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di Fabrizio Casari
Nel suo esagerato peregrinare televisivo di questi ultimi giorni si è potuto ammirare come il professor Monti abbia nei suoi privilegi e nella sua personale convenienza la stella polare di ogni ragionamento. Si candida dietro le quinte per non rischiare il vitalizio, pensa di governare senza vincere le elezioni, moltiplica le liste per lucrare in termini di par conditio e interdizione parlamentare. Ma non era un sobrio tecnico super-partes?
Vediamo il metodo. Propone d’innovare con Casini e Fini, di modernizzare battezzando la coalizione in un convento, parla di diritti delle donne compilando l’agenda con altri quattro uomini, utilizza la gestione per gli affari correnti del governo per presentarsi in tutte le reti a fare propaganda per lui e la sua agendina mentre chiede agli avversari di silenziare i suoi critici. Insomma, non solo sceglie solo lui i suoi, ma pensa di farlo anche per gli altri. Dove sia lo spirito moderato resta un mistero.
Della vituperata tradizione politica italiana, il professore pare cogliere gli aspetti meno nobili, quali intitolarsi personalmente un progetto politico, imbarcare residuati d’ogni risma e colore, proporre ricette in cui non crede per rastrellare voti, offrirsi come ago della bilancia per future e disinvolte alleanze. Ma il dato nuovo, rispetto ad altre aggregazioni più o meno fortunate, è quello di chiedere potere senza esporsi direttamente, pensando di poter governare senza vincere le elezioni (come un qualunque Ghino di Tacco); esporsi e nello stesso tempo defilarsi, presentando un’operazione che in caso di vittoria si assegnerebbe e in caso di sconfitta scaricherebbe su Fini e Casini che lo sostengono.
Vogliamo passare dal metodo al merito? Con uno dei suoi mirabili giochi di parole, Dagospia ha definito l’agenda Monti “agendina in pelle riciclata”. Ma, ironia a parte, è proprio la sua agenda che merita un’ulteriore riflessione, dal momento che se è vero che poche volte come nell’occasione il nulla cosmico è stato spacciato come il sale della terra, è altrettanto vero che il Monti-pensiero è oggi pericoloso per le pulsioni autoritarie che implica. Non c’è nessun pensiero di livello medio-alto, condivisibile o meno, nelle paginette. In una sostanziale rivoluzione copernicana dell’esistente, Monti spiega che la finanza non è una branca dell’economia e che questa non è uno degli aspetti del vivere determinati dalla politica, bensì il contrario.
Non è un caso che ritenga le elezioni un’inutile rito politicista, pur trovandocisi però a meraviglia. La politica, nell’immaginario montiano, è una fastidiosa variabile dell’organizzazione sociale che non può che essere definita dal mercato, dunque ha un ruolo solo se asseconda il modello. In questo senso non ci sono sinistra e destra che si avversano in quanto portatori di identità e progetti alternativi tra loro, giacché la disputa ideologica è un aspetto ormai anacronistico nell’era del pensiero unico. Dio in chiesa e il mercato liberista fuori dalla chiesa: non c’è molto altro. Quella che viene fuori dalla lettura dell’agendina è un’idea del governo dei popoli e dei paesi che archivia d’un colpo le contraddizioni epocali sul cui sfondo l’umanità ha costruito, secoli dopo secoli (e guerre dopo guerre), l’ambizione all’elevazione del genere umano. Le grandi questioni che hanno terremotato la storia dell’umanità, nella carne come nello spirito, sono infatti archiviate per sempre.
Da chi? Da una nuova divinità superiore: il pareggio di bilancio, che seppellisce definitivamente la sovranità nazionale degli stati e la loro autonomia nel prefigurare il modello di sviluppo. Scompaiono così la contraddizione tra l’autoritarismo e la democrazia, tra il progresso e la reazione allo stesso, tra la concentrazione monopolistica della ricchezza e l’allargamento al maggior numero di persone della stessa. Diventano anticaglia le culture dei diritti sociali ed economici, la diversità tra i modelli inclusivi e quelli esclusivi di organizzazione sociale, tra l’estremismo liberale e le costituzioni democratiche che hanno favorito il ruolo regolatorio e ordinamentario degli stati e delle organizzazioni internazionali. La democrazia diventa una superstizione o poco più, non è un caso che l’agendina non ne faccia cenno.
E’ un’agendina minimal, di spessore intellettuale pari a zero, quella con la quale il funzionario dell’Unione europea chiude la storia europea; libertà, fratellanza, uguaglianza, i principi cardine dall’illuminismo fino alla Rivoluzione d’Ottobre, diventano oscure tracce del passato e persino la diversa concezione dello sviluppo economico che ha animato lo scontro secolare tra socialismo e capitalismo e, all’interno di quest’ultimo, tra economia sociale di mercato e liberismo, tra modello inclusivo ed escludente, sono artefatti ormai superati. Siamo quello che mangiamo, niente di più. Parola di Monti.
Quello che c’è di chiaro nell’agendina è davvero poco, ma è quello che viene malcelato ad essere più preoccupante. Non si parla di democrazia, di governance, di diritti sociali e di lotta alle diseguaglianze, perché sono temi che suscitano la riflessione e l’azione politica; di per se stessi, perciò, portatori di regole d’ingaggio per i popoli in chiave di allargamento della sfera dei diritti, che trasformano i sudditi in protagonisti, i governati in cittadinanza attiva. Pulsioni pericolose e controproducenti per i mercati, che non sopportano distrazioni quali la sovranità popolare; i controllori non tollerano essere controllati, men che mai regolamentati.
L’Europa dei banchieri e dei tecnocrati non prevede infatti allargamento della sfera dei diritti sociali e politici, riduzione delle diseguaglianze, ricerca degli equilibri attraverso la mediazione sociale. Perché la lotta alle diseguaglianze, utile anche per le politiche di crescita oltre che sacrosanta e persino in linea con l’originario spirito europeista, viene temuta in qualità di freno oggettivo al comando centralizzato dell’Europa delle banche e della speculazione finanziaria, proseguimento con altri mezzi della supremazia industriale un tempo vigente.
E la famosa Europa? Il disegno contenuto nell’agendina non la propone come continente unito e unitario, come dimensione sovranazionale di un’identità politica pur difficile da raggiungere, ma solo come Europa della finanza e della moneta, concependo l’ortodossia della ragioneria finanziaria ultraliberista come Alfa e Omega dell’orizzonte politico europeo.
Non ci si pone mai l’interrogativo sull’efficacia del modello e sul deficit profondo che vige tra le aspirazioni contenute nel disegno dei padri fondatori della UE e l’egemonia assoluta del panzern tedesco, che continua da secoli a immaginare il vecchio continente come la sede geografica del suo impero, il luogo da quale estrarre ricchezza e forza destinate alla proiezione internazionale del Reich. Tantomeno si ricorda come proprio l’esigenza di arginare la pulsione imperiale tedesca sia stata una delle motivazioni che hanno determinato la costruzione del Manifesto di Ventotene.Non sono dimenticanze figlie della fretta, non si tratta di omissioni interessate o di superficialità dell’analisi, pure colpe presenti a dosi massicce nell’esposizione di Monti, autodenominatosi economista senza esserlo (è professore di economia, che è cosa assai diversa) statista (senza mai esserlo stato) e indipendente (ruolo smentito da tutta la sua carriera al servizio di banche e partiti).
Quello che dalle paginette emerge con chiarezza è l’assoluta assenza di un pensiero mentre abbonda la dottrina del primato assoluto dei numeri. Come fosse stata redatta a Manchester, emerge come l’idea che Monti e i suoi ispiratori hanno dell’Europa è la stessa da sempre: non un continente dove sperimentare un modello democratico e federale, ma governato dal comando assoluto dei centri finanziari, pronti, all’occorrenza, ad occupare le istituzioni, come appunto nel caso di specie.
In una classica nemesi, sarà la dura realtà dei numeri a riporre Monti nell’abito che gli appartiene, saranno le percentuali elettorali a definire una volta per tutte lo spessore del personaggio e la fiducia popolare di cui gode. Nei circoli dell’Europa che conta (e persino in seno al suo primo sponsor, il Vaticano) sembra ci siano già le prime delusioni, non si credeva che il livello di consenso potesse essere così basso. Previsioni? Niente di strano che l’omino con i poteri forti alle spalle che voleva mangiarsi l’Italia, tra meno di due mesi si trovi con le spalle scoperte e l’Italia sul gozzo, inducendo i suoi riferimenti a cercare un uomo diverso con cui riprendere il gioco. Tornerà utile allora non aver comodamente rinunciato al “sobrio” vitalizio da senatore a vita.
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di Fabrizio Casari
L’agenda. Adesso, nella sobria era in cui imperano gli austeri senza rimedi, i programmi si chiamano così. L’agenda, notoriamente, indica le incombenze giornaliere; predisporre obiettivi di lungo respiro, identificare i problemi e le soluzioni agli stessi non è compito del datario. In questo senso, il programma presentato da Monti è coerente con le caratteristiche di un’agenda. Che però, a misurare lo spessore delle tesine esposte, meglio sarebbe definirla un’agendina. Insomma se qualcuno si aspettava un progetto, un programma, un orizzonte politico e teorico sul quale costruire una nuova forza politica rimarrà deluso.
A sfogliarla vi si trova invece la quint’essenza del montismo e della sua ricetta: una miscela di cilicio e olio di ricino necessari per il ristabilimento dell’unico primato, quello del dio mercato che tutto governa e tutto corregge. Accarezzarne i flussi, sottoporre paesi e persone ai suoi voleri, sarebbe il compito essenziale della politica. L’analisi di quanto combinato in un anno è solo in chiave auto elogiativa. L’economia in recessione, il record assoluto di disoccupazione, la caduta verticale del PIL, il record di pressione fiscale, il taglio della spesa pubblica mentre si aumentavano gli sprechi della stessa, aver alzato un muro invalicabile contro l’accesso al lavoro dei giovani mentre si obbligano gli anziani a rimanervi, sono alcune delle perle che l’ex-advisor di Goldman Sachs evita di citare.
Preferisce raccontare della ritrovata credibilità internazionale, facendo finta di non sapere che chiunque dopo il pagliaccio di Arcore avrebbe ispirato un generale sospiro di sollievo nelle cancellerie europee e che la ritrovata considerazione è figlia della devozione che il governo italiano ha mostrato al sistema bancario e al governo tedesco.
Nell’agendina non c’è nessun accenno alla parola democrazia, così come non s’intravede la questione sociale: come affrontare i temi preminenti di ogni governance, quali diseguaglianze, deficit democratico, emergenza ambientale, sono dettagli che non distraggono la sobria esposizione dei doveri. E ovviamente, non essendoci la politica, non può esserci nessuna divisione tra destra e sinistra, soprattutto perché la prima è “l’oggi” mentre la seconda (un tempo nobile, si riconosce) è diventata “perniciosa”. D'altra parte, se ci fossero destra e sinistra lui che starebbe a fare?
Qual è ad oggi lo schieramento che sostiene quest’agendina? Tutta la destra conservatrice italiana che, pur avendolo fatto in passato, non riesce più a stare con il cavaliere nero. Dalle gerarchie ecclesiali alla Confindustria, dagli esuli del PDL e di AN agli editorialisti del terzismo, dai nuovi figuranti del terzo polo a trazione vaticana agli ex-sindacalisti CISL. L’intendenza che segue somiglia molto alla grande ammucchiata: ci sono politicanti di spesso pelo e di lungo corso, ex di qualunque cosa e futuristi ipotetici, rampolli di buona famiglia mai sporcatisi di lavoro e giornalisti impegnati a battere la grancassa. Ultimi arrivati, i liberali.
Ma come metterli insieme? Pare sia da sciogliere ancora un dubbio non da poco: lista del professore inzeppata di nomi o di partiti? Il premier non ha ancora deciso se convenga far confluire in essa anche i partiti che lo sostengono (Udc e Fli) anche alla Camera - al Senato la scelta appare obbligata - o se convenga mantenere le diverse identità. L’incognita finale pare essere legata all’attesa del discorso di fine anno del Presidente Napolitano.
Il professore intende - stando alle parole di Ichino - preservare l'originalità di un'offerta politica rivolta soprattutto alla società civile. Ma l' ipotesi lista unica presenta anche diversi svantaggi: ''Con il Porcellum avere più liste alla Camera significa avere più deputati'', ha spiegato all’Ansa una fonte che sta lavorando al dossier. Idem dicasi per la par conditio: più liste significa maggiore spazio.
Sulla questione lista con o senza partiti Casini è preoccupato: rinunciare allo scudocrociato sarebbe un vero peccato soprattutto per lui. Forse per questo il leader Udc ha messo le mani avanti: “Stiamo lavorando ad un’area di responsabilità nazionale in cui troverà spazio chi crede nel valore della buona politica, mentre gli opportunisti dell'ultima ora saranno lasciati fuori”.
Certo, possono sembrare attimi di comicità involontaria, ma Casini non va sottovalutato: è uomo di abilità e di conoscenze importanti, al punto che nella sua circumnavigazione da una parte all’altra dell’emiciclo parlamentare, è sempre stato al centro di tutto e dimostra quotidianamente come il numero dei voti sia inversamente proporzionale al minutaggio nei Tg Rai. Dietro di lui l’ultra-ambizioso Riccardi, che lancia moniti, ordina regole e da luce verde, gialla o rossa al semaforo dei questuanti: sembra ormai il delegato pontificio alla colonizzazione del regno.
La campagna però è partita e la stampa e la propaganda montiana cerca di dimostrare di non essere seconda a quella berlusconiana. Ci sarebbe - dicono fonti vicine al professore - un sondaggio che indicherebbe la formazione elettorale di Monti al 20 per cento. Un sondaggio abbastanza misterioso, dal momento che se Grillo viene accreditato di un 15 per cento, Bersani del 30 e Berlusconi si dice al 20, non si capisce bene dove finirebbe il 35 per cento degli accreditati al “non voto”. Altri sondaggi, più attendibili, danno al professore una forchetta tra l’otto e il dodici per cento, decisamente più credibile, pur se ugualmente generosa.
Il sospetto è che si stia pompando il professore oltre ogni ragionevole meccanismo propagandistico. Stare sui giornali a ricevere incenso quotidiano fornisce certo un aiuto significativo, ma la lettura politica più probabile è quella che vede Monti disputarsi i voti del centro-destra con Berlusconi e con la Lega, mentre la quota di consensi che può sottrarre al PD appare decisamente trascurabile.
Ora, considerando che tutto il centrodestra unito, da Storace fino a Pisanu, prima della disfatta politica del berlusconismo non arrivava al 38 per cento, sembra davvero un miracolo quello di accreditare oggi il centrodestra complessivamente inteso al 40 per cento e poi sommarci pure la Lega. Va bene l’affetto del Vaticano, ma i miracoli sono appunto tali e, com’è noto, non amano esercitarsi in politica.
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di Antonio Rei
Tutto è cominciato con una violazione a cui nessuno ha dato peso: la nomina a senatore a vita. Senza quell'incarico piovuto dal cielo oltre un anno fa, ieri Mario Monti non avrebbe potuto giocare a nascondino con il Parlamento e i partiti. Tutti si aspettavano che nella conferenza stampa di fine anno il Premier dimissionario facesse chiarezza su come intende gestire il suo futuro politico.
E la risposta è stata un capolavoro d'opportunismo: il suo nome non comparirà su alcuna lista, ma il Professore si è detto disponibile a guidare un altro Esecutivo, a patto che la nuova maggioranza condivida la sua beneamata Agenda. Insomma, Monti vuole tornare a Palazzo Chigi senza passare per il fastidioso ostacolo delle elezioni. Vuole essere investito della carica per acclamazione.
Ora, nominare per la seconda volta a capo del governo una persona che non ha avuto il coraggio di presentarsi alle elezioni non vuol dire forse svuotare di significato il voto degli italiani, o quantomeno umiliarlo? A quanto pare no. Monti si difende da questa accusa sempre allo stesso modo: "Non ho bisogno di candidarmi perché sono senatore a vita". Dunque il posto in Parlamento gli è garantito di qui al giorno del trapasso.
Sorvoliamo sull'ignoranza o la malafede di chi sostiene che ai senatori a vita non sia concesso di correre per le elezioni politiche (è semplicemente falso). Torniamo invece a quella nomina, il vero peccato originale. L'anno scorso, prima di accettare l'incarico e formare il suo governo tecnico, Monti pretese che il Capo dello Stato gli concedesse uno dei massimi onori previsti nel nostro ordinamento repubblicano. L'articolo 59 della Costituzione recita così: "È senatore di diritto e a vita, salvo rinunzia, chi è stato Presidente della Repubblica. Il Presidente della Repubblica può nominare senatori a vita cinque cittadini che hanno illustrato la Patria per altissimi meriti nel campo sociale, scientifico, artistico e letterario".
Com'è evidente, la nomina di Monti fu più che una forzatura. Ad oggi, tanto per fare un esempio, ne avrebbe maggior diritto Fabiola Gianotti, la fisica italiana che ha guidato uno degli esperimenti che hanno portato alla scoperta del bosone di Higgs. Quello che si dice un "merito altissimo", che però fin qui le è valso solo il quinto posto nella classifica stilata dal Time sulle persone dell'anno.
Nel novembre 2011, invece, Monti divenne senatore a vita non tanto per aver "illustrato la Patria" in qualità di professore d'economia e commissario europeo, ma in vista del successivo sbarco a Palazzo Chigi e quindi, inevitabilmente, in politica. Solo oggi tuttavia siamo in grado di capire il reale valore di quella carica, un vero e proprio salvacondotto attraverso le regole della democrazia.
Il Professore ha così schivato il pericolo delle urne, che molto probabilmente gli avrebbero riservato un risultato assai misero. Ma dopo tutto questo, riuscirà davvero a bissare il mandato da presidente del Consiglio? E' una domanda che turba i sonni del candidato favorito a Palazzo Chigi, Pier Luigi Bersani. Ieri il leader del Pd ha ricevuto da Monti il placet definitivo ("è più che credibile", ha detto il Professore) e al tempo stesso ha garantito che ascolterà ogni proposta in arrivo (Agenda compresa), ma ora "la parola deve tornare agli elettori". Frasi di rito che non sbrogliano il groviglio inestricabile delle alleanze.
Le certezze al momento sono davvero poche. Quello che resta del Pdl sembra inevitabilmente fuori dai giochi, soprattutto dopo le frecciate scagliate dal premier dimissionario contro Silvio Berlusconi e Angelino Alfano, il segretario (per modo di dire ), del PDL è stato netto: “Dopo le parole di oggi, con Mario Monti è preclusa ogni ipotesi di collaborazione”). Il vero problema è nell'altro schieramento. Se davvero pensa di dialogare con l'Udc e la pletora di listine montiane spuntate come funghi al centro, il Partito Democratico dovrà necessariamente rinnegare l'alleanza annunciata con Sel.
C'é da augurarsi che ciò non avvenga. Una sterzata da sinistra a destra causerebbe quasi certamente la spaccatura più grave mai vista all'interno di un partito in cui le diverse componenti non si sono mai amalgamate del tutto (ex-dc, ex-comunisti, liberal, ex-socialisti, ecc.). La leadership di Bersani si annuncia quindi difficilissima e la sua probabile maggioranza quanto mai precaria. In compenso, ormai sappiamo chi sarà il suo successore.
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di Rosa Ana De Santis
L’emergenza carceri per cui Pannella porta avanti la sua estenuante battaglia, raccogliendo solidarietà d’eloquio e poco altro, trova un ennesimo, assurdo stop ai tentativi di arginarne l’urgenza e l’indecenza. A dirlo con amarezza è proprio il Guardasigilli, il Ministro Severino, che sperava di concludere l’esperienza di governo portando a casa almeno il ddl sulle pene alternative, che invece viene bocciato al Senato.
La misura, che sarebbe stata sempre posta al vaglio dei giudici, avrebbe riguardato almeno 2.100 destinatari, ma il balletto dei numeri, spesso sottostimati dallo stesso DAP ai relatori in Commissione Giustizia, ha fatto passare il provvedimento come una soluzione di scarsa efficacia. Detenzione domiciliare o messa alla prova sarebbero state le alternative al carcere, ma non si sarebbe trattato di un diritto acquisito.
Eppure è stata fatta ad arte la mistificazione, secondo il Ministro, insinuando il dubbio che si trattasse di indulto o di un’amnistia permanente. Il risultato è uno stop che paralizza ogni possibile intervento delle Istituzioni per adeguare a criteri di civiltà e giustizia la situazione delle carceri italiane che ormai abbandonate al degrado non assolvono più a quella funzione rieducativa della pena, che specie per reati minori, è il primo obiettivo di giustizia di una democrazia moderna.
Le pene alternative infatti avrebbero riguardato le sanzioni detentivo fino a quattro anni con opzione della pena domiciliare o di lavori di utilità sociale. Il disegno di legge del governo, il 5019 bis, avrebbe di fatto esteso la platea di quanti già adesso possono avvalersi di queste alternative che ad oggi poteva riguardare solo chi avesse commesso reati previsti dal comma 5 dell’art. 73 (produzione, traffico e detenzione illecita di sostanze stupefacenti di lieve entità), o dagli articoli 186 comma 9-bis e 187 comma 8-bis del d.lgs.285/1992 del Nuovo codice della strada, per la guida in stato di ebbrezza.Il Ministro ha cercato di portare avanti questo disegno di legge mettendolo al riparo dalle strumentalizzazioni della campagna elettorale che invece, già iniziata, come sempre trova nella questione carceraria un tema eccellente per orchestrare retorica a caccia di voti sulla pelle dei detenuti, di cui poco importa all’opinione pubblica, e nessun reale impegno per risolvere l’emergenza.
Si farà un estremo tentativo entro fine legislatura e il Ministro ripartirà dal presidente Schifani e dai capigruppo al Senato. L’immobilismo è l’unico tratto comune degli ultimi governi sull’emergenza carceri, nonostante i rapporti “Antigone” e non solo abbiano continuato a testimoniare i numeri dell’emergenza: sovraffollamento, condizioni disumane, malattie e suicidi.
Un carcere che funziona come una gabbia e non come un luogo in cui allo sconto della pena si unisce, parallelamente, il percorso di recupero e reintegro nella società. Un carcere che apre le porte per i più poveri e i meno difesi: gli immigrati, i clandestini, i tossicodipendenti che possono rimanere a marcire come fossero i peggiori criminali. Peggiori tanto quanto chi uccide una donna con violenza, chi evade il fisco, chi ruba con i falsi in bilancio e manda sul lastrico migliaia di onesti cittadini.
E così mentre la legge diventa sempre meno uguale per tutti, le carceri lo sono già. Nel silenzio generale di un Paese che dimentica la sua legge madre, come l’ha definita Benigni in RAI, o che, miseramente, non la conosce.
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di Fabrizio Casari
Si può approvare o disapprovare il metodo utilizzato da Marco Pannella per richiamare l’attenzione sull’urgenza di una amnistia che svuoti almeno in parte le carceri italiane. La forma estrema dello sciopero della fame e della sete non può essere giudicata da chi mai vi si presterebbe. Il rapporto con il proprio corpo, con la propria vita e il grado di compenetrazione profonda con le proprie idee e i propri convincimenti non è sottoponibile a giudizi terzi.
Si può solo discutere se l’allarme lanciato dal leader radicale sia giusto o fuori luogo e se la soluzione che propone sia idonea o sbagliata. Ma quello su cui è difficile obiettare, è la fondatezza delle ragioni che l’anziano guerriero dei diritti civili sbatte con forza sul tavolo di un’agenda politica che ignora come sempre il dato drammatico dello stato delle nostre carceri.
Sono spaventosi i numeri che raccontano la vergogna del regime carcerario italiano. Pur essendo il nostro paese in una posizione intermedia per quanto riguarda il rapporto tra popolazione generale e detenuta, le condizioni nelle quali la pena viene scontata sono barbare. In 47.500 posti disponibili sono stipati 63.300 detenuti, accatastati in celle anguste e prive dello spazio vitale. Non spaventassero abbastanza queste cifre, si può aggiungere che sono già 60 nel 2012 i suicidi e otto detenuti su cento sono autori di atti di autolesionismo fisico. Negli ultimi cinque anni, i suicidi sono stati 306.
In un paese dove ci sono 9 milioni di giudizi pendenti tra penale e civile e che vede 170.000 prescrizioni all’anno, il governo dei tagli ha stabilito, per il 2013, un taglio di 22 milioni di euro di spese per il vitto e di 19 milioni di euro di spese per l’assistenza e la rieducazione dei detenuti. Quanto alle politiche carcerarie destinate a favorire sin dalla detenzione il reinserimento dei detenuti, come previsto dal nostro ordinamento, nel 2013 verranno tagliati 2,3 milioni di euro destinati alle “mercedi”, cioè i miseri salari che i detenuti percepiscono per i lavori svolti in carcere.
L’amnistia che propone Pannella, pur essendo il minimo risarcimento dovuto da parte di un Parlamento cieco e sordo, difficilmente vedrà la luce. Storicamente, Parlamento e Senato sono ammantati d’ipocrisia sulla materia, basti ricordare l’applauso che accolse Giovanni Paolo II quando pose con forza il problema all’attenzione dell’aula e lo scrollar di spalle che ne seguì quando il Pontefice fece ritorno in Vaticano. A maggior ragione, con la campagna elettorale alle porte, nessun partito vorrà prestare attenzione al tema. D’altra parte, loro si cautelano con l’estensione oltre ogni decenza del principio d’immunità, perché mai dovrebbero preoccuparsi di chi non ne usufruisce?
Ma indipendentemente dalle scarse possibilità che un provvedimento di amnistia veda la luce, non è forse la strada giusta e risolutrice quella che vede nei provvedimenti di clemenza la soluzione anche parziale e momentanea del problema.
Servirebbe agire su due altri fronti per trasformare una soluzione temporanea in una definitiva. In primo luogo dando via alla legge che istituisce le pene alternative al carcere, dal momento che il 20% dei detenuti è ancora in attesa del primo grado di giudizio e si arriva al 40% con chi si trova in carcere pur non essendo ancora stato condannato in via definitiva. In secondo luogo, si deve agire sul fronte politico, giacché solo la depenalizzazione di alcuni reati risolverà definitivamente il problema del sovraffollamento carcerario e dell’ingorgo atavico dei procedimenti giudiziari.
In Italia, purtroppo, diversamente dal resto del consorzio civile europeo, disponiamo di Fini, Bossi e Giovanardi. Questo inverecondo terzetto, causa autopromozione politica, si è reso protagonista di due leggi, sull’immigrazione e sugli stupefacenti, che hanno trasformato il diritto penale in un abuso continuato e la giustizia italiana nel carnevale.
L’Italia è l’unico paese europeo che imputa ai migranti il reato di immigrazione clandestina. Non facendo nessuna differenza tra lo scafista mercante di uomini e il migrante che attraversa disperato il mare, mette sullo stesso piano vittima e carnefice. Stesso discorso per quanto riguarda le norme in vigore sull’uso degli stupefacenti. Qui la follia è doppia: da un lato, indifferenti ai principi scientifici e ai protocolli sanitari vengono equiparate droghe leggere e pesanti: inoltre si equipara il possesso allo spaccio laddove la quantità è superiore ad un paio di spinelli. Si stabilisce arbitrariamente la dose prevista per “uso personale” e si prevedono pene pazzesche (da 6 a 26 anni) per chi detiene più di quattro grammi.
Ci si trova di fronte ad un mostro giuridico che offende il diritto e prima ancora il senso comune e che stride fortemente con il costume consolidato del paese. In barba a qualunque considerazione scientifica e sanitaria, indifferente a qualunque valutazione di opportunità, senso delle proporzioni e ragionevolezza, l’art.73 esprime una visione talebana ispirata dalla sottocultura della destra, che vede la libertà degli affari come orizzonte e la libertà degli individui come una minaccia. Non a caso lo stesso terzetto votò entusiasta l’abolizione del reato di falso in bilancio: chiaro quindi cosa li preoccupa e cosa li rasserena.
Ma anche sul piano del funzionamento della giustizia l’impatto delle norme talebane è pesantissimo. Perché rappresenta un costo enorme per la comunità; distrae dalla lotta al crimine l’attività della polizia giudiziaria, intasa il lavoro dei pubblici ministeri e dei tribunali e le conseguenze ricadono pesantemente anche sul sistema penitenziario. Quasi il 40% del totale dei detenuti, infatti, è imputato o condannato ai sensi dell'art. 73 del Testo Unico di disciplina degli stupefacenti, inerente l'acquisto, la ricezione e la detenzione di droghe.
Abolire la legge Fini-Bossi sul reato d’immigrazione clandestina e la legge Fini-Giovanardi sugli stupefacenti, riconsegnerebbe la questione carceraria e, con essa, quella più ampia della giustizia, ad una dimensione fisiologica dal punto di vista dei numeri. Ma è ovvio che i tempi di un superamento delle due leggi liberticide sarebbero lunghi, anche ove ci fosse la volontà politica. Nel frattempo, dunque, per affrontare l’emergenza, l’amnistia è l’unica soluzione possibile insieme all’approvazione rapida del disegno di legge sulle misure alternative al carcere.
Si dice che la libertà di un paese, così come il grado di civiltà, stia scritto sui muri nelle celle delle sue prigioni. Se questo è vero non c’è certo da rallegrarsi per lo stato di salute della nostra democrazia. I luoghi del disagio sociale e della marginalità risentono più di qualunque altra situazione dell’indifferenza di un sistema malato, autocentrato sull’ombelico dei potenti. Per questo va comunque ringraziato Pannella quando a nome di tutti noi, anche di chi non lo sa, accende i riflettori sull’ingiustizia disumana della giustizia. Occuparsi degli ultimi è un ottimo metodo per guardare cosa fanno i primi.