti alle forze di polizia è fatto divieto di partecipare in uniforme, anche se fuori servizio, a riunioni e manifestazioni di partiti, associazioni e organizzazioni politiche".
E' vero, i poliziotti in questione non erano in divisa, ma hanno partecipato alla manifestazione di sabato in quanto SAP, non a titolo personale, perciò sarebbe legittimo attendersi per loro il divieto di prender parte al servizio d'ordine pubblico destinato alla vigilanza sulle manifestazioni operaie e studentesche o di qualunque altra natura riconducibile alla sinistra. L’evidente orientamento politico del SAP (già protagonista di altri episodi disgustosi e censurabili) è incompatibile con la neutralità politica ed obiettività richiesta alle forze di sicurezza a tutela dei diritti dei cittadini.
Insomma, sotto ogni punto di vista la baracconata di sabato è stata un insulto all'Italia. Sarà pedante, ma vale sempre la pena di ricordare che la XII disposizione transitoria della Costituzione italiana vieta la riorganizzazione, sotto qualsiasi forma, del disciolto Partito Nazionale Fascista.
E la legge Scelba del 1952, quella che proibisce l'apologia del Fascismo, precisa che "la riorganizzazione" di cui parla la Carta si ha "quando un'associazione, un movimento o comunque un gruppo di persone non inferiore a cinque persegue finalità antidemocratiche proprie del partito fascista, esaltando, minacciando o usando la violenza quale metodo di lotta politica o propugnando la soppressione delle libertà garantite dalla Costituzione o denigrando la democrazia, le sue istituzioni e i valori della Resistenza, o svolgendo propaganda razzista, ovvero rivolge la sua attività alla esaltazione di esponenti, principi, fatti e metodi propri del predetto partito o compie manifestazioni esteriori di carattere fascista".Difficile negare che in questa descrizione rientri a pieno titolo il raduno di Piazza del Popolo. E allora perché mai nessun membro del governo ha aperto bocca per condannare lo scempio? Sabato Renzi ha trovato il tempo di pubblicare un tweet puerile sulla nazionale di rugby, ma non di ricordare che in Italia l'antifascismo è un valore fondamentale.
E' una questione di dignità, ma naturalmente non significa che alle porte si affacci un nuovo Pnf. Lo zoo di Salvini è tutto tranne che un gruppo coeso. Nel suo eclettismo spregiudicato (che non gli vieta nemmeno di citare Don Sturzo e Don Milani), il leader leghista è riuscito a infilare nello stesso calderone persone che fino a un paio d'anni fa si sarebbero prese a schiaffi per strada (i celoduristi di "Roma ladrona" e la destra romana più becera).
Il problema è che per riuscirci ha dovuto usare i fattori aggreganti più efficaci sui trogloditi: il razzismo (ormai l'attacco ai rom è un ritornello), l'aspirazione alla violenza come legittima difesa (quasi santificato Graziano Stacchio, il benzinaio vicentino col fucile) e vari slogan dai contenuti elementari ma dalla forma accattivante, in quanto satura di male parole ("Vaffanculo alla Fornero", "Faremo un mazzo così ai burocrati"). Tutto pur di fare leva sul testosterone mal gestito e sulla libido repressa dei neofascisti. Che hanno trovato finalmente il loro nuovo capo.
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di Fabrizio Casari
Lascerà dunque oggi il Quirinale il presidente Napolitano. Una scelta annunciata da diversi giorni e politicamente in agenda da diversi mesi. Lascia senza aver portato a compimento l’ultima operazione politica che aveva in mente, in condominio con Renzi: la riforma istituzionale che, nel riassetto delle istituzioni in funzione delle esigenze di dominio delle elites, chiudesse una volta e per tutte con la storia delle istituzioni repubblicane così come fino ad ora conosciuta.
Una riforma, quella di Renzi, che contiene dei tratti di incostituzionalità che avrebbero dovuto spingere il Presidente della Repubblica, nel suo ruolo di garante massimo della Costituzione, ad una ferma opposizione al progetto, ma che invece lo hanno visto come uno dei principali sostenitori, forse nella speranza di vederla approvata con la sua firma in calce. Troppo tardi.
Niente a che vedere con l’altro Presidente della Repubblica venuto dalle file della sinistra, Sandro Pertini. L’alterigia ingessata di Napolitano mai ha avuto similitudini con l’informalità e la passione di Pertini e né sotto il profilo ideale, né sotto quello politico, tantomeno nella comunione sentimentale con il suo popolo, Napolitano ha mai ricordato in minima parte la meravigliosa eredità del partigiano socialista che diede lustro al Colle e che ricevette la stima e l’affetto sincero di quasi tutti gli italiani.
Proprio questo scarto assoluto tra due personaggi così diversi, agli antipodi quasi, illustra meglio di qualunque analisi la profonda mutazione genetica che ha caratterizzato la progressiva involuzione del centrosinistra italiano.
Lontanissimo dalla connessione sentimentale con le ragioni dei deboli, Napolitano è stato invece, per eccellenza, il Presidente garante soprattutto delle elites politiche e finanziarie che governano l’Europa e la stessa Italia. Agitando lo spauracchio dell’antipolitica e il rispetto di impegni sul pareggio di Bilancio che hanno violato la sovranità nazionale oltre che la logica delle compatibilità, ha sapientemente governato la crisi di credibilità della casta agendo come il più ligio dei funzionari della Commissione Europea.
Piuttosto indifferente all’indignazione popolare di fronte ad una crisi economica e morale permessa e favorita da una classe dirigente incapace e corrotta, Napolitano è stato lo strenuo difensore, oltre ogni decenza, del quadro politico che lui per primo ha voluto determinare. Andando oltre i limiti del suo mandato, ha sostanzialmente impedito la soluzione elettorale della crisi politica, imponendo di volta in volta alla guida del governo i personaggi che lui riteneva funzionali al suo progetto politico, che si è sempre identificato con gli interessi della UE.
Decise infatti di forzare per l’uscita di Berlusconi da Palazzo Chigi quando il cavaliere andò allo scontro con Bruxelles, non prima. Ma il disegno europeo non prevedeva scossoni violenti del quadro politico e di governo e quindi, a seguito della crisi del governo Berlusconi, quando i sondaggi non lasciavano margini d’incertezza circa la netta vittoria del PD nelle urne, diede il suo primo colpo di mano e nominò Mario Monti.Figura gradita a Bruxelles, stretto osservante del rigore di Bilancio e dell’ipoteca europea sulla sempre minore sovranità dei singoli Stati, l’ex rettore della Bocconi era soprattutto l’uomo che serviva per impedire un governo di centrosinistra con il PD all’epoca ancora legato ad una cultura progressista.
La nomina di Monti fu un sigillo di garanzia offerto all’eurocrazia ed uno stop chiaro a un disegno che poteva anche solo parzialmente mettere in discussione i diktat della Commissione e limitare il comando di Bruxelles sull’Italia.
Identica linea venne seguita dopo le elezioni che videro il fenomeno Monti fare la fine di quelli di Mariotto Segni prima e di Gianfranco Fini poi. In particolare rifiutò di assegnare a Bersani la formazione del governo dopo le elezioni.
Sebbene l’ex segretario del PD non avesse sulla carta la maggioranza certa al Senato, l’aveva alla Camera e il PD era il partito con più parlamentari nelle due camere, ma Napolitano rifiutò il mandato, impedendo così che il PD, ancorato a SEL e con la possibilità di dialogare con una parte del M5S, potesse formare un governo sgradito a Bruxelles ed ai poteri forti italiani.
Si apre ora la partita per la sua successione, con la manina di Renzi ancora dolente per via della contrattura intervenuta a guastargli l’operazione di rimessa in circolazione del suo socio nel patto del Nazareno. Lo scenario non è semplice e il governo si gioca buona parte della sua stessa sopravvivenza. Ovvio che Renzi veda come un incubo le candidature di uomini affezionati alla Costituzione, dal momento che il suo disegno di riforma costituzionale per il quale è stato spedito a Palazzo Chigi ha bisogno per forza della complicità dell’inquilino del Colle.Si possono quindi escludere le figure più prestigiose di costituzionalisti, poco propensi a farsi dettare la materia dalla Boschi, così come di coloro che sono dotati di un impianto politico solido, poco inclini dunque a fare i passacarte dell’ambizioso premier.
Cosa aspettarsi? Non sembrano esserci le condizioni politico-parlamentari per un presidente di garanzia per gli italiani, invece che per i soci del patto osceno del Nazareno. Ma un nome scelto in comune con il centrodestra non sarà mai votato da SEL e Cinque Stelle, oltre che dalla minoranza del PD.
Renzi sarà così costretto a puntare su una figura del corpaccione PD che eviti a tutti i costi il voto contrario della sua minoranza e che possa andar bene anche al centro destra, sperando che, votazione dopo votazione, quel nome regga ai peones in cerca di collocazioni. Vista ormai la marcia del PD verso il partito della nazione non dovrebbe essere difficilissimo. Difficile semmai, quale che sia il nome che PD e altri sceglieranno, che il risultato possa peggiorare il quadro fin qui avuto con Napolitano.
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di Fabrizio Casari
Due milioni di persone, forse più, hanno partecipato alla manifestazione di Parigi, la più grande della storia della Francia. Prima ancora che il ripudio del terrorismo e oltre che solidale con la sorte dei giornalisti uccisi e delle altre vittime, la piazza ha voluto testimoniare con forza una identità culturale e il bisogno di sentirsi uniti contro una paura fino ad ora sconosciuta. Semmai stonavano, alla testa dell manifestazione, politicanti degni di comparire in scenari di ben altra natura, vista la partecipazione dei loro rispettivi paesi alle operazioni belliche che, ogni giorno, flagellano l’intero Medio Oriente.
Sentire invocare la pace a esponenti di governo che sono in guerra permanente della prima invasione dell’Iraq, sembra per certi versi più comico di alcune delle vignette di Charlie Hebdo.
Sulla ferocia assassina dei fratelli Kouachi, adepti dell’Isis (pur se al-Queda ha provato ad addossarseli) non ci sono dubbi. In molti ritengono che quel giornale fosse dotato di cattivo gusto a vendere e che le sue vignette, in realtà, fossero una manifestazione ricorrente di volgarità gratuita e rappresentasse una costante offesa all’Islam per la quale proteste e minacce si erano accavallate. Ovvio, persino ridondante sottolinearlo, che nessuna presunta colpa del giornale può comunque prevedere una simile vendetta; nessun ipotetico affronto può vedere la violazione del corpo e lo scorrere del sangue come reazione. La colpa di risultare fuori luogo non può prevedere la pena di morte. Qui deve alzarsi un muro invalicabile. Se così non fosse, tutto sarebbe spiegabile e, di per sé, giustificabile. Ma così non è, non può e non deve essere.
Ma è un altro l’aspetto su cui soffermarsi ora. Legittimo chiedersi: è vero che la satira non può avere censure? E’ vero che la libertà di dire, disegnare o scrivere qualunque cosa su chiunque e su qualunque argomento non possa essere mai messa in discussione? Forse non è così; anzi, certamente non è così. La libertà d’espressione, come tutte le manifestazioni di libertà, esiste in quanto capace di autoregolamentarsi per evitare di tracimare nell’insulto gratuito, nella più totale mancanza di rispetto e di buon gusto; deve finire dove comincia la libertà e la sensibilità di chi di quell’espressione di “libertà” può ritenersi vittima.
La libertà da rispettare non è anche quella di chi non vuole sentir offesa la propria religione, il proprio credo spirituale? E quella libertà come la si garantisce? Non si può certo pensare d’imporre per legge il buon gusto e di sanzionarne penalmente la sua assenza, ma certo non si può nemmeno ritenere che le libertà degli altri (da noi) possano essere ignorate mentre le nostre vadano difese.
Ci si chiede, insomma, se Charlie Hebdo avesse o no il diritto inviolabile di poter ironizzare (pesantemente) anche su una religione come l’Islam, che tra i suoi precetti annovera il divieto di citare Allah e Maometto (Dio e il suo Profeta) per ironizzare. Si può ritenere ciò eccessivo, sbagliato, ingiusto e via dicendo; ma il fatto è che così stanno le cose e che non è possibile disegnare il mondo a piacere nostro.
Fanatici musulmani? Anche altre religioni, pur meno rigide dell’Islam (o, forse, più che dell’Islam delle sue interpretazioni e letture radicali) non consentono di nominare Dio se non per la preghiera, e il reato di vilipendio alla religione c’è nella nostra “liberissima” Italia e non solo nei paesi islamici. E provate a ironizzare sulla religione nel Giappone scintoista o nell’India induista e vedete a cosa andate incontro.Il terrorismo è ributtante e l'estremismo islamico rappresenta il ritorno dell’essere umano al Medioevo, anzi all’età della pietra. L’adesione alle leggi coraniche comporta la generale riduzione delle libertà individuali e collettive, dunque nessuno può pensare di un riconoscimento verso quel modello. Ma né l’Islam, né Maometto c’entrano niente con i terroristi autori della carneficina di Parigi (con cui invece c’entra - e non poco - l’Isis, che con l’aiuto anche della Francia, combatte in Siria contro Assad, presidente laico). Non a caso l'Islam vero, anche quello più radicale (dall'Iran a Hezbollah, ad Hamas) non ha esitato a condannare la barbarie dei fratelli Kouachi.
Alcune delle vignette pubblicate da Charlie Hebdo con l’ironia avevano poco a che fare: esprimevano invece un malcelato divertimento nella derisione dei musulmani, accarezzando il venticello razzista, tipicamente francese, che vede “les arabes” come un corpo estraneo per quanto integrato; buono per fare baguette, ma ottimo solo se vive nelle banlieue. Quando infatti si disegna una vignetta il cui testo è “l’Islam è merda”, dove sta l’ironia? Quando si disegna Maometto crivellato di colpi dov’è il divertimento? Non c’è nessuna ironia, solo razzismo e islamofobia. Alla vista di quelle vignette viene da ridere solo a un imbecille o a un lepenista, praticamente la stessa cosa.
C’è poi un punto non secondario: davvero si ritiene legittimo, per le nostre ansie di ricchezza e di potere, bombardarli, ucciderne a milioni, sbatterli nei campi profughi, condannarli alla deriva nelle carrette dei mari, rinchiuderli in ghetti o prigioni e poi, per buona misura, insultarli e dileggiarli, senza che trovino mai la voglia di reagire? E davvero è possibile ammazzarli come arabi e chiedergli però di reagire come britannici?
Deve esserci un limite a eurocentrismo ed occidentalismo. Mentre s’ironizza e si disprezza l’Islam, ogni salvaguardia delle norme, scritte e non, che attengono ad usi e costumi del cattolicesimo, viene vista con sguardo benevolo e comprensivo. Ad esempio, è parte del senso comune ritenere inappropriato un abbigliamento sexy in una chiesa, ritenuto giustamente non consono alla sacralità del luogo che merita rispetto anche da parte di chi non crede. A nessuno verrebbe in mente di difendere in nome della libertà una donna in minigonna e scollata dentro San Pietro ove essa fosse oggetto di rimostranze da parte dei fedeli o dei sacerdoti. Allo stesso modo, si ritiene imperdonabile una bestemmia in radio o in tv e la mannaia della censura è scattata in automatico ogni qual volta ciò si è verificato.
Si riconosce, insomma, che c’è un limite di buon gusto e di rispetto che non può essere fatto regolarmente deragliare sui binari della presunta libertà assoluta dell’espressione, corporea o verbale che essa sia. Si ritiene, in sostanza, che la “libertà” di dire o fare ciò che vogliamo, vada ricondotta comunque nell’alveo del rispetto per chi ci circonda. La libertà senza norme e senza rispetto è arroganza pura.
C’è poi il capitolo, questo sì comico, della nuova leva di difensori della satira che, qui da noi, come sempre diventa una boutade all’italiana con dosi massicce di melassa. Destino ciclico il nostro. Non appena un tema rischia di diventare serio, arriva il carrozzone dei twittaroli alla Gasparri o Santanchè e in automatico tutto diventa farsa all’italiana. Quando non bastano arriva Battista.Benché gli indignati d’Occidente si dichiarino fedeli difensori della libertà d’espressione, non c’è da dargli credito, perché quando la satira tocca la religione cattolica, gli stessi difensori di oggi della libertà d’espressione, insorgono contro la satira. E non solo: tra gli inquisitori di comici e giornalisti italiani figurano molti degli arnesi della destra oscurantista e beghina italiana che oggi si trasformano in emuli di Voltaire.
Sono quelli che s’indignarono per una battuta di D’Alema all’indirizzo di Brunetta o per le vignette di Vauro all’indirizzo del cavaliere, ma che di colpo, se si tratta d’insultare i musulmani, si scoprono libertari.
E a chi dovesse credere a questa nuova ventata di liberalità a piene mani verso il diritto all’espressione, sappia che questo Parlamento di corrotti ed incapaci vota norme liberticide sulla libertà di espressione per i giornalisti: dunque con quale faccia tosta si presenta ai microfoni per difendere la libertà d’espressione quando si tratta di satira? Perché se la satira ha libertà totale non altrettanta libertà si riconosce - ad esempio - alla stampa? Perché non la possono avere le idee, le parole e i gesti, per i quali invece sono previste sanzioni?
Politicanti e ipocriti. Sono ignobili cialtroni che strumentalizzano la tragicità di quanto accaduto, dal momento che molti di essi hanno plaudito alle epurazioni berlusconiane alla Rai, alle minacce contro le trasmissioni d’inchiesta e, incuranti di mettere in discussione la propria casta, insorgono contro le professioni che non siano la loro. Un destino malefico ce li impone dal 1994. Fortunati i popoli che non hanno bisogno di eroi, diceva Bertold Brecht: ma qui non c’è da stare allegri: di fortuna e di eroi non se ne vedono tracce.
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di Antonio Rei
A Matteo Renzi serve che il prossimo Capo dello Stato non sia un uomo di sinistra. O meglio, che magari dica di esserlo, ma non lo sia davvero. Un po' come Giorgio Napolitano, l'ex Pci che ha fatto di tutto per smantellare il sistema di tutele a favore dei lavoratori italiani. La necessità numero uno del Premier è proprio questa: il prossimo inquilino del Colle dovrà continuare a supportare il processo riformatore in corso, favorendo la precarizzazione definitiva del mercato del lavoro e la metamorfosi centripeta del sistema istituzionale, che per il combinato composto di Italicum e castrazione del Senato rafforzerà ulteriormente l'Esecutivo, riducendo il Parlamento a poco più di una camera di ratifica.
Chiunque abbia letto la Costituzione potrebbe obiettare che un ruolo simile non spetta al Presidente della Repubblica, il quale deve rappresentare una figura di garanzia super partes. Dopo l'era Napolitano, però, questo principio appare superato e assai difficile da ripristinare. Nel corso del suo ultrasettennato, l'attuale numero uno del Quirinale ha sempre agito come un politico e mai come un garante, svolgendo il ruolo dell'arbitro che parteggia per una delle squadre in campo.
E' vero, ha potuto farlo perché si è ritrovato a gestire Parlamenti e governi mai così deboli (si potrebbe obiettare che del resto nominati erano da lui, che ha pervicacemente ignorato il ricorso alle urne e ha imposto i suoi uomini a Palazzo Chigi). Ad ogni modo il punto è che ormai ha sdoganato la forzatura delle funzioni che spettano alla prima carica dello Stato, spianando la strada alla creatività dei suoi successori.
Per queste ragioni Renzi non può permettersi di puntare su presunte figure di garanzia. Sa benissimo che anche il nuovo Presidente - poco importa se di provenienza tecnico-accademica - sarà presto o tardi sedotto dalle sirene della politica e reciterà una parte decisiva nel determinare gli assetti delle maggioranze e gli indirizzi dei governi.
Ma quali sono le alternative verosimili? Poche, in effetti. Ragionare sui singoli nomi è un esercizio tanto diffuso quanto inutile, visto che fino alle votazioni vere e proprie gli attori in campo pronunciano nomi solo per bruciarli. Ha più senso quindi concentrarsi sul profilo generale del nuovo Presidente.
E' evidente che un costituzionalista o un uomo autenticamente di sinistra ostacolerebbero il progetto Renzi, segnando l'inizio della fine del Premier. Per eleggere una figura simile, tuttavia, dovrebbero mettersi d'accordo perlomeno la minoranza Pd e il Movimento 5 Stelle, due accolite che per vocazione si ostinano a non voler dare alcun senso alla propria presenza in Parlamento.
Ben più realistico è che alla fine l'accordo decisivo venga siglato fra il Pd renziano e Forza Italia, tanto per suggellare con l'ennesima nota grottesca questi tempi strani in cui mezza opposizione sostiene il governo e mezza maggioranza lo contrasta.
In ogni caso, nella partita per il Quirinale, il vero contrappeso di cui tenere conto non è interno alla nostra politica. Dopo le elezioni greche di fine gennaio, il voto per il nuovo Presidente italiano è la seconda voce nella lista delle preoccupazioni di Bruxelles.L'idillio che ha legato i tecnocrati comunitari a Napolitano - quasi un ambasciatore della Commissione Ue in Italia - è difficilmente ripetibile. Eppure è illusorio pensare che le esigenze (e le pressioni) europee non entreranno in gioco quando le Camere dovranno votare in seduta congiunta.
In questo contesto fanno quasi tenerezza Germania e Gran Bretagna, che sostengono la candidatura al Colle di Mario Draghi (il quale si è prontamente smarcato) con l'unica e fin troppo smaccata intenzione di allontanarlo dalla Bce. La City e la Bundesbank dovranno mettersi l'anima in pace, perché questo loro sogno è destinato a non realizzarsi.
Se una manovra europea ci sarà, quindi, non potrà che essere molto più sotterranea. In particolare, l'interesse di Bruxelles nei confronti del nostro nuovo Presidente è duplice e riflette perfettamente il rapporto di amore e odio che l'eurocrazia ha con Renzi.
In ottica comunitaria, il nuovo Capo dello Stato dovrebbe appoggiare (anzi, accelerare) le riforme di cui sopra, che all'Ue fanno venire l'acquolina in bocca, ma al contempo dovrebbe lavorare per ridurre la smania di protagonismo del nostro Premier, che ultimamente chiacchiera un po' troppo di flessibilità e di limiti del Patto da rivedere. Si tratta, beninteso, di semplici parole destinate al nulla e pronunciate da Renzi solo per accreditare se stesso. Ma i maestri esigono che, mentre fanno i compiti, gli alunni stiano zitti.