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di Fabrizio Casari
Alla fine l’incontro tra il segretario del PD Renzi e il capo della destra italiana, Berlusconi, ha avuto luogo. In Via del Nazareno, cioè nella sede del PD. Il dato va sottolineato dal momento che è la prima volta che il cavaliere non riceve nelle sue dimore ma si reca nella sede altrui. Nella comunicazione dei simboli, anche questo ha il suo valore, come quello di vedere Berlusconi uscire scortato e Renzi andare via in taxi. Della visita alcuni esponenti del PD si sono detti scandalizzati, altri l’hanno definita un errore; ma se Renzi fosse andato ad Arcore avrebbero detto che si era recato in processione.
Il nodo, questo sì legittimo nel suscitare le proteste interne, è che la condanna passata in giudicato che ha espulso Berlusconi dal Senato e dalla possibilità di candidarsi fa risultare indigesta l’intesa con il Cavaliere. Su questo c’è poco da obiettare, lo spettacolo non è certo entusiasmante. Ma sul piano politico è tutt’altra storia: pensare che Berlusconi sia fuori dal gioco politico causa sentenza della Suprema Corte è una ingenuità da sottolineare in rosso. La destra, nel Parlamento e nel Paese, è forte e ritenere che si possa giungere ad un accordo ampio sulla legge elettorale senza coinvolgere direttamente Berlusconi significa scambiare le lucciole di Alfano con le lanterne della destra italiana.
Sono comunque ipocrisie strumentali, dal momento che non è stata certo la prima volta che il PD ora e il PDS prima si è seduto al tavolo con il Cavaliere di Arcore per parlare di legge elettorale. Che poi lui abbia deciso il menù e che questo sia rimasto indigesto (le crostate non sono leggere) è altra storia. Racconta di quanto i cosiddetti “professionisti della politica” pensavano che la loro esperienza e abilità avrebbero avuto facilmente ragione del parvenue brianzolo. Ma quando mai: i consiglieri che Berlusconi aveva erano più che sufficienti a far andare di traverso il boccone ai cosiddetti “professionisti”. E dunque sarebbe stato bene non cominciarla nemmeno la novella degli incontri bilaterali: non servivano tre gradi di giudizio per stabilire l’indegnità politica e morale di Berlusconi. Non serviva insomma la Cassazione per dire al PD cos’è la destra italiana e che razza di personaggi ospiti a cominciare dal suo capo e padrone. Si può comunque facilmente individuare la strategia di Renzi: non ha nessuna voglia di veder proseguire il cammino del catatonico governo Letta ma, vista la sentenza della Consulta sul Porcellum, sa perfettamente che il ricorso alle urne sarà possibile solo con una nuova legge elettorale. E dunque parla con chi ha i numeri in Parlamento, non con chi non li ha.
In questo senso, mentre giudica la formazione di Alfano una riproposizione di quanto già visto con la vicenda politica di Fini, ritiene che un’intesa con Forza Italia avvicini concretamente la possibilità di varare una nuova legge elettorale entro Aprile, così da riuscire ad andare al voto entro Giugno.
L’intesa raggiunta da Renzi e Berlusconi è però grave nel merito, più che nel metodo. La Consulta ha fatto un esplicito riferimento all’illegittimità del premio di maggioranza, ma l’intesa lo ripropone come niente fosse. Sul piano dell’ingegneria elettorale si continua a perseverare nella sottocultura del bipolarismo, pensando di obbligare l’Italia ad una ulteriore torsione anglosassone che non le appartiene per storia e cultura politica, costringendo al silenzio tramite legge le correnti politiche non allineate con i due partiti di massa. In questo modo si palesano due errori: il primo è quello di ridurre a diritto di tribuna il dissenso e di mutilare la rappresentatività, uno dei due presupposti (insieme alla governabilità) su cui una buona legge elettorale deve fondarsi.
Il secondo è procedurale. Non servono espedienti tecnici: se l’intenzione è quella di ridurre al silenzio le forze politiche minori obbligandole all’accorpamento, nell’ipotesi di accordo la situazione si ripresenta comunque quando si propone il premio di maggioranza per la coalizione vincente. L’eventuale “ricatto”, come viene chiamato dai prepotenti il diritto all’agibilità politica dei piccoli, viene solo spostato in altro ambito, quello di coalizione.
Perchè? E' semplice: dovendo ad ogni costo raggiungere un voto in più dell’avversario, nessun partito rinuncerà mai ad alleanze, per spurie che siano, non potendo permettersi di rinunciare ad anche solo poche migliaia di voti. E questo vale sia in un sistema a turno unico che in uno a due turni, sia in un modello come quello spagnolo che in uno come quello francese. Peraltro, la propaganda sulle virtù dell'uninominale non rende più: il sistema bipolare visto finora non ha ridotto il numero dei partiti e non ha aumentato la governabilità.Se quindi si vuole davvero ridurre il numero dei partiti e, nel contempo, offrire un livello importante di rappresentatività, il modello tedesco - legge proporzionale con sbarramento al 4 per cento - è l’unica strada possibile. E non è nemmeno un caso che la Germania sia il paese europeo con il livello di stabilità politica più elevato. Ma è chiaro che Berlusconi pensa di ricondurre con la forza all’ovile il NCD di Alfano e Fratelli d’Italia di La Russa e Meloni, mentre Renzi sa benissimo che il percorso di SEL di Niki Vendola porta dritto al PD.
C’è poi l’aspetto della riforma del Titolo V della Carta costituzionale, con l’abolizione del bicameralismo perfetto e la nascita di una Camera delle Autonomie. Niente di nuovo, sono le proposte che il PCI faceva a metà degli anni ’70 quando Armando Cossutta dirigeva la Commissione Enti Locali del partito, che prevedevano anche la riduzione del numero dei parlamentari. Quindi non dovrebbero riscontrarsi obiezioni importanti, dal momento che l’urgenza di attualizzare l’articolo 127 della Costituzione è ampiamente condivisa.
E’ indubitabile, comunque, che l’intesa tra Renzi e Berlusconi avrà importanti ripercussioni sulla sorte del governo Letta. La stessa idea di bipolarismo stride con quella della grande coalizione e, vista l’assoluta incapacità dell’Esecutivo di migliorare i conti pubblici attraverso una svolta in politica economica, nessuno soffrirà per questo. I riverberi della crisi politica saranno comunque destinati a modificare il quadro e il peso gli attori che vi si muovono.
Renzi ha infatti deciso di rifare la mappa della politica italiana, togliendo dalle mani di Napolitano la cloche del sistema. La consapevolezza di aver vinto le primarie degli elettori ma di non essere maggioranza assoluta tra gli iscritti, il vanitosissimo segretario sa di avere poco tempo per dimostrare di essere in grado di produrre una scossa nel paese e nel suo stesso partito, senza la quale la novità della sua elezione diverrebbe presto uno dei tanti passaggi politici metabolizzati senza traumi.
L’effetto Mariotto Segni agita i sogni del sindaco di Firenze che ha fretta di ridisegnare il quadro politico. Mettere in ulteriore minoranza i suoi oppositori, relegare Napolitano al ruolo di notaio istituzionale e sfarinare la grande coalizione tra gli ex di tutto sono i passaggi necessari per arrivare alla sua candidatura a Palazzo Chigi. Il punto d’arrivo delle sue ambizioni.
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di Rosa Ana De Santis
In attesa di una legge adeguata che renda cittadini i figli di stranieri nati sul territorio italiano, alcuni lo sono diventati per investitura simbolica ed onoraria. L’anno scorso 106 Comuni hanno accettato la proposta di Unicef e Anci e il numero è destinato ad aumentare. Nel 2012 sono stati 80 mila i nuovi nati e cresciuti sul territorio italiano per i quali la cittadinanza a norma di legge rimane un lontano traguardo. Non solo manca un provvedimento, ma latita la stessa volontà politica di affrontare questa emergenza sociale e culturale che lascia nella terra di nessuno persone che diventeranno grandi e costruiranno una vita da italiani a tutti gli effetti.
L’ultima città, in ordine di tempo, ad aver conferito questo titolo onorario è stato L’Aquila. Un segnale simbolico importante, tanto più d’effetto nei giorni funesti in corso in cui viene allo scoperto l’ennesima prova di odiosa cattiva politica italiana fatta di corruzione e sciacallaggio che si è abbattuta sulle macerie di una città terremotata.
L’Unicef va avanti con questa operazione nella speranza che sortisca un effetto di sensibilizzazione verso le Istituzioni addormentate. E’ evidente che l’Italia, ancora al palo con una legge inadeguata ancora prima che xenofoba - la Bossi-Fini - paga un’incapacità di leggere e affrontare con spirito di programmazione e lungo respiro il tema caldissimo dell’immigrazione.
Se tutto è fermo al soccorso sulle sponde di Lampedusa e alla necessità di avere nuovi fondi europei è evidente che ancora una volta è la politica a soccombere sulla gestione di un’emergenza che è destinata a replicarsi infinite volte identica a se stessa. Questa almeno è la scena che ci restituisce la cronaca.Si può discutere se sia migliore l’opzione tra uno "ius soli" sic et simpliciter o una via di mezzo che preveda un percorso di preparazione e studio per l’acquisizione della cittadinanza.
Peccato che l’ultimo a parlarne nel merito sia stato Gianfranco Fini, un leader ormai latitante dalla scena politica nazionale, beffando la storia e un po’ se stesso per aver titolato con il suo stesso cognome una pagina di giurisprudenza sull’immigrazione che va rivista in toto.
L’auspicio sarebbe che ogni tipo di percorso di integrazione fosse pensato con metodo e competenza. Che non accadesse, come accade, che gli stranieri in rinnovo di permesso di soggiorno fossero obbligati a vedere ore di film documento sulla vita dei condomini e su una specie di filmetto rosa sul vivere italiano. L’integrazione è tema alto e complesso che forse non possono gestire secondini e commissariati.
L’esigenza di un salto di qualità è ormai un imperativo categorico se vogliamo che tra l’Italia che esiste davvero e quella del diritto non ci sia un guado troppo profondo. Un problema di diritti umani che non fa sconti di pena alla stabilità della pacifica vita democratica dentro il cortile di casa nostra. L’Africa e il Sud del mondo, come era Cartagine per i Romani, sono solo a due passi. Loro lo sapevano.
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di Rosa Ana De Santis
Le immagini dei migranti nel lager di Lampedusa, in fila come polli in batteria sotto i getti dell’acqua e dei disinfettanti, diffuse dal Tg2 hanno fatto il giro delle emittenti e del web. Scene che per chi è stato immigrato nei primi anni del secolo o nel dopoguerra non suscitano forse troppo clamore. Odioso che tutto questo accada ancora oggi, quando diritti universali e politiche per l’immigrazione sono, almeno sulla carta, l’evidenza e le sfide culturali dell’agenda politica europea.
Sabato 21 dicembre, nel CIE di Ponte Galeria di Roma, gli ospiti, in segno di protesta, si sono cuciti la bocca. Sul posto sono giunti immediati i soccorsi del personale sanitario. Otto e tutti giovanissimi i protagonisti di questo rito scioccante. Il Sindaco Marino su Facebook ha espresso solidarietà e vicinanza per le condizioni estreme e indegne in cui i migranti sono costretti a vivere in questi centri di espulsione. Prigioni di fatto per persone che vengono equiparate a criminali da una legge decisamente inadeguata a gestire i flussi migratori.
E’ la cronaca ad argomentare questa tesi e non le fazioni politiche. Inadempienza della filiera legge-polizia e gestione dei CIE inadeguata costringono persone che non hanno commesso reati, ma sono rifugiati o profughi, a vivere anche molti mesi in queste condizioni. Non c’è solo il lager di Lampedusa, ma tutta la situazione dei CIE e dei CARA sul territorio nazionale rappresenta un’emergenza e una mina vagante per il paese. Le responsabilità del governo e dei soldi sprecati è allarmante.
La gestione dei CIE e di tutta l’immigrazione clandestina non è solo una spesa per il governo italiano, ma anche un’occasione di guadagno e una vera e propria forma di business. I volumi dei soldi spesi in queste strutture sono infatti da capogiro: milioni di euro all’anno per - in sostanza - non riuscire a gestire adeguatamente i flussi delle persone, esponendosi persino a denunce e moniti europee per i lager in cui gli stranieri sono trattenuti, come accaduto di recente, dopo i fatti di Lampedusa, da parte dell’Alto Commissariato per i rifugiati.
Le procedure di identificazione sono del tutto inadeguate e i soldi pubblici, spesi non si sa bene come, nei CIE non fanno che alimentare una “non soluzione” del problema, cronicizzandola ogni giorno un po’ di più. Nel 2012, per citare un esempio, sono state trattenute 7.700 persone nei CIE e rimpatriate meno della metà. Tutto questo rapportato al totale, certamente sottostimato, di 326mila immigrati senza documenti secondo la Fondazione Ismu.Trattandosi di soldi dei contribuenti sarebbe il caso di capire perché si sia preferito investirli quasi tutti nella costruzione di queste galere per stranieri, piuttosto che nel rafforzamento dei soccorsi in mare o nella “burocrazia” addetta allo studio dei casi degli immigranti in arrivo. Da una parte sta il tentativo, complesso, di gestire il fenomeno inarrestabile dell’immigrazione, dall’altra la ricerca di sopportare questa pagina di storia mettendo in campo palliativi e magari qualche occasione fertile di guadagni.
E’ proprio questa seconda opzione che impedisce ancora oggi alle nostre istituzioni di sedersi in Europa con maggiore credibilità. Forse, altro esempio, perché la Germania ha accusato l’Italia di proporre buone uscite da 500 euro per chi proseguisse il viaggio verso altre mete europee. I documenti giornalistici di denuncia e le proteste dovrebbero mettere il Governo alla ricerca veloce di un rimedio.
Si potrebbe partire da un’ispezione palmo a palmo dei centri, da una rendicontazione dei soldi spesi e si dovrebbe ascoltare l’input delle associazioni impegnate sul campo per ripensare la legge e studiare procedure di identificazione e gestione del fenomeno finora disattese, ci sono innumerevoli documenti a riguardo.
L’inefficacia della procedura sembra non scuotere il Palazzo e l’indifferenza e l’avidità fanno sì che criminali e rifugiati sono trattati allo stesso modo. E’ così che muore e sta morendo il sogno dell’integrazione e anche la sicurezza di un paese.
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di Carlo Musilli
L’Italia ha abolito il finanziamento pubblico ai partiti. Nel 1993, con un referendum. Siccome però repetita iuvant, ci siamo concessi il bis. Stavolta abbiamo cancellato i “rimborsi elettorali”, ovvero la furbata con cui i finanziamenti erano stati reintrodotti già nel 1994, aggirando la volontà degli elettori stessi. Il provvedimento è stato varato venerdì, per decreto, dal Consiglio dei ministri.
In sostituzione dei fondi pubblici, dall’anno prossimo entrerà in funzione un nuovo sistema fondato sul contributo volontario da parte dei privati (con un tetto di 300mila euro), che andrà a regime nel 2017. Alle donazioni è collegato un sistema di detrazioni sul reddito imponibile (al 37% tra i 30 e i 20mila euro e al 26% tra i 20mila e i 70mila euro). I cittadini potranno anche destinare ai partiti il 2×1000 dell’imposta sul reddito (Ire). Il decreto prevede inoltre “l'obbligo della certificazione esterna dei bilanci dei partiti”, così da impedire che si ripetano “gli scandali degli anni scorsi”, ha precisato il premier Enrico Letta.
Domanda: perché mai è stato necessario un decreto? La Costituzione stabilisce che il Governo possa utilizzare questo strumento "in casi straordinari di necessità ed urgenza". E' difficile definire "urgente" un teatrino che dura da almeno vent’anni, ma se ignoriamo questo allegro abuso costituzionale – ormai prassi di vecchia data – scopriamo che il decreto approvato ieri ricalca quasi alla lettera il disegno di legge già approvato dal Cdm lo scorso 31 maggio. Un testo passato alla Camera, quindi impantanato in commissione al Senato.
I parlamentari, evidentemente, non erano particolarmente motivati all’idea di tagliarsi da soli i fondi, perciò l’applicazione delle misure rischiava di slittare oltre i tempi previsti. Con il decreto, il Governo obbliga deputati e senatori ad approvare il provvedimento, a meno che qualcuno non abbia il coraggio di votare contro la conversione del testo in legge. Un'eventualità remota: ormai ogni tentativo d'opposizione sarebbe solo controproducente sul fronte elettorale.
In effetti, è proprio su questo piano che si misurano i maggiori benefici dell’abolizione del finanziamento pubblico. E’ significativa l’orgia di tweet che si è scatenata venerdì, a Cdm ancora in corso, con politici di ogni schieramento prontissimi a esultare e a intestarsi il merito di questa “promessa mantenuta”. Il tema è di quelli sensibili, perché parla alla pancia della gente. Non a caso è da sempre uno dei (pochi) vessilli elettorali sbandierati da Matteo Renzi, neoeletto segretario del Pd. Ma siamo davvero sicuri che ci sia tanto da esultare?
I soldi risparmiati dallo Stato sono certamente un aspetto apprezzabile, ma non particolarmente significativo in termini finanziari. Anche l'obbligo della certificazione esterna dei bilanci è positivo, e anzi viene da chiedersi come sia stato possibile andare avanti decenni senza che a nessuno sia venuto in mente di mettere sul tavolo un requisito minimo di trasparenza come questo. D'altra parte, il decreto consegna il destino economico dei partiti ai privati.
Per quanti militanti generosi e animati da sincera passione politica possano esistere in Italia, è evidente che non sarà il loro contributo a tenere in piedi le macchine burocratiche del potere politico. La gran parte delle risorse arriverà da aziende, consorzi, cooperative, imprenditori e consorterie varie. Quante possibilità ci sono che le loro donazioni, benché volontarie, non siano anche interessate?
Quel tetto di 300mila euro non è affatto basso, e senz'altro non scoraggia chi cerca la scappatoia legale per ungere il politicante di turno. Quando parliamo di partiti non ci riferiamo soltanto a quel migliaio di persone sedute in Parlamento, ma anche ai loro ben più numerosi colleghi che occupano le poltrone dei consigli comunali, provinciali e regionali. E gli scandali a ripetizione degli ultimi anni raccontano di quali amenità siano capaci.
I finanziamenti o rimborsi elettorali sono senz'altro antipatici, ma hanno una funzione precisa: fare in modo che la sopravvivenza dei partiti non dipenda dalle tasche di chi persegue un tornaconto particolare. Il tutto con un corollario non da poco in termini di democrazia: i soldi pubblici aiutano le formazioni minori, quelle con poco appeal per gli sponsor esterni. E' ovvio che se un gruppo di cittadini qualsiasi decidesse di formare un nuovo partito contando solo sulle donazioni private avrebbe molte meno speranze di sopravvivere rispetto agli avversari.
Sulla base di questi principi, altrove il sistema dei finanziamenti pubblici funziona benissimo. In Italia no, perché davanti a una tavola imbandita molti non riescono proprio a trattenersi. Le scorribande con soldi statali dei vari Trimalcioni di provincia sono state possibili finora per la mancanza di un sistema di controllo minimamente severo ed efficace, in grado di esporre al pubblico disprezzo il primo amministratore con in mano una fattura sospetta. Se fossimo riusciti ad imporre regole rigide, certamente avremmo potuto ridurre drasticamente la spesa per i partiti, evitando al contempo di favorire il loro legame con gli interessi dei privati. Abolire in toto i finanziamenti, invece, è stato come ammettere la sconfitta.
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di Maura Cossutta
Il 23 dicembre la legge 833 compie 35 anni: è la legge che ha istituito il servizio sanitario nazionale, pubblico e universalistico, una conquista di civiltà che ci stiamo perdendo. Una legge bellissima, che tutto il mondo ci invidia, figlia dell’articolo 32 della Costituzione e sorella della legge 180 sulla salute mentale e della legge 194 sull’interruzione volontaria di gravidanza. Tutte del 1978.
Annata speciale, segnata dalle lotte del mondo del lavoro, dei movimenti ambientalisti e dal movimento delle donne, da una cultura critica che ha costruito soggettività individuali e collettive, che ha cambiato il modo di vivere e di pensare di ognuno di noi.
Ma quella legge è stata tradita, da decenni di rimozioni, errori, ritardi. Era la legge del cambiamento, quello vero, non quello della cosiddetta modernizzazione che accetta le disuguaglianze e la devastazione sociale delle politiche di austerità. Quel cambiamento non è mai avvenuto. La salute doveva essere al centro di tutte le politiche, misura per l’equità e l’efficacia delle scelte, perché il diritto alla salute era considerato il diritto “forte” capace di riconoscere e promuovere tutti gli altri diritti: del lavoro, sociali, civili, politici. La salute come bene comune, capace di opporsi alle logiche del profitto e della speculazione
La sicurezza sul lavoro, la tutela dell’ambiente erano compiti precisi dell’istituzione sanitaria pubblica, che doveva controllare, che aveva il primato della responsabilità di fronte ai cittadini. Oggi? Il rischio è stato monetizzato, è vincente il ricatto “o la salute o il lavoro”, i territori - come la Terra dei fuochi - sono avvelenati.
Oggi il diritto alla salute declina le vecchie e nuove disuguaglianze, quelle del censo e della vulnerabilità sociale, quelle del paese di origine. Sono ormai milioni che rinunciano alle cure perché non possono permettersi di pagare il costo dei ticket. E troppi non accedono alla qualità delle cure, perché non conoscono i servizi, o perché sono stranieri senza permesso di soggiorno, o perchè sono costretti ad aspettare i tempi lunghissimi delle liste di attesa.
Altro che qualità e appropriatezza, parole abusate perché mai realizzate. La tempestività delle cure (che di queste dovrebbe essere un indicatore) segue ormai il ritmo di in una sanità diventata a due velocità: intramoenia subito per chi può pagare, tempi biblici per chi non può.
Il nostro sistema sanitario nazionale è devastato dalla scure dei tagli, dallo sperpero delle risorse pubbliche, dall’illegalità. L’ultimo dato: ogni anno la corruzione assorbe alla sanità oltre 1,5 miliardi all’anno, quanto basta per costruire 5 nuovi grandi ospedali modello.
Invece anche Zingaretti decide di tagliare dal prossimo anno 900 posti letto nella città di Roma, mentre i malati al Pronto Soccorso restano anche 10 giorni sdraiati su una barella, in condizioni indegne di un paese civile, in attesa di essere ricoverati perché i posti letto non ci sono.
Mentre la programmazione resta una parola vuota e l’integrazione socio sanitaria resta solo un capitolo di relazioni ai convegni, saltano tutti i percorsi di cura, lasciando i malati soli a rincorrere gli sportelli delle ASL.
Allora, basta chiacchiere. Chi doveva agire è rimasto fermo e chi invece doveva restare fermo, si è mosso fin troppo. I tecnici cosiddetti “neutrali” oggi dettano il verbo: la sanità pubblica non è sostenibile, serve il soccorso dei fondi privati. E ormai il refrain è canticchiato da tutti: “Non si può più dare tutto a tutti, bisogna cambiare”. A 35 ani di distanza dalla legge 833, la speranza del cambiamento è stata manipolata da questo furore. Chi parla ancora di 833 è ideologico, chi sceglie i sistemi assicurativi è riformatore.
Per questo non bisogna dimenticare, bisogna far ricordare a chi c’era e far conoscere a chi non c’era; bisogna riprendere un pensiero, valori, principi, le ragioni di quella conquista che restano più che mai attuali, ma più che mai inascoltate.
Per il 14 dicembre, proprio per ricordare questa legge, per difendere la sanità pubblica “Se non ora quando? Sanità” ha lanciato on line una petizione e ha organizzato un flash mob davanti all’ospedale San Camillo (circonvallazione Gianicolense 87, ore 12 ndr). Tutte e tutti in movimento! Questo è il nostro slogan. Donne e uomini, giovani, associazioni, operatori, artisti, pazienti si ritroveranno, ognuno con le proprie storie, ognuno con i propri linguaggi, perché per la sanità pubblica il tempo è scaduto. Se non ora, quando?