di Giovanni Gnazzi

La macelleria cilena operata dalle cosiddette forze dell’ordine nei giorni del G8 di Genova, è stata condannata dalla Corte Europea dei Diritti Umani. Il comportamento dei poliziotti, penetrati all’improvviso dentro la Diaz, dove hanno pestato a sangue ogni corpo, violato ogni diritto e schiacciato ogni decenza, è stato riconosciuto dalla Corte europea come “tortura”. Il ricorso alla Corte europea era stato inoltrato da Arnaldo Cestaro, selvaggiamente pestato in quella notte da macellai.

I giudici gli hanno dato ragione in toto, decidendo all'unanimità che lo stato italiano ha violato l'articolo 3 della convenzione sui diritti dell'uomo dove recita: "Nessuno può essere sottoposto a tortura né a pene o trattamenti inumani o degradanti".

Impossibile cancellare la memoria di quanto avvenuto. Si era appena insediato il governo Berlusconi e il segnale che la destra volle inviare al conflitto sociale e politico del paese fu chiaro: niente sarà permesso, nulla sarà lasciato nelle mani dell’ordine pubblico inteso come garanzia pubblica della convivenza civile.

Si scelse il massacro volutamente, non venne considerata sufficiente la morte di Carlo Giuliani. Diverse testimonianze, dirette e indirette, identificarono in Gianfranco Fini, con tanto di Ascierto di scorta, colui che dirigeva politicamente l’operato della polizia agli ordini di Di Gennaro.

Quella di Genova fu mattanza. Polizia e Carabinieri s’impegnarono particolarmente contro i manifestanti pacifici mentre i cosiddetti “black-block” (alcuni ripresi insieme alle forze dell'ordine) erano abbastanza liberi di attaccare con azioni di guerriglia urbana tutto ciò che niente aveva a che fare con la riunione del G8 ma molto con la necessità di alzare il livello degli incidenti.

L’ingenuità di un movimento impegnato a rivendicare il diritto a manifestare senza porsi il problema di organizzare la possibilità di farlo, dotandosi di una struttura di controllo del corteo, permise agli uomini di nero vestiti di stipulare una sostanziale alleanza con gli altri uniformati nel radere al suolo la protesta pacifica.

A farne le spese furono le centinaia di militanti pacifici pestati a sangue, in un saldo di feriti mai visto prima nella storia delle manifestazioni politiche in Italia. Vi furono vicende di contorno che contribuirono a rendere quelle giornate una delle pagine più luride della storia nazionale.

Non ultimo l’atteggiamento collaborazionista con i macellai da parte di alcuni medici del pronto soccorso, che invece di tutelare i feriti sia sotto il profilo medico sia sotto quello della privacy, come l’etica professionale impone, scelsero in alcuni casi di consegnare agli agenti assatanati corpi e dati di chi dovevano curare.

Dopo tanti anni di denunce, di film e libri, di dibattiti e di tentativi andati a male d’istituire una Commissione parlamentare di vigilanza che facesse piena luce sulle responsabilità dei vertici di polizia a Genova, dopo la sentenza della Cassazione che individuò solo alcuni tra i responsabili della mattanza, giunge ora la condanna ferma della Corte Europea dei Diritti dell’uomo.

L’aspetto più significativo della sentenza europea emessa è la sanzione all’Italia per l’assenza del reato di tortura dal proprio codice penale. L’Italia, unico paese del consesso internazionale evoluto a non prevedere il reato di tortura nel proprio ordinamento, è un Paese nel quale la tortura è sempre esistita.

Nelle carceri, negli ospedali psichiatrici, nelle caserme, nel corso dei fermi per strada e anche nelle piazze, le aggressioni contro inermi, a volte mortali, sono sempre esistite e, al limite, sanzionate blandamente. Aldrovandi o Cucchi sono solo alcuni degli esempi più tristemente noti, come altrettanto tristi e noti gli applausi del SAP agli agenti suoi affiliati che uccisero Aldrovandi.

Anche grazie all’assenza del reato di tortura, benché il massacro della Diaz fosse avvenuto in assoluta inerzia da parte degli ospiti notturni del Genova Social Forum, i massacratori hanno potuto ottenere sanzioni solo relativamente al reato di lesioni.

“Questo risultato - scrivono i giudici europei - non è imputabile agli indugi o alla negligenza della magistratura, ma alla legislazione penale italiana che non permette di sanzionare gli atti di tortura e di prevenirne altri". Infatti, ove il reato di tortura fosse stato presente nell’ordinamento, diverse sarebbero state le pene inflitte dalla sentenza della Cassazione.

La presidente Boldrini ha appena twittato l’annuncio dell’arrivo in aula per la prossima settimana del disegno di legge sulla tortura. Ma benché nello stesso Disegno di legge sembra che il reato di tortura venga identificato in termini generici, alcuni dei poteri forti si oppongono. Inevitabili saranno le pressioni fortissime dei corpi militari e della Polizia per evitare che il Disegno di legge vada in porto. Perché visto che non hanno risorse e mezzi, vogliono almeno l’impunità assoluta o quasi.

Nemmeno l’identificazione degli agenti impegnati in servizio d’ordine pubblico è ancora possibile, nonostante i ripetuti abusi ed eccessi di violenza puntualmente documentati da immagini e video. Eppure è stato dimostrato come iniettare un livello decente di responsabilità in chi opera in nome e per conto dello Stato non può essere garantito se non a fronte del rischio che chi violi le norme ne debba poi rispondere, in uniforme o no.

Davanti ai giudici di Strasburgo pendono ora altri due ricorsi presentati da 31 persone per i pestaggi e le umiliazioni ai quali furono sottoposti nella caserma di Bolzaneto e si prevede che le relative sentenze non tarderanno ad arrivare.

Come disse Roberto Settembre, il giudice estensore della sentenza della Corte d’Appello che condannò gli agenti per il G8, “con l’impunità la democrazia è a rischio”. Purtroppo il cammino per la democrazia piena è ancora lungo e andrebbe percorso come fosse un autostrada. Sentenze come quelle di ieri possono aiutare ad alzare la sbarra al casello.

di Fabrizio Casari

Di Massimo D’Alema si può pensare tutto il bene o tutto il male possibile. Lo si può ritenere l’unico segretario della sinistra che ha vinto o il traghettatore verso il nulla politico del partito che ha diretto; l’ultimo leader del centrosinistra o il primo di essi ad aver inseguito i sogni di ricchezza personale. Ma quale che sia il giudizio sull’uomo (carattere pessimo e spocchia infinita) e sul politico (gestore ed apripista del disarmo ideologico dell’attuale PD, pur se con molto minori responsabilità di Veltroni) le duemila bottiglie di vino che la Coop CPL Concordia ha comprato dall’azienda vinicola di Massimo D’Alema non possono certo figurare come una tangente.

Intanto perché se 87.000 euro possono essere una misura scarsa anche per quanto attiene alla concussione tra soggetti privati, diventano una somma davvero trascurabile nel mercato della corruttela che coinvolge politici e imprenditori, mercato del quale, comunque, non risulta D'Alema faccia parte.

In più, a rafforzare il dubbio circa la dinamica del dare/avere in un meccanismo corruttivo, è davvero stravagante immaginare che una mazzetta venga fatturata. E sostanzialmente faziosa appare la lettura di una presunta fatturazione ad hoc che coprirebbe la donazione, dal momento che risultano regolarmente consegnate le duemila bottiglie di vino prodotte dell’ex leader del PDS e DS.

Peraltro, la quotazione di D’Alema nel sistema relazionale che conta in Italia è decisamente alta e non sono certo 87.000 euro la somma con la quale sarebbe possibile ingraziarsi i favori del fondatore di Italiani-Europei, ammesso che ciò fosse possibile. Con 87000 euro ci si può al massimo ingraziarsi Lupi e il di lui figlio, non l’ex premier del centrosinistra col trattino che fu.

E’ ovvio che chiunque può pensare che l'aquisto sia stato indirettamente un sostegno finanziario alla fondazione che D'Alema dirige. Che per il comune di Ischia, per quanto la cittadina abbia un suo rilievo turistico internazionale, forse 2000 bottiglie possono sembrare eccessive per le esigenze di pubbliche relazioni (va però ricordato che sono state acquistate in uno spazio temporale di due anni).

C'è invece da chiedersi quali siano i criteri utilizzati dagli uffici delle Procure quando fanno filtrare ai giornalisti stralci di intercettazioni che niente hanno a che vedere con le inchieste. Perchè è perfettamente legittimo rendere noto alla cittadinanza, attraverso i media, la sostanza delle accuse che si lanciano, ma quando persone e strutture vengono chiamate in causa senza che nulla li leghi ai fatti oggetto delle indagini, allora il dubbio sull'agire di certa magistratura resta, anzi si rafforza. Ci si può legittimamente chiedere se si costruiscano le proprie carriere togate calpestando quelle politiche.

Risulta ad ogni modo curiosa la coincidenza temporale tra l’esposizione di D’Alema contro Renzi, nell’ambito della discussione interna al PD, e la pubblicazione di stralci delle intercettazioni che lo vorrebbero coinvolto nel sistema di relazioni messo in piedi dalla coop.

Che gli ex dirigenti del PDS e dei DS mantengano buone relazioni con alcune delle aziende affiliate alla Lega delle Cooperative non è certo un mistero; semmai tutto diventa drammatico quando i nuovi esponenti del nuovo PD decidono d’imbarcarsi a modo loro nei rapporti con le cooperative (vedi Mafia capitale, ad esempio). Che poi oggi il PD non sia più nemmeno l'ombra di ciò che avrebbe dovuto rappresentare, questo è altro tema.

Del resto a certificare la definitiva mutazione genetica in partito di destra di quello che fu il partito della sinistra basta osservare come al ridisegno in chiave autoritaria dell'ingegneria istituzionale, si somma l'abolizione sostanziale dello Statuto dei lavoratori, avviando così una riscrittura del patto sociale e costituzionale in funzione delle esigenze delle imprese. Un progetto di governo che, fosse stato nell'agenda del centrodestra, avrebbe fatto gridare al golpe, ma che ora l'antiberlusconismo da salotto lo definisce "rinnovamento". C'è un vecchio detto che recita "dimmi con chi vai e ti dirò chi sei".

E con chi vanno i nuovi rottamatori? Il segretario del partito e presidente del consiglio ha tra i suoi sponsor Marchionne, Serra e Guerra, ha in Squinzi il suo miglior alleato, governa con i voti di Berlusconi e contro i sindacati. Lo stesso D’Alema, che pure da Renzi lo separa un abisso, si fa comunque finanziare da Fiat, Cir e Pirelli la sua fondazione Italiani-Europei.

Ma non è storia di oggi. Quello di un progressismo senza idee e senza popolo è un cammino dai passi ormai lunghi e decisi. Ad ubriacarsi di sogni imprenditoriali, del mito del neoliberismo e dei salotti della finanza, quello che fu un partito della sinistra ha iniziato ben prima dell’arrivo delle duemila bottiglie del comune di Ischia. A bocca asciutta è rimasto il Paese.

di Antonio Rei

L'importante è decidere, non importa cosa. L'importante è cambiare, non importa come. Ogni novità è benefica per definizione e ogni novità porta la firma di Matteo Renzi. Il decisionismo che guida il Governo è mosso dall'ambizione di un uomo solo, che lascia nel cassetto ciò che non gli serve o gli è addirittura d'ostacolo - come la legge anticorruzione o quella per ri-penalizzare il falso in bilancio - mentre con una raffica di provvedimenti pone se stesso al centro del nuovo assetto di ogni potere.

Partiamo dalle riforme economiche, che hanno come stella polare i desideri di Confindustria e dell'alta finanza, soddisfatti rispettivamente con la riforma del lavoro e con quella delle banche.

La prima facilita i licenziamenti senza giusta causa (puniti al massimo con un indennizzo, non più con il reintegro) e fa risparmiare alle imprese una montagna di soldi con la decontribuzione sui nuovi contratti a tempo indeterminato, misura che peserà sulla fiscalità generale (poiché non prevede alcun contrappeso sul fronte delle entrate) e non offrirà un reale cambiamento di prospettiva ai lavoratori, pienamente licenziabili per tre anni. 

La seconda riforma prevede invece la metamorfosi delle banche popolari più grandi da cooperative in società per azioni, il che significa rinnegare il concetto stesso di cooperazione e rendere ogni istituto potenziale oggetto di scalata da parte di qualsiasi investitore.

Non solo: a questa rivoluzione pro-finanziaria potrebbe presto aggiungersi la creazione di una bad bank pubblica, che consentirà alle banche private di scaricare il peso dei crediti in sofferenza sulle spalle dello Stato (sono d'accordo sia Visco sia Draghi), socializzando ancora una volta le perdite, ma senza alcuna garanzia che il capitale così liberato nei bilanci sarà utilizzato per aumentare il credito.

Per quanto riguarda invece le riforme istituzionali, è innegabile che rispondano a un disegno accentratore. Non si può definire altrimenti il combinato composto di svuotamento del Senato e Italicum, visto che da una parte si trasforma Palazzo Madama in un guscio vuoto, orfano del potere legislativo, mentre dall'altra s'impone ex lege un bipolarismo mai espresso dagli elettori italiani, affidando al vincitore una maggioranza comoda nell'unica Camera rimasta a legiferare. Con tanti saluti al principio costituzionale della rappresentanza elettorale.

Sollevare obiezioni contro una qualsiasi di queste riforme è pienamente legittimo e fondato, ma la retorica renziana ha un'arma infallibile per scaricare la pistola in mano ai contestatori: chi si oppone alle riforme - recita la vulgata - è un conservatore che non vuole il cambiamento, un fan della vecchia politica che rema contro il rilancio del Paese. Entrare nel merito è proibito. Ogni riforma è buona semplicemente perché marca uno spostamento rispetto al passato, a prescindere dalla direzione che imbocca.

A fornire l'esempio migliore di questo perverso trucco retorico è probabilmente la riforma del sistema scolastico. L'hanno battezzata "La buona scuola", autopromuovendosi fin dalla fase di gestazione. Prima che gli italiani potessero leggerla, prima ancora che il Governo la scrivesse, la riforma era già "buona". Poco importa che quel Ddl contenga la definitiva aziendalizzazione della scuola italiana. Prevede delle novità, quindi va bene, e i lamentosi - come al solito - stanno dalla parte di chi ha distrutto il Paese.

La stessa logica viene applicata anche al disegno di legge sulla Rai: "Se il Parlamento tergiversa, allora si terranno la Gasparri - ha tuonato la settimana scorsa Renzi -. Noi non faremo il decreto". Nessuno ha fatto notare al Premier che un decreto per riformare la tv pubblica sarebbe stato un'assurda violenza alla Costituzione, perché tutti sanno che ormai la decretazione non serve più in casi di "necessità e urgenza" (come prevede la Carta), ma abbinata alla fiducia è lo strumento con cui il Governo esercita il potere legislativo, esautorando il Parlamento.

Semmai, a questo punto bisogna chiedersi a cosa servano i disegni di legge. La risposta non è complicata: Renzi li usa quando ci sono delle scadenze importanti da rispettare (le assunzioni dei precari della scuola, il rinnovo del Cda Rai), sperando che il lavoro di commissioni e Aule vada per le lunghe e dimostri l'inefficienza dell'iter parlamentare.

Così il cerchio si chiude: per ripartire serve il cambiamento, per cambiare servono le riforme, per le riforme servono i decreti. E, vista la personalità politica dei ministri, indovinate chi serve per i decreti.

di Carlo Musilli

Il declino dei sindacati è la causa principale dell'aumento della concentrazione della ricchezza negli ultimi decenni. A dirlo non è un manipolo di pensatori alternativi e no-global, ma il Fondo monetario internazionale, il principale alfiere planetario del neoliberismo e della globalizzazione.

Nei Paesi avanzati, tra il 1980 e il 2010, la quota del reddito complessivo in mano al 10% della popolazione più ricca è aumentata del 5%. Secondo uno studio (in via di pubblicazione) firmato da due economiste del Fmi, Florence Jaumotte e Carolina Osorio Buitron, il fenomeno si spiega per metà con la crisi dei sindacati, che hanno visto crollare il numero d'iscritti del 50% nel corso del trentennio, perdendo così buona parte della loro capacità di negoziare sui salari.

Nelle anticipazioni della ricerca pubblicate sulla rivista del Fondo Finance & Development si legge che "l'indebolimento dei sindacati riduce il potere contrattuale dei lavoratori rispetto a quello possessori di capitale, aumentando la remunerazione del capitale rispetto a quella del lavoro", e inducendo le imprese a prendere decisioni che avvantaggiano i dirigenti, ad esempio in materia di stipendi e bonus ai top manager.

Lo studio, intitolato "Power from the people" sulla falsariga della canzone di John Lennon "Power to the people", prende in considerazione diversi fattori - dalla tecnologia alla globalizzazione, passando per la liberalizzazione finanziaria e fiscale - ma conferma che "il declino della sindacalizzazione è fortemente associato all'aumento della quota di reddito" nelle mani dei ricchi. Com'è emerso anche da uno studio di Joseph Stiglitz, premio Nobel per l'economia, questa iniquità può indebolire la crescita, rendendola meno sostenibile e addirittura nociva per la società, "perché consente ai più ricchi di manipolare in proprio favore il sistema economico e politico".

Jaumotte e Osorio Buitron sostengono che la "lotta per la redistribuzione del reddito" debba passare per la restaurazione del sindacato come "mediatore sociale", ma non spiegano in che modo ciò possa avvenire, sorvolando sul più grave dei problemi interni al sindacato di oggi, ovvero l'incapacità di rappresentare le varie tipologie di lavoro precario prodotte dalle politiche neoliberiste.

La tesi di fondo delle due economiste è che "sindacati più forti" potrebbero "mobilitare i lavoratori a votare per i partiti che promettono di ridistribuire il reddito". Conclusioni che naturalmente sono state accolte con favore dai sindacalisti, compresi quelli italiani: "Penso che questo studio debba far riflettere i tanti sostenitori dell'inutilità della mediazione politica, economica e sociale svolta dai corpi intermedi", ha detto la leader della Cgil, Susanna Camusso. "Il sindacato è fondamentale per la crescita", le ha fatto eco Annamaria Furlan, segretario generale della Cisl. "La rappresentanza dei lavoratori ha sempre avuto la funzione di riequilibrare gli assetti sociali ed economici: una funzione non gradita a molti potentati", ha chiosato il numero uno della Uil, Carmelo Barbagallo.

Esclusi da ogni forma di concertazione nel nostro Paese, i sindacati si ritrovano così a fare il tifo per il proprio carnefice. Sarebbe però assurdo immaginare che lo studio di Jaumotte e Osorio Buitron preluda a un'inversione a U nelle politiche economiche del Fondo. Si tratta piuttosto di una dissociazione estemporanea, uno di quegli sdoppiamenti reversibili alla Stevenson che possono manifestarsi nel cervello del neoliberismo.

Il prefisso "neo" è cruciale, perché non stiamo parlando del liberismo, ma della sua degenerazione. Un processo iniziato negli Usa e nella Gran Bretagna degli anni Ottanta con la deregolamentazione dei mercati finanziari e la scelta di tagliare le tasse ai più ricchi, giustificata dal presupposto che chi ha più risorse ha anche più possibilità di creare lavoro e benessere.

Le principali conseguenze sono state almeno tre (tutte decisive per la crisi del 2008): il gonfiarsi di bolle speculative, la progressiva concentrazione della ricchezza e la parallela crescita dell'indebitamento della classe media, che per continuare a vivere secondo i propri standard ha fatto un ricorso sempre più massiccio al credito, dal momento che, mentre la produttività aumentava, i salari rimanevano al palo e la quota di profitto destinata ai lavoratori si riduceva. 

Nessuna di queste storture è stata corretta dopo la crisi (anzi, ne sono state create di nuove), ma la consapevolezza degli errori commessi causa a volte dei corto circuiti. E così il Fondo monetario si produce saltuariamente in affermazioni di brutale autocritica, quasi sempre oggetto d'immediata rimozione. Come dimenticare i vari mea culpa pronunciati per i disastri dell'austerità in Grecia, cui non è mai seguita alcuna correzione di rotta? Ora invece si parla di sindacati, e c'è da scommettere che gli organi esecutivi del Fondo accoglieranno la nuova ricerca come fa Renzi con le obiezioni dei sindacalisti italiani: "Ce ne faremo una ragione".

di Antonio Rei

Come uno Stato non è un gruppo industriale e un governo non è un Cda, così una scuola non è un'azienda e un preside non è un amministratore delegato. Peccato che la riforma presentata la settimana scorsa dal governo Renzi sia esattamente questo: il principio aziendale definitivamente applicato alla realtà scolastica. Un abominio, ma non un'invenzione originale. Già il governo Berlusconi aveva provato a imprimere una svolta simile (pur senza addolcire la pillola con il piano d'assunzioni), ma il modello originario è la concezione della scuola tipica del mondo anglosassone, dove gli alunni sono trattati come clienti da soddisfare, non come individui cui garantire gli strumenti per sviluppare un'intelligenza critica.

L'aspetto più preoccupante della "Buona Scuola" è il surplus di potere messo nelle mani dei presidi, che potranno scegliere gli insegnanti da un albo territoriale e selezionare ogni anno il 5% del corpo docenti cui assegnare un premio economico.

Non ci vuole molto a capire che si tratta di un clamoroso incentivo agli accordi sottobanco, tanto più assurdo in un Paese che già si distingue per il tasso di corruzione più alto d'Europa. E' così difficile immaginare un preside che chieda mazzette, appoggi politici o addirittura favori sessuali in cambio di un posto di lavoro nella propria scuola? No, ma la Buona Scuola spiana la strada a nefandezze di questo tipo.

Anche a voler ammettere che in Italia non esistano presidi corruttibili, però, il problema non è risolto. Il nuovo potere affidato ai dirigenti scolastici, infatti, limita anche l'autonomia professionale dei docenti. I presidi in molti casi puntano al gradimento delle famiglie per non veder calare il numero d'iscritti, da cui dipende l'ammontare dei fondi destinati al loro istituto.

E' quindi verosimile che molti insegnanti saranno messi di fronte a ricatti di questo tipo: "Ti faccio venire a lavorare nella mia scuola, ma devi mettere voti alti". Oppure: "Se vuoi continuare a lavorare qui ti conviene non bocciare nessuno". I professori subiscono da anni pressioni di questo tipo e la nuova riforma dà loro un ottimo motivo per cedere.  

Il testo contiene anche due aspetti positivi: la possibilità di destinare il 5 per mille alle scuole (già l'anno scorso si poteva dare l'8 per mille ai progetti per l'edilizia scolastica, ma il Governo aveva evitato di pubblicizzare la novità in modo da non compromettere l'afflusso di denaro al Vaticano) e lo "school bonus", ovvero un credito d'imposta del 65% per chi farà donazioni a favore delle scuole per la costruzione di nuovi edifici, per la manutenzione e per la promozione di progetti dedicati all’occupabilità degli studenti.

A controbilanciare queste novità lodevoli c'è però il solito regalo a chi di regali non ha alcun bisogno. Le spese per l'iscrizione del proprio figlio alla scuola paritaria - un eufemismo per "scuola privata", che in Italia vuol dire spesso "scuola cattolica" - si potranno detrarre fino alle medie. Il principio della sussidiarietà orizzontale pubblico-privato è previsto dalla Costituzione e, in teoria, le scuole private alleggeriscono il peso sulle spalle dello Stato, che quindi ha interesse a sostenerle.

Il problema è che questo nuovo bonus non prevede tetti di reddito: anche chi guadagna 10mila euro al mese otterrà uno sconto dallo Stato per la scuola privata dei figli. Un modo veramente curioso d'impiegare le risorse mentre diversi edifici scolastici pubblici cadono a pezzi.

Veniamo ora al capitolo assunzioni. Non si tratta di un'iniziativa spontanea del nostro Governo: lo scorso 26 novembre la Corte europea si è espressa contro il ricorso sistematico ai contratti precari nella scuola pubblica italiana, stabilendo che dopo tre supplenze annuali un docente deve essere assunto.

Per questa ragione, a settembre dell'anno scorso il premier Matteo Renzi aveva annunciato la stabilizzazione di 148mila precari. Negli ultimi mesi però questo numeri si è ridotto di un terzo, e ora la Buona Scuola prevede non più di 100mila assunzioni.

E' significativo, infine, che il Governo abbia scelto proprio questa riforma per utilizzare lo strumento del disegno di legge, rispondendo così alle critiche di chi lo accusa d'eccessiva decretazione. L'aspetto ironico è che - dopo tanti decreti del tutto immotivati, come quello sulle banche popolari - stavolta le "condizioni di necessità ed urgenza" prescritte dalla Costituzione per il ricorso al decreto legge ci sarebbero state.

La sentenza della Corte europea era una motivazione valida, ma Renzi ha preferito affidarsi al Parlamento. Se poi le Camere non riusciranno ad approvare la legge in tempo per far scattare le assunzioni, è probabile che il Premier arriverà su un cavallo bianco a salvare la situazione con un decreto in extremis. E vedremo se in questo ulteriore passaggio si perderanno per strada altre assunzioni.


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