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di Carlo Musilli
Ancora Imu, ma non dovevamo non vederci più? Purtroppo, ci s'incontra di nuovo. Quello sull'imposta municipale unica è probabilmente uno dei più caotici guazzabugli che la storia fiscale italiana ricordi. Come l'araba fenice, o meglio come uno zombie, ciò che sembrava morto - almeno per il 2013 - torna magicamente in vita. Il peccato originale risiede in una dimenticanza inverosimile: ci si è resi conto solo ora che nel 2013 l'Imu sarebbe stata più salata rispetto al 2012, e quindi le coperture calcolate in base ai versamenti dell'anno scorso risultano insufficienti.
Morale della favola: i possessori di prima casa dovranno pagare qualcosa nei Comuni che hanno aumentato le aliquote. La lista comprende gran parte delle maggiori città: Roma, Milano, Napoli, Bologna, Genova, Palermo e via elencando. In tutto, parliamo di circa 3mila Comuni. E quelli che ancora non hanno messo mano alle percentuali hanno tempo fino al 5 dicembre per farlo.
Il conto finale dovrebbe aggirarsi fra un minimo di 40 e un massimo di 150/200 euro per ogni contribuente, escluse le varie detrazioni. Il calcolo è il seguente: si prende l'importo dell'Imu 2013 (con aliquote superiori allo 0,4% di base), gli si sottrae l'importo dell'Imu 2012 (pagata con le aliquote base) e la differenza la mette per il 60% lo Stato e per il 40% il cittadino. Una spartizione che ha messo sul piede di guerra un po' tutti (sindaci, Caf, commercialisti, sindacati), poiché per mesi il Governo aveva garantito che le casse pubbliche si sarebbero fatte carico di tutti gli oneri sulla prima casa.
In propria difesa l'Esecutivo ricorda che verserà cifre supplementari in favore dei Comuni per compensare il gettito della seconda rata (2,16 miliardi di euro, di cui 1,7 in arrivo entro 20 giorni). I Caf però lanciano l'allarme: fra la pubblicazione del decreto, firmato sabato dal Capo dello Stato, e la scadenza per il pagamento, spostata al 16 gennaio 2014, il tempo è troppo poco.
Intanto, si riaccende il faro sulla prima rata, quella che credevamo di avere ormai sepolto. Il ministro all'Economia, Fabrizio Saccomanni, ha firmato il decreto ministeriale che fa scattare la clausola di salvaguardia a garanzia dell'incasso, con la quale saliranno gli acconti Ires e Irap per le imprese e dal 2015 anche le accise su gas, energia elettrica e alcolici (per una volta, è esclusa la benzina).
In origine era previsto che le coperture per la cancellazione della prima rata arrivassero dalle maggiori entrate Iva legate al pagamento di debiti della Pubblica Amministrazione per 7,2 miliardi di euro, mentre altri 600 milioni erano attesi dalla sanatoria in favore delle concessionarie dei giochi.
Peccato che fino alla settimana scorsa, stando a quanto certificato dal Tesoro, di quei 7,2 miliardi di debiti ne fossero stati pagati poco più di due (circa il 28% del totale). Quanto al capitolo giochi, secondo indiscrezioni apparse in questi giorni sulla stampa specializzata, l'Erario avrebbe riscosso poco più della metà del gettito previsto. Risultato: le previsioni erano sballate e per cancellare una tassa sarà necessario alzarne altre.
Calcolatrice a parte, rimane la politica. Per mesi il Pdl ha fatto dell'abolizione dell'Imu la propria bandiera elettorale, ma dopo la scissione fra Forza Italia e Nuovo Centrodestra le carte in tavola sono cambiate. I primi adesso si producono in un agile colpo di reni, addossando ai partiti con cui hanno governato fino alla settimana scorsa l'intera responsabilità del "pasticciaccio brutto", come lo ha definito il letterato Renato Brunetta. I destrorsi governativi, invece, si barcamenano: il vicepremier Angelino Alfano si è detto "contento" di quanto ottenuto per il 2013, ma non ancora pienamente soddisfatto, annunciando ulteriori ritocchi alla Camera per migliorare il risultato.
Ai Comuni infuriati, invece, Saccomanni ha replicato con la voce del tecnico: "Capisco le vostre ragioni - ha detto - ma lo Stato non poteva che calcolare i rimborsi da pagarvi sulle aliquote base. Se avete deciso per il rincaro, devono pagare i cittadini". Magari, ma è solo un'ipotesi, sarebbe stato meglio accorgersene prima di essere con l'acqua alla gola.
Ora il Parlamento dovrebbe riuscire nell'impresa di trovare una soluzione a tempi di record. Considerata la prassi abituale, anche se la mini-Imu 2013 fosse cancellata, è assai probabile che si trasformi in qualche forma di rincaro per il 2014. Perché, a quanto pare, non esiste un antidoto efficace contro il Fisco-zombie.
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di Fabrizio Casari
Il Senato della Repubblica ha votato la decadenza da senatore di Silvio Berlusconi. Un voto che rappresenta una prassi consolidata, un esercizio dovuto a seguito di condanne penali o civili che implichino l’interdizione dai pubblici uffici. La sceneggiata delle donne di Forza Italia vestite a lutto, con lui che associa la magistratura alle Brigate Rosse è il degno epilogo di una avventura politica e di costume che del paradosso e della sfacciataggine, dell’ignoranza e del vittimismo, ha fatto il suo marchio di fabbrica.
Comincia ora una nuova fase politica, con la destra italiana sempre più desiderosa di una crisi parlamentare a breve, che consenta di consumare possibili vendette pur a fronte di incerte vittorie. Dal momento però che comunque Berlusconi non potrà essere eletto nella prossima legislatura, la voglia di tornare alle urne vive solo dello sfruttamento emotivo in un arco temporale breve della vicenda berlusconiana, ieri trasformatasi da storia di successo in storia di persecuzione.
La persecuzione, il complotto, le trame e i tradimenti. Questi gli ingredienti della tragedia di un uomo privo del senso del ridicolo, ultra potente che si è cosparso di ridicolo. Un personaggio che ha dimostrato come le condizioni avverse del quadro di sistema rendano impossibile l’elaborazione di una strategia politica capace di ribaltare il piano. Affidatosi ai pasdaran, primi della fila Santanchè e Sallusti, (sempre più identificati come i Rosa e Olindo del biscione), il risultato non poteva essere migliore di quel che è stato. Scarsa lucidità, incapacità di lettura politica, assenza di ragionevolezza nel trattare la vicenda interna sono stati i caratteri principali dell’avventura dal sapore donchisciottesco consumatasi in queste ultime settimane.
A voler ascoltare o anche solo leggere quanto Silvio Berlusconi ha affermato alla vigilia del voto, c’era da domandarsi davvero dove finiva la realtà e cominciava la fantasia, cioè dove il terreno del diritto individuale cedeva il passo all’ego ipertrofico del cavaliere quasi decaduto. Giacché se per il primo aspetto il condannato annunciava un ricorso per la revisione del processo (che a giudicare da quanto anticipava sembrava però una solenne patacca, diffusa al solo scopo di evitare il voto sulla decadenza), su quello della personalità malata si è assistito al tanto peggio tanto meglio.
Lancio di appelli a deputati e senatori affinché non si macchiassero di quello che deve tuttora sembrargli, fondamentalmente, un regicidio. Le ha provate tutte. Alla vigilia ha persino chiesto a tutti di votare in suo favore "in modo da non doversi un giorno vergognare di fronte ai propri figli", ricalcando così la scenetta mediatica di quando giurò sulla testa dei suoi a meri fini elettorali. E pensare che aveva sempre definito le istituzioni politiche come un “teatrino”, salvo non voler a nessun costo veder scendere il sipario.
Deve essere proprio il convincimento che l’applicazione delle norme e delle sentenze giudiziarie, quando riguardino la sua persona, siano un regicidio, dal momento che in un delirio ormai inarrestabile condito con grida manzoniane, il cavaliere di Arcore denunciava un ridicolo colpo di Stato, omettendo che, letteralmente, un colpo di Stato mira a ribaltare un sistema e a cacciare chi lo rappresenta istituzionalmente; nella storia non si è mai saputo che un colpo di Stato viene realizzato per ridurre il margine di manovra di un oppositore.
La stessa pretesa per la quale Napolitano avrebbe dovuto concedergli la grazia è parte del suo convincimento malato di essere al di sopra di tutti e della stessa legge. Perché oltre a rappresentare un atto individuale di clemenza a totale discernimento del Capo dello Stato, sentito il parere del Ministro di Grazia e Giustizia, la grazia non può essere concessa se la persona cui è destinata è sottoposta ad altri procedimenti giudiziari in itinere (e Berlusconi ha altri tre processi aperti).
Oltre a ciò, la grazia viene concessa in presenza di un evidente ravvedimento del condannato, non certo mentre lo stesso accusa magistratura, presidenza della Repubblica, Senato e Camera dei Deputati di colpo di Stato ai suoi danni. Men che meno quando il condannato esalta la figura del suo stalliere mafioso, cui dedica parole di stima per non essersi pentito come già in precedenza aveva fatto Dell’Utri.
Utilizzando l’arcinota metafora del marziano che fosse sbarcato sulla terra e che avesse letto quanto avviene in questi giorni sulla vicenda Berlusconi, ascoltando o leggendo quanto egli affermava e afferma, avrebbe potuto pensare di trovarsi di fronte ad un uomo che, rinchiuso nel braccio della morte, si proclama innocente alla vigilia dell’iniezione letale. Invece, si trattava solo del voto sulla decadenza da senatore del condannato Silvio Berlusconi. Voto che, addirittura, è un ulteriore passaggio garantista verso l’applicazione della sentenza definitiva del quale ha usufruito solo in quanto parlamentare della Repubblica.
Andrebbe semmai evidenziato come, nonostante le reiterate sentenze di colpevolezza, che lo identificano quale diretto responsabile di alcuni dei peggiori reati amministrativi, civili e penali, Berlusconi verrà solo privato del titolo di Senatore della Repubblica, ma non conoscerà né prigioni né confino, non dovendo scontare altro che una leggerissima condanna ai servizi sociali. Per qualche tempo, insomma, dovrà diventare una persona normale colpito da una leggerissima condanna
Sosteneva ieri, in conversazioni private fatte filtrare alla bisogna: “Ricevevo gli uomini più importanti del mondo ed ora mi trovo a dovermi figurare come portatore di vassoi in qualche centro di recupero o di assistenza”. Insomma si è dipinto come statista (dipinto di chiara impronta onanistica) e ha il terrore di diventare un cameriere, ha vissuto tra i ricchissimi e teme di dover incrociare i poverissimi.La fine dell’immunità, per chi si è arricchito all’ombra di poteri tenebrosi e amicizie politiche, che ha acquistato soprattutto con mezzi illeciti tutto ciò che valeva la pena possedere, coprendosi così con un manto di potere che avvolgeva ogni ganglo del corpo del Paese, rende il momento particolarmente difficile.
Dover abbandonare i sogni monarchici procura in soggetti come Berlusconi la tipica sindrome abbandonica della star del cinema invecchiata e dimenticata, che senza più disporre delle platee adoranti, rivede ossessivamente i film che la videro protagonista illudendosi di esserlo ancora. Il suo amico Putin, non a caso, gli ha ricordato come il sostegno all’inizio è ampio, poi si riduce e infine svanisce.
Ci sono due livelli che s’incastrano perfettamente nella novella berlusconiana: la perdita di prestigio istituzionale e, ancor più sostanziosa, quella dell’immunità parlamentare. I suoi sicari nelle redazioni dei suoi diversi house-organ paventano ordini di cattura che sarebbero pronti ad essere emessi non appena l’immunità dovesse cessare, ma sono solo una parte della guerra mediatico-politica che dichiara un uomo impaurito dalla normalità, terrorizzato dall’associazione tra diritti e doveri riguardante ogni cittadino.
Sono mesi che la condanna definitiva è stata emessa e fin troppo tempo era passato. Ogni possibile manovra destinata a impedirne o anche solo ritardarne l’esecuzione è stata approntata. Per schivare il voto decisivo non si è risparmiato: bombardamento mediatico tramite i suoi sicari nella pubblicistica, minacce dirette e insulti ad ogni istituzione, cambiamento politico della sua formazione, ritiro del sostegno al governo Letta.
A definire ancora una volta la singolarità del caso avevano provveduto le intromissioni non richieste di chiunque, direttamente o no, sia a suo libro paga. Un ciarpame urlante di scarsa dignità. Che non ha aggiunto niente a quanto già si conosceva ma che ha confermato quanto il valore del denaro e del potere sia la condizione perché in un mondo di teoricamente uguali, qualcuno sia più uguale degli altri. Ribadendo con ciò quanto l’assioma secondo il quale “la legge è uguale per tutti” sia, nella migliore delle ipotesi, un simpatico auspicio.
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di Antonio Rei
Il premier Enrico Letta inaugura una sua personale rivisitazione della "terza via". In tempi di larghe intese, non si tratta più di trovare un'alternativa tra liberismo e socialismo, o tra keynesianismo e neoliberismo. I due poli fra cui il presidente del Consiglio si destreggia, purtroppo con scarsa agilità, sono altri: rigorismo e antirigorismo. La settimana scorsa, intervenendo all'assemblea di Federcasse, Letta ha spiegato che il suo Governo deve fronteggiare due categorie di avversari: "Chi vuole più spesa e deficit e gli ayatollah del rigore". Il nostro Paese "è stretto fra questi due fronti, e non è facile: abbiamo bisogno di alleati in Italia e in Europa".
Insomma, alcuni ritengono che "il rigore non sia mai abbastanza, ma di troppo rigore l'Europa e le nostre imprese finiranno per morire"; gli altri, gli spendaccioni, non tengono conto di quanto sia importante la stabilità della finanza pubblica, anche perché "l'Italia continuerà ad essere vulnerabile finché non sarà arrivata almeno a un tasso d’interesse del 3% sui bond decennali (attualmente poco sopra il 4%, ndr)".
Il discorso denota uno zuccheroso equilibrismo democristiano, apparentemente difficile da collocare in una qualsiasi delle teorie economiche contemporanee. In realtà, quello che più conta sono le contraddizioni che contiene. Partiamo dalla fine, analizzando l'unico dato concreto fornito dal Premier, ovvero quella soglia psicologica per i rendimenti dei Btp decennali, fissata al 3%.
Forse a Palazzo Chigi non circolano molte tabelle, perché tassi d'interesse simili su quei bond non si sono mai visti, nemmeno quando il Pil era ancora in crescita. In base agli andamenti storici, un valore vicino a quello individuato dal capo del governo è il minimo storico del 3,35%, che risale al 30 settembre 2005.
Il target evocato da Letta è quindi del tutto inverosimile, oltre che inutile. L'aspetto più grave, tuttavia, è un altro. A prescindere dai numeri, il Presidente del Consiglio, di fatto, ha ribadito ancora una volta la vulgata che pone l'economia reale in posizione subordinata rispetto alle esigenze della finanza. "Andrò a Berlino a cercare di parlare all'opinione pubblica tedesca - ha continuato Letta - per spiegare perché l'Europa deve essere solidale. L'Italia ha le carte in regola perché la sua voce sia ascoltata. C'è bisogno di politiche per la crescita. Noi lo possiamo dire perché abbiamo i conti in ordine".
Il punto è proprio questo: da una parte il Premier si scaglia contro i danni prodotti dall'austerity, dall'altra si vanta di aver riportato il deficit italiano al 3% del Pil. Prima sostiene che la priorità sia riattivare una politica europea volta alla crescita, poi rimarca la necessità di tenere "i conti in ordine" e addirittura di lavorare per ridurre ulteriormente i tassi sui Btp. Quando si puntano allo stesso tempo due obiettivi così divergenti è inevitabile mancare entrambi i bersagli. Bruxelles continua a lamentare un'azione insufficiente del nostro Governo sui conti pubblici, al punto che una decina di giorni fa la Commissione europea ci ha negato il diritto di usufruire della clausola sugli investimenti produttivi per la nostra politica deludente sul fronte del debito (salvo poi lasciare aperto uno spiraglio in vista di privatizzazioni e spending review), e anche dall'Ocse sono arrivate critiche in questo senso.
Intanto, il nostro Paese ha la certezza di un futuro desolante: nel 2014, è vero, usciremo dalla recessione, ma ad attenderci non c'è la crescita, bensì una sostanziale stagnazione, con il numero dei disoccupati destinato addirittura ad aumentare. Tutti mali considerati necessari e accettabili pur di avere "i conti in ordine", che poi in ordine non sono.
E' una storia già scritta, e non c'è lieto fine. Letta simula una qualche forma di ribellione al diktat finanziario europeo, ma nei fatti obbedisce senza nemmeno ipotizzare una protesta reale. In linea teorica, gli uffici di Bruxelles non sono fatti solo per ricevere ordini e reprimende.
Si potrebbe anche litigare, alzare di qualche decibel il tono della voce. Invece di andare in Germania a supplicare maggiore "solidarietà", il Presidente del Consiglio italiano potrebbe almeno provare a mettere sul tavolo l'unica soluzione possibile, ovvero la revisione dei trattati europei, a cominciare dai parametri finanziari stabiliti a Maastricht nell'ormai lontanissimo 1992.
Troveremmo una schiera di alleati su questo fronte, in primo luogo fra i Paesi in cui la politica a trazione tedesca ha creato vere e proprie mattanze sociali (Grecia, Spagna, Portogallo, Irlanda). La nostra voce sarebbe ulteriormente rafforzata dal fatto che il prossimo primo luglio inizierà nel Consiglio dell'Unione europea il semestre di presidenza italiana. Purtroppo, il nostro Premier - che sostiene di avere "big balls" - non ha sufficiente carisma, né forza politica, né indipendenza dalle lobby per avventurarsi nell'unica battaglia che avrebbe senso combattere. Ammesso che ne abbia mai avuto l'interesse.
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di Carlo Musilli
"Noi ci stacchiamo e facciamo dei gruppi autonomi, poi però andiamo insieme alle elezioni". L'idea circolava da tempo nella mente del vicepremier Angelino Alfano ed è riecheggiata dozzine di volte nei vertici a ripetizione di Palazzo Grazioli. Da ieri, però, è realtà. Al Convegno nazionale del Pdl, Silvio Berlusconi ha sancito la rinascita di Forza Italia. L'ex Delfino, invece, ha annunciato la costituzione del "Nuovo centrodestra".
La separazione ha come prima conseguenza quella di blindare l'Esecutivo di Enrico Letta. I governativi di Alfano contano 37 teste al Senato: quanto basta per garantire la tenuta ad libitum dell'Esecutivo (il problema non si pone alla Camera, dove il Pd ha da solo la maggioranza assoluta grazie all'assurdità del Porcellum). La decadenza del Cavaliere, dunque, non farà alcuna differenza.
A ben vedere, il divorzio di ieri è stato l'esito inevitabile d'interessi contrapposti. Il vicepremier aveva avanzato due richieste per entrare in Forza Italia: primarie per l'assegnazione di tutte le cariche (fatta salva la leadership divina di Berlusconi) e soprattutto fedeltà al governo almeno fino al 2015. Condizioni inaccettabili per il Cavaliere, abituato da sempre a disporre del partito come di una proprietà privata e deciso al ribaltone dopo l'espulsione da Palazzo Madama.
Ma chi ha vinto, alla fin della tenzone? I maggiori benefici spettano certamente ad Alfano, che conserva la poltrona di vicepremier e di ministro degli Interni, rilanciandosi come leader di una formazione governativa che non deve più trattare con gli odiati falchi. Gli alfaniani, invece, non solo si tengono ben stretta la poltrona attuale, ma hanno anche una speranza in più per la prossima legislatura: senza la scissione, quasi certamente Verdini e chi per lui avrebbero fatto di tutto per evitare di ricandidarli.
Dal punto di vista di Berlusconi, invece, quella registrata ieri è senz'altro una sconfitta. Il Capo assoluto sta diventando una figura sempre più marginale nel panorama politico: fra poche settimane non solo perderà lo status di senatore, ma si ritroverà anche ad essere il leader morale e finanziario di un partito d'opposizione. A conti fatti, la separazione è stata la prima tappa ufficiale di un percorso avviato ormai da tempo, che segna la progressiva riduzione della quota di potere nelle mani del Cavaliere. Una discesa lenta ma continua che l'ex premier ha poche chance di arrestare, considerando che nei prossimi mesi dovrà affrontare tutti i processi che lo riguardano senza poter contare sull'immunità parlamentare e senza il diritto di ricandidarsi.
Tutto questo però non significa che da oggi si apra una fase di rinnovamento nel centrodestra italiano. I cambiamenti in atto rispondono solamente a logiche di convenienza interna e non hanno nulla a che vedere con la politica intesa come applicazione d'idee al servizio del Paese.
Quando si tornerà alle urne - Berlusconi lo ha lasciato intendere chiaramente nel suo lungo discorso di ieri - le due metà appena divise correranno insieme, consapevoli di non poter fare altrimenti. Qualsiasi cosa accada, il Cavaliere rimane l'unico front-man della destra: l'unico in grado di sedurre gli italiani con le solite favole fiscali, l'unico ad avere le risorse finanziarie per garantire la fedeltà di un'accolita che da anni lavora soltanto per tutelare gli interessi del Capo. Fino ad oggi Alfano e i suoi hanno fatto parte della truppa ed è inconcepibile che oggi possano proporre un'alternativa minimamente credibile. Come gli altri, non hanno mai avuto un progetto politico, e immaginare che ora possano crearne uno ex novo è semplicemente utopico. Davanti a loro, tuttavia, sia apre una nuova possibilità: quella di raccattare per strada ciò che resta della moribonda Scelta civica (in primo luogo il ministro Mauro) e degli altri democristiani in cerca d'autore.
Il teatrino che ci aspetta è proprio questo: la proposta (ingannevole) di un nuovo polo destrorso più rispettabile e "moderato" di quello berlusconiano, capace di ottenere una minima considerazione nel Ppe. Un'operazione di facciata che - in linea teorica - potrebbe perfino ampliare il bacino elettorale del centrodestra, accalappiando i destrofili disgustati dal costume di Berlusconi e dei vari fantocci in stile Santanchè.
E' solo un gioco delle parti che non sfiora nemmeno da lontano l'interesse del Paese. Il risultato, per giunta, sarà del tutto paradossale, o forse tragicomico. Da oggi ci ritroviamo con due partiti dominanti nella destra italiana: uno al governo insieme al centrosinistra, uno all'opposizione. Uno fa le leggi, uno le combatte. Uno è europeista, l'altro è antieuropeista. Uno frequenta Palazzo Chigi, l'altro Palazzo Grazioli. Ma quando si tratterà di riandare al voto, miracolosamente, torneranno a sommare i propri voti. E chissà quale faccia indosseranno per l'occasione.
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di Carlo Musilli
Ci sono due segni rossi sul calendario di Angelino Alfano. Le date precise ancora non si conoscono, ma i periodi sì: la fine di novembre, quando l’Aula del Senato si esprimerà sulla decadenza di Silvio Berlusconi, e l’inizio di dicembre (probabilmente l’8, stesso giorno delle primarie Pd), quando il Consiglio nazionale del suo partito si riunirà per ridare ufficialmente vita a Forza Italia.
Sono scadenze decisive per le colombe pidielline capitanate dal vicepremier, che sembra voler aspettare le mosse altrui prima di scegliere una strada chiara per il futuro del centrodestra. Difficile spiegare altrimenti la clamorosa retromarcia di questa settimana: “I sottoscritti consiglieri nazionali si riconoscono nella leadership di Silvio Berlusconi, ovviamente a cominciare da me - ha detto Alfano -. Questo sarebbe il primo rigo di ogni documento che io dovessi sottoscrivere”.
Parole volte a prendere tempo, più che a sancire una riconciliazione minimamente credibile con il Cavaliere e l’entourage dei falchi. Basti pensare che, appena venerdì scorso - dopo l’azzeramento delle cariche annunciato dal Capo -, Alfano diceva di prepararsi a una scissione “che è ormai nei fatti”, ventilando l’ipotesi di una separazione incruenta: le colombe nel Pdl, i falchi in Forza Italia. Sigle diverse, ma pronte ad allearsi quando si tornerà a parlare di elezioni. Per aderire in blocco alla riedizione del vecchio partito, invece, l'ex delfino poneva una serie di condizioni: per sé chiedeva la riconferma a segretario con pieni poteri (e su questo pareva che Berlusconi fosse disponibile), mentre per il Governo chiedeva garanzia di stabilità almeno fino al 2015.
Proprio questo è il punto dolente. Ieri Berlusconi ha ribadito che il voto sulla sua decadenza da senatore è una questione “non aggirabile” se si vuole mantenere in piedi l’Esecutivo. L’espressione è volutamente ambigua: il Cavaliere sa che la sua espulsione dal Parlamento è quasi certa, ma teme che se provasse ad aprire una crisi si ritroverebbe nello stesso vicolo cieco del 2 ottobre. All’epoca fu costretto da Alfano a votare la fiducia, esibendosi in un’umiliante piroetta dell’ultimo minuto.
Se i rapporti di forza all’interno del partito non cambieranno in queste settimane, Berlusconi non avrà i numeri per far cadere Letta e un eventuale strappo finale con la componente filogovernativa del suo partito sarebbe un clamoroso autogol. Il Governo andrebbe avanti e il Cavaliere otterrebbe il solo risultato di ritrovarsi in una posizione politica ancora più marginale. Non solo fuori dal Parlamento, ma anche alla guida di un Partito d’opposizione.
D'altra parte, che le colombe abbiano la forza di realizzare uno scenario del genere è tutto da dimostrare. Gli ostacoli sono tanti, probabilmente troppi. Per dirne una, c’è da considerare il quadro finanziario: rinunciare alla generosità delle casse berlusconiane non è cosa da tutti i giorni. E’ vero, esistono fonti di finanziamento alternative, ma sono certamente meno sicure e meno munifiche, senza contare che l'organizzazione richiede tempo. Per questo Alfano cerca in ogni modo di procrastinare la resa dei conti finale.
Secondo gli adepti del Cavaliere, il segretario sconfessato vuole arrivare al Consiglio nazionale del partito con Berlusconi già decaduto. A quel punto la conta dei voti - da effettuare su una compagine ben più ampia rispetto a quella dei soli parlamentari - potrebbe dargli definitivamente ragione (le modifiche statutarie richiedono una maggioranza dei due terzi) e consegnargli le redini del partito, limitando per la prima volta in via ufficiale lo spazio di manovra del Capo.
Ecco per quale ragione Berlusconi cerca fino all’ultimo di non lasciare andare Alfano ed è arrivato ad offrirgli non solo la segreteria, ma anche la vicepresidenza di Forza Italia. Il Cavaliere chiede all’ex Delfino di rinunciare alla poltrona da vicepremier. Alfano, invece, vorrebbe che il suo mentore si rassegnasse alla decadenza senza mettere a rischio la tenuta del Governo. Le loro posizioni sono inconciliabili, ma entrambi sanno benissimo di avere bisogno l’uno dell’altro. Per questo, se alla fine si firmerà divorzio, sarà quasi certamente consensuale.