di Rosa Ana De Santis

La televisione ha immortalato Beppe Grillo per anni, prima di mandarlo in esilio, e gli ha permesso di costruire la fortuna e la popolarità che ha poi utilizzato per fondare un movimento e inaugurare una militanza politica di partito, oggi in co-brand con la Casaleggio associati. La tv lo ha seguito passo passo in ogni piazza, per arrivare all’ultimo show che lo ha visto attraversare con successo lo Stretto.

Quando però le telecamere non sono per lui, solo questo sembra essere il discrimine, il leader maximo del Movimento Cinque Stelle tira fuori chili di odio contro la televisione, confondendo il fenomeno del berlusconismo con la storia e anche il valore sociologico della rivoluzione televisiva.

Si è consumato su questo il fattaccio che ha visto insultata e isolata dai colleghi, all’interno del Movimento, la consigliera di Bologna, Federica Salsi per il suo intervento a Ballarò. Non una sfilata di moda alla Minetti o Amici di Maria de Filippi, ma una trasmissione di approfondimento e dibattito politico. Si può pensare tutto il male possibile di Ballarò ma, appunto, non era la trasmissione di Floris, bensì la TV in quanto tale l’oggetto dell’ira del comico genovese.

Dopo la scomunica di Grillo, confezionata con un esempio illuminante di maschilismo linguistico e l’accusa di avere nella TV il “punto G”, sono piovuti sulla Salsi insulti di ogni sorta dagli adepti e un isolamento consumatosi nella stessa aula del Consiglio comunale dove i colleghi, Marco Piazza e Massimo Bugani, si sono alzati dissociandosi dall’ordine del giorno PD- Sel di solidarietà per la consigliera sommersa di insulti feroci da parte dei grillini. I suoi adepti sul web, come l’intendenza, hanno seguito: e giù insulti sessisti e vaffanculo a gogò, persino velate minacce alla Salsi, rea di aver parlato di cose concrete e, par di capire, rea soprattutto di essere risultata convincente. La pece non era disponibile, pare.

Oltre al metodo squadrista, c’è un merito ridicolo. Sciocco pensare che rimanere fuori dalle ospitate televisive significhi non stare in televisione e Grillo questo lo sa benissimo. Pare proprio che si attacchi ad un cavillo filologico per non confessare la propria vanità di avere tutta l’esclusiva televisiva. Perché di interviste da dietro la scrivania lui ne ha rilasciate tante. Proprio perché conosce l’animale televisivo, sa come salirci e sa anche che dominarlo rende noti; l’idea che chiunque, o molti, possano essere quindi identificati con il suo movimento a prescindere da lui od oltre lui, pare farlo letteralmente impazzire.

La Salsi, che è persona sensata e non sprovveduta, accusa i suoi di avere pericolose derive da setta religiosa e di avere poco senso di democrazia. Grillo, del resto, non è nuovo nel proclamare veloci epurazioni. Il Movimento patisce quindi un altro strappo, forse questa volta ancor più insidioso per la propria unità.

Era accaduto già con il consigliere comunale a Ferrara, Valentino Tavolazzi, che aveva osato aprile un tavolo di discussione anche su quanto tenere Grillo dentro al simbolo. Liquidata la discussione come partitocrazia o come eresia, Grillo lo ha cacciato. Il Movimento ha mostrato quindi in ripetute occasioni di non conoscere alcuna prassi di confronto interno, ma di seguire in maniera verticistica e fiduciaria i proclami del fondatore.

Difficile credere che si possa essere garanti di democrazia all’esterno se se ne è privi, persino con orgoglio, dentro casa. Così funziona nelle Chiese, in Egitto ai tempi dei faraoni o sotto i fascismi. O, per essere più attuali, dentro Scientology, come dichiara la stessa consigliera epurata. A parte con Casaleggio, spin doctor e neo Aristotele di Alessandro Magno a cinque stelle, Grillo non pare consultarsi con alcuno quando decide cosa il Movimento debba fare o non fare nell’agone elettorale italiano, come del resto certifica il decalogo appena diffuso.

Forse è solo espressione autoritaria di narcisismo, dato che ad oggi e' l’unico che pur rifiutando  confronti (atteggiamento di Berlusconiana memoria), si è concesso dal comodo di casa lunghe interviste e monologhi. E’ proprio lui per il quale il decalogo, a quanto pare, sarà corredato di tutti gli emendamenti del caso.

Difficile, per chi mastica un po’ di storia, non riconoscere insidiose assonanze di altri italiani che prima di arrivare a marciare su Roma parlavano la stessa lingua dell’antipolitica, dei movimenti dal basso e del rinnovamento. Anche Mussolini, per essere più chiari, non è stato sempre il Duce della guerra, ma anche quello del manifesto sociale di San Sepolcro. E quando si agita il vaffanculo come sintesi, difficile non trovare similitudini con il tristemente noto “me ne frego”.

Un mito di lusso, infine, quello di pensare che la rete sia la nuova forma mistico-tecnologica di democrazia, addirittura sostitutiva dei mezzi di informazione che da sempre arrivano nelle case della gente. Aldilà del merito c’è una questione di evidenza spicciola che solo un popolo innamorato di un guru può decidere di ignorare per atto di fede.

Insomma nella triste vicenda di una consigliera, giovane e preparata, che va in televisione, convince ed è brava e per questo subisce ostracismo, c’è tutta la parte meno nobile del fenomeno politico Grillo. Predicatore e anti-machiavellico come un sacerdote. Arcangelo del rinnovamento e impastato di maschilismo a buon mercato (se la Salsi fosse stata meno carina nessuno l’avrebbe accusata di essere di facili costumi). Innamorato della rete, ma nostalgico della democrazia diretta ateniese. Il controsenso di chi vorrebbe portare nella democrazia moderna tutto il peggio di quello che eravamo.

di Carlo Musilli

Le chiamano già "liste pulite", ma il rischio è che si trasformino in uno specchietto per le allodole esattamente come la legge anticorruzione. Un modo come un altro per scaricare la pistola in mano alla cosiddetta antipolitica. Ben tre ministri sono al lavoro su un decreto legislativo che impedirà a chi è stato condannato in via definitiva ad almeno due anni di candidarsi a qualsiasi carica elettiva, di governo o nelle società partecipate. Il provvedimento dovrebbe essere esteso anche a chi ha patteggiato. Prevista anche la decadenza dell'incarico per chi viene condannato dopo esser stato eletto.

L'intenzione di Anna Maria Cancellieri (Interni), Paola Severino (Giustizia) e Filippo Patroni Griffi (Pubblica amministrazione) è di chiudere il testo entro la settimana. Scontato il placet di Palazzo Chigi. A quel punto, poiché si tratta di una delega attribuita al governo, le commissioni parlamentari avranno 60 giorni di tempo per fornire un parere, che l'Esecutivo sarà libero di accogliere o meno. Il decreto dovrebbe quindi diventare legge in tempo per le prossime elezioni: non solo le politiche di aprile, ma anche le regionali in Lazio, Lombardia e Molise, che probabilmente si terranno a fine gennaio.

Ci sono però diversi problemi che gettano un'ombra sulla credibilità del provvedimento. Soprattutto in un Paese con 100 parlamentari indagati, condannati o prescritti. Innanzitutto, l'eventuale incandidabilità non avrà affatto gli effetti di un'interdizione perpetua dai pubblici uffici, perché nella maggior parte dei casi sarà temporanea. Una sorta di purgatorio da determinare in base alla gravità del reato e alla pesantezza della condanna. Gli addetti ai lavori giurano che anche in caso di pena minima (due anni) sarà previsto il divieto di candidarsi per almeno una legislatura.

Si salta un giro, come a Monopoli. Ma che senso ha? La legislatura mancata sembra una penitenza un tantino irrisoria per chi ha la fedina sporca, a meno di non voler credere che il condannato sfrutti davvero gli anni a disposizione per dedicarsi all'ascesi. E ritornare d'incanto una persona degna di governare per gli altri.

C'è poi una questione spinosa, perché tira in ballo la Costituzione. Il Partito democratico vorrebbe l'incandidabilità anche per chi ha subito una condanna in primo grado. La nostra Carta però all'articolo 27 comma 2 afferma che "l'imputato non è considerato colpevole sino alla condanna definitiva". Come risolvere la contraddizione? Il segretario del Pd Pier Luigi Bersani ha avanzato una proposta: "Se ci sono dei limiti costituzionali, io credo che i partiti dovrebbero darsi loro una soglia di accesso e noi lo faremo. Su alcuni reati, come l'associazione mafiosa, tocca ai partiti mettere un limite alle candidature. Noi lo facciamo e lo faremo anche in presenza della sola condanna di primo grado".

Una rigida auto-selezione all'interno dei partiti sarebbe encomiabile. Quasi un sogno. Ma perché limitarla a colpe gravissime come l'associazione mafiosa? E' naturale che dal punto di vista del diritto i reati non siano tutti uguali. Non si capisce però per quale motivo, nel momento in cui i partiti scelgono le persone da candidare, debbano considerare trascurabili le violazioni di legge meno gravi.

Su questo fronte ci scontriamo anche con una delle riforme mancate da questo governo: quella per l'allungamento dei tempi di prescrizione. Con la legge Cirielli, varata nel 2005 sotto il governo di Silvio Berlusconi, la prescrizione è stata abbreviata notevolmente, incoraggiando i difensori a prender tempo per arrivare alla morte naturale del processo, anziché dimostrare l'innocenza dei propri assistiti. Concludere tutti i gradi del procedimento è diventata in molti casi un'impresa.

Ricordiamo che il proscioglimento per prescrizione non è assimilabile né all'assoluzione né alla condanna. E' più semplicemente una sconfitta per il sistema giudiziario e, naturalmente, la nuova legge non può impedire ai prescritti di candidarsi, a prescindere dal reato per il quale erano stati accusati. Ecco perché la legge Cirielli sgretola dalle fondamenta l'efficacia potenziale anche di questo provvedimento.

Ma non è finita. La delega prevede che l'incandidabilità sia prevista per tutti i reati "di grave allarme sociale" e contro la pubblica amministrazione. La corruzione non è citata esplicitamente, ma dovrebbe essere compresa. Rimarrebbero escluse invece le frodi fiscali e perfino la prostituzione minorile, uno dei reati per cui è sotto processo il Cavaliere.

Viene quindi da pensare che il decreto punti a una sorta di effetto placebo sull'opinione pubblica. Le liste dei candidati non saranno affatto rivoluzionate, né il provvedimento sembra avere la forza sufficiente per funzionare come deterrente nei confronti dei partiti. Se davvero si vuole fare pulizia, serve un aspirapolvere ben più potente.

di Rosa Ana De Santis

“Non entro nel merito di decisioni interne, ma non mi è piaciuta la mossa che è stata fatta”. Così il (teoricamente) ministro delle Infrastrutture ha commentato l’ultimo episodio di bullismo aziendale di Marchionne. Le parole del Ministro Passera, che ormai rimbalzano ovunque, testimoniano invece tutta l’anima di questo governo che traghetta con orgoglio il paese in un’era storica in cui la politica va percepita come uno spreco tout court, una vanità, un lusso al tempo della crisi. La cosiddetta “strigliata” mediatica del Ministro assomiglia piuttosto a una tolleranza codarda per la policy Marchionne a nome di tutto il governo tecnico. La smania di togliersi il cappello davanti alle imprese è il segno più evidente di come il governicchio sia nient’altro che una propaggine delle stesse.

Mentre Marchionne compie una scandalosa “rappresaglia” sui lavoratori, causa ordine del Tribunale di reintegrare i 19 della FIOM, la politica non può fare a meno di spendere due parole di commento su questa ingloriosa pagina di storia economica del Paese. Ormai Marchionne è scansato da tutti e persino un suo fan come Renzi, che ai tempi del referendum vedeva in lui la panacea della produttività nazionale a tasso ridotto di diritti e di sindacati, deve prendere le distanze. Non si può fare diversamente in aria di primarie e di mandato elettorale restituito finalmente ai cittadini.

I licenziamenti annunciati sono "politici": non lo dice la FIOM, ma la Fiat stessa, che in un comunicato afferma che i destinatari dei provvedimenti avevano esposto posizioni critiche nei confronti del piano industriale proposto dall'azienda. Dopo circa un quarto d'ora, qualcuno in Fiat  si é reso conto delle ricadute anche giudiziarie che avrebbe avuto produrre il comunicato ed é corso ai ripari, rilanciando un nuovo comunicato, stavolta depurato dalle reali motivazioni.

L’assenza totale di reazioni all'altezza della situazione, sostituite da dichiarazioni di maniera, è la fotografia che immortala la resa ufficiale della politica non alla tecnica, ma alla legge del più forte. E’ il funerale di quello che dovrebbe significare governare un paese e occupare le sedi delle Istituzioni, che non è proprio la stessa cosa che sedere nel cda di una banca. Il laconico messaggio del Ministro è stato aggravato dal tentativo di giustificare l’indifferenza del governo e quasi le scuse per aver espresso commenti, spiegando che si tratta di azioni e decisioni interne all’azienda e in virtù di questo, avrà voluto dire,  al di sopra e al di fuori di ogni possibile competenza e intervento di governo.

Come se le aziende fossero non soltanto extra legem (cosa smentita dai tribunali dove Marchionne ha perso) ma aree della vita pubblica estrinseche alle funzioni di controllo e di naturale competenza della politica. Facile - ovvio - se la politica non c’è più. Mai nella Prima Repubblica un rappresentante di governo avrebbe potuto togliersi il cappello in modo tanto plateale di fronte a un’azienda, senza perdere la testa.

Il Piano Fabbrica Italia di Marchionne è passato in cavalleria con la promessa di non chiudere gli impianti, anche se questo, come sta accadendo, significa null’altro che tenerli fermi e con i lavoratori in mobilità. Tra il modello capitalismo della nuova FIAT e il governo non c’è alcuna discontinuità. Marchionne potrebbe essere degno ministro del governo Monti e Passera essere quello che mette i sigilli a Pomigliano d’Arco.

La scienza della politica alla lezione numero uno recita che la politica ha il pieno diritto di vigilare su quando accade nel paese, dentro al quale risiedono anche le aziende. I diritti, le tutele sul lavoro, il business stesso sono voci sottese al rispetto imprescindibile della legge e della carta costituzionale e non c’è recinto aziendale che tenga di fronte a queste inalienabili priorità di principio la cui sovranità non è questione per i tecnici dell’economia, ma per la politica e le Istituzioni. La proprietà privata in Italia è sottesa al valore del bene comune ed è l’articolo 42 della Costituzione a recitarlo, non il manifesto della FIOM.

Ed è evidente che non è l’esubero di 19 posti di lavoro il problema da cui partire per il risanamento di un’azienda che registra ogni giorno un tracollo delle stime di fatturato: dai 104 miliardi di ricavi previsti per il 2014 a poco più di 88. L’evidenza di una misura discriminatoria, irragionevole e intimidatoria avrebbe dovuto esigere un intervento di ben altra natura da parte del governo. La resa della politica cui assistiamo nulla c’entra con gli sprechi del potere, evidentemente nocivi e pericolosi, che tanto vanno di moda nella vulgata dell’antipolitica.

Senza i guardiani del diritto e della legge il paese non soltanto perde la strada della giustizia, ma anche la capacità di arginare svolte eversive del tessuto sociale. Forse è questo quello che vedremo alle prossime elezioni, quando una società sempre più afflitta dall’iniquità andrà alla ricerca della politica e troverà un vuoto di pensiero da riempire, con la prima ricetta populista disponibile e il primo uomo utile della provvidenza e “non importa come”. Così come insegna la storia di tutte le più odiose tirannidi e la spirale dei corsi e dei ricorsi che rischia di non fare eccezioni per questo governo, inflessibile con gli ultimi e con il cappello in mano davanti ai suoi miti.

di Antonio Rei

Fra la selva di misure discusse negli ultimi giorni dal governo, ce ne sono due che la dicono lunga sulla squadra dei professori, sui rapporti di potere che li tengono in piedi e sul loro concetto distorto di equità sociale. Nel giro di qualche ora, i tecnici si sono prodotti in due abomini: il taglio dei fondi per l'assistenza sanitaria ai malati Sla e la proroga del progetto per il ponte di Messina.

Il primo, senz'altro il più odioso, è inserito in quella babele finanziaria che è la legge di stabilità. Tra un aumento dell'Iva e un taglio alle detrazioni, il governo ha stravolto un provvedimento sgradito ai partiti per ragioni elettorali. Questa deve esser stata davvero l'unica preoccupazione dei montiani, visto che nel restyling del testo hanno tagliato 631 milioni di euro dei 680 previsti per la legge Letta. Così facendo hanno messo a repentaglio il fondo usato dalle Regioni per garantire assistenza domiciliare ai malati di Sclerosi laterale amiotrofica. Una mostruosità etica prima ancora che politica e istituzionale.

Stiamo parlando di persone affette da una patologia degenerativa del sistema nervoso. Un male che impedisce progressivamente di camminare, parlare, deglutire, respirare. A queste persone e alle loro famiglie il governo sta negando l'aiuto dello Stato. Anzi, glielo sta togliendo.

Le cronache raccontano che il ministro piangente Elsa Fornero - titolare non solo del Lavoro, ma anche del Welfare, con delega alle politiche sociali - si sia fatta un altro bel piantarello in Consiglio dei ministri, supplicando il premier Mario Monti e il ministro dell'Economia Vittorio Grilli di evitare almeno questo taglio. A spalleggiarla anche il ministro della Salute, Renato Balduzzi. Ma non è servito a niente, se non ad evidenziare quanto conti chi soffre nei bilanci e quanto conti la Fornero nel governo.

Poco importa, infatti, che Fornero si sia impegnata personalmente a risolvere la questione. Ormai ha dimostrato di non contare nulla nel governo, a meno che non si tratti di ratificare e giustificare le decisioni altrui. Come sempre, tutto passa per il vaglio del Tesoro (ammesso e non concesso che Grilli goda di una qualche autonomia decisionale) e di Palazzo Chigi, il cui unico obiettivo è di spostare i soldi nel modo più conveniente per i poteri che li comandano.

L'andamento dell'economia e della finanza pubblica dimostra che non c'entrano nulla nemmeno le ragioni del bilancio. E in ogni caso non sarebbe sufficiente. Un governo con un minimo di umanità e di solidarietà sociale non abbandonerebbe i malati gravi nemmeno il giorno prima della bancarotta.

Ora, un Paese in cui mancano i soldi per assistere i cittadini non autosufficienti può mai pensare di impelagarsi nella costruzione dell'infrastruttura più folle d'Europa? A quanto pare sì. Nella stessa riunione di cui sopra, il Consiglio dei ministri ha deciso di "prorogare, per un periodo complessivo di circa due anni, i termini per l’approvazione del progetto definitivo del Ponte sullo stretto di Messina - si legge in una nota dell'Esecutivo - al fine di verificarne la fattibilità tecnica e la sussistenza delle effettive condizioni di bancabilità". Lo scorso 30 settembre il ministro dell'Ambiente (si fa per dire) Corrado Clini aveva garantito che l'opera sarebbe stata archiviata. Ma in fondo è solo un ministro, cosa volete che ne sappia?

E' bene sottolineare le differenze fra gli obiettivi e gli ordini di grandezza: oggi siamo certi di non poter trovare qualche milione per i malati di Sla, ma speriamo ancora di reperire nei prossimi due anni (non secoli) qualcosa come 8 miliardi e mezzo da destinare al ponte. Un suicidio dal punto di vista ambientale ed economico, con costi sociali indefinibili e ricadute occupazionali ancora da dimostrare.

La scelta di rinviare la decisione "è motivata dalla necessità di contenimento della spesa pubblica, vista anche la sfavorevole congiuntura economica internazionale - si legge ancora nella nota -, ed è in linea con la proposta della Commissione europea dell’ottobre 2011 di non includere più questo progetto nelle linee strategiche sui corridoi trans-europei. Solo tali opere, infatti, possono godere del co-finanziamento comunitario".

L'idea di unire Calabria e Sicilia fu partorita dalla cute trapiantata di Silvio Berlusconi, il quale poco più di un anno fa assicurava che il progetto sarebbe andato avanti. Ne sapeva più lui nel 2011 che Clini il mese scorso. Proprio sotto il governo del Cavaliere, nel 2005, il Consorzio di Imprese Eurolink si aggiudicò la magna gara d'appalto per la costruzione dell'obbrobrio. Ne fanno parte gruppi come Impregilo, Sacyr S.A., Società Italiana per Condotte d’Acqua  e la Cooperativa Muratori&Cementisti.

Nella lista non compare il nome di un'altra grande azienda italiana, ma i suoi manager possono continuare tranquillamente a fregarsi le mani. E forse dovremmo gioire anche noi. Se mai si farà, il ponte sarà anche Cosa nostra. 
 

di Antonio Rei

L'agenda Monti dimostra ogni giorno di più la sua logica fallimentare, ma secondo il presidente della Repubblica Giorgio Napolitano non potrà essere archiviata nemmeno dopo le elezioni politiche di aprile. Fra i vari "moniti scagliati" negli ultimi mesi dal Quirinale, quello arrivato la settimana scorsa su espressa richiesta del Premier non ha destato particolare clamore.

Eppure si è trattato di un violazione grave del ruolo che la nostra Costituzione assegna al Capo dello Stato. "Mi auguro non manchi il senso di responsabilità nell'Italia post elettorale - ha detto Napolitano durante una visita in Olanda - il resto però dipenderà dai partiti. In Italia, com'è inevitabile e salutare, si dovrà tener conto dell'importantissima esperienza portata avanti nell'ultimo anno dal governo Monti".

Con queste parole il Presidente ha alimentato una convinzione sbagliata ma assai diffusa: quella che vede nei tecnici dell'attuale esecutivo una sorta d'intellighenzia illuminata, guidata dal lume della competenza e del tutto libera da condizionamenti politici. Secondo i profeti del montismo, gli euroburocrati senza partito hanno ragione a prescindere dai risultati che ottengono. La loro strada va seguita con un abbandono quasi mistico, "com'è inevitabile e salutare".

Una posizione da respingere con forza per due ragioni macroscopiche. La prima è che il governo Monti non è affatto apolitico. A inizio mandato fu lo stesso Presidente del Consiglio a rivendicare la continuità con l'esecutivo del suo predecessore, Silvio Berlusconi, nell'ispirazione politico-economica. Certo, il Pdl è ancora il partito più rappresentato in Parlamento, e questo ha inciso nello snaturare provvedimenti nati con intenzioni migliori (l'ultimo esempio è la ridicola legge anticorruzione approvata dal Senato). Tuttavia, in nessuna circostanza il Professore ha smentito il suo orientamento destrorso: dalla politica fiscale a quella sul lavoro, passando per i rapporti con banche, industriali e sindacati.

Ecco perché l'appello di Napolitano va oltre i limiti che la Costituzione impone alla sua carica. All'articolo 87 della Carta si legge che "il Presidente della Repubblica è il capo dello Stato e rappresenta l'unità nazionale". Può inviare messaggi alle Camere, ma deve rimanere super partes: non gli è consentita alcuna intromissione nella scelta dell'indirizzo politico. Questa funzione spetta in primo luogo al governo, liberamente eletto dai cittadini. E gli elettori potrebbero benissimo ritenere che l'agenda Monti non sia affatto da portare avanti. La seconda ragione attiene a quello che i tecnici hanno effettivamente prodotto in quasi un anno di mandato. Ossia un disastro completo, da ogni punto vista: sociale, economico e persino della finanza pubblica.

La debacle più clamorosa è stata senz'altro quella del ministro del Lavoro, Elsa Fornero. Con la riforma della previdenza, la Professoressa torinese ha cancellato i diritti acquisiti da milioni di persone, cambiando in corsa le regole per ottenere la pensione. Così facendo ha creato addirittura una nuova categoria sociale, quella degli esodati, lavoratori che rischiano di ritrovarsi senza stipendio né assegno previdenziale. Nemmeno il numero delle persone coinvolte nel provvedimento è stato in grado di produrre il suo dicastero. Una mostruosità dovuta solo a negligenza, al pressappochismo e a una buona dose di ferocia sociale con cui è stata scritta la legge.

Quanto alla riforma de lavoro, l'obbrobrio più noto è la modifica all'articolo 18 dello Statuto dei lavoratori, che consente di non reintegrare le persone licenziate ingiustamente per motivi economici o disciplinari. Ora le imprese, nella maggior parte dei casi, se la cavano con un semplice indennizzo. Varie misure anche per i giovani, peccato che nessuna combatta seriamente il dramma del precariato (si pensi al geniale aumento dei giorni da lasciar passare fra un contratto e l'altro). A riprova dell’inutilità del provvedimento, nessun incremento dell’occupazione ha fatto seguito alla modifica dell’art.18. Che, va precisato, non era stato mai posto dalle imprese come primo terreno d’intervento per la ripresa dell’occupazione.

Precari umiliati e offesi anche nel mondo della scuola. La spending review  prevede di riutilizzare "in ambito provinciale" 10 mila insegnanti in esubero, che saranno impiegati per coprire posti vacanti e supplenze, ma in classi di concorso diverse dalla propria. Un'altra misura prevede l'impiego come lavoratori Ata (personale amministrativo, tecnico e ausiliario) di 3.765 docenti "inidonei all'insegnamento" per motivi di salute. Infine, è stato bandito un concorsone-truffa che rischia di far perdere il posto a lavoratori abilitati e già vincitori di un concorso passato. Insegnanti che spesso hanno retto la nostra scuola per decenni.

E i tagli ai costi della politica? Su questo capitolo il governo si è speso in tante promesse, salvo poi disattenderle. Quasi irridente la riduzione delle auto blu, peraltro non rispettata dalle amministrazioni. Caduti ovviamente nel dimenticatoio i propositi di ridurre numero e stipendio dei parlamentari.

Sembrerà strano a chi s'illude di fare sacrifici in vista di un bene superiore, ma da quando il Professore è entrato a Palazzo Chigi anche i conti dello Stato sono peggiorati.

Gli ultimi dati parlano chiaro. Eurostat ha comunicato che nel secondo trimestre del 2012 il debito pubblico italiano è schizzato al 126,1% del Pil (+4,4% su base annua). Fra gennaio e marzo aveva già raggiunto il picco del 123,7%. In termini assoluti il nostro debito è ancora il più alto d'Europa (un miliardo e 982 milioni, circa 72 milioni in più rispetto allo stesso periodo dell'anno scorso), mentre in rapporto al Pil è secondo solo a quello della Grecia (al 150,3%).

A fine settembre, nell'ultima nota d'aggiornamento al Def (Documento di economia e finanza), il governo ha rivisto in peggio tutte le sue stime: nel 2012 il debito salirà al 126,4% (123,4% nei calcoli di aprile), per arrivare poi al 127,1% nel 2013 e iniziare a scendere dall'anno successivo.

Quanto al rapporto deficit/Pil, sarà del 2,6% quest'anno (contro l’1,7% previsto) e dell’1,8% nel 2013 (ma solo ad aprile si parlava dello 0,5%). Con tanti saluti al fantomatico "pareggio di bilancio", a meno di non parlare in termini strutturali, ossia al netto del ciclo economico. E' questa la nuova modalità di valutazione introdotta dal Fiscal Compact europeo: una correzione per nulla chiara, volutamente ambigua a livello tecnico. L'unica certezza è che, nei fatti, il nostro bilancio non sarà per nulla in pareggio.

Sempre secondo il Def, il Pil viaggerà in recessione del 2,4% nel 2012 e dello 0,2% nel 2013 (le precedenti stime indicavano rispettivamente di -1,2% e +0,5%). Ancora più pessimista la Banca d'Italia, che nell'ultimo bollettino economico parla di un -0,7% per l'anno prossimo.

Veniamo ora alle reali condizioni di vita degli italiani. Stando ai dati Istat, il mese scorso le retribuzioni sono aumentate dell'1,4% su base annua. Un incremento molto inferiore a quello dell'inflazione (+3,2%), che ha portato la forbice prezzi-salari fino all'1,8%, con inevitabili ripercussioni negative sui consumi.

Ad agosto il tasso di disoccupazione è rimasto stabile per il terzo mese consecutivo al 10,7%, il dato più alto dal 2004, anno d'inizio delle serie storiche mensili Istat. Rispetto allo stesso mese del 2011, invece, si è registrato un aumento del 2,3%. Intanto, la produzione industriale è calata del 5,2% su base annua (dopo il -7,3% di luglio), mentre nella media dei primi otto mesi del 2012 il crollo è stato del 6,8%.

Di fronte a numeri simili, è ragionevole parlare del montismo come di un'esperienza positiva? E' davvero questa la scelta migliore, e anzi l'unica possibile anche per la prossima legislatura? Certo che no. Il sospetto è che del nostro debito pubblico non importi nulla a nessuno, men che meno all'Europa, il cui obiettivo è semplicemente ottenere il controllo politico dei singoli Stati. E fin qui l'unico beneficio portato da Monti all'Italia è stato proprio sul piano dei rapporti internazionali. Un risultato ottenuto più per appartenenza che per merito: in sostituzione dell'euro-giullare Berlusconi, i tecnocrati di Bruxelles hanno visto arrivare un uomo dalla lunga esperienza in Commissione europea, alla quale deve praticamente tutta la sua carriera. Uno di loro, insomma. Uno disposto ad obbedire senza fare domande.

 


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