di Fabrizio Casari

Si può approvare o disapprovare il metodo utilizzato da Marco Pannella per richiamare l’attenzione sull’urgenza di una amnistia che svuoti almeno in parte le carceri italiane. La forma estrema dello sciopero della fame e della sete non può essere giudicata da chi mai vi si presterebbe. Il rapporto con il proprio corpo, con la propria vita e il grado di compenetrazione profonda con le proprie idee e i propri convincimenti non è sottoponibile a giudizi terzi.

Si può solo discutere se l’allarme lanciato dal leader radicale sia giusto o fuori luogo e se la soluzione che propone sia idonea o sbagliata. Ma quello su cui è difficile obiettare, è la fondatezza delle ragioni che l’anziano guerriero dei diritti civili sbatte con forza sul tavolo di un’agenda politica che ignora come sempre il dato drammatico dello stato delle nostre carceri.

Sono spaventosi i numeri che raccontano la vergogna del regime carcerario italiano. Pur essendo il nostro paese in una posizione intermedia per quanto riguarda il rapporto tra popolazione generale e detenuta, le condizioni nelle quali la pena viene scontata sono barbare. In 47.500 posti disponibili sono stipati 63.300 detenuti, accatastati in celle anguste e prive dello spazio vitale. Non spaventassero abbastanza queste cifre, si può aggiungere che sono già 60 nel 2012 i suicidi e otto detenuti su cento sono autori di atti di autolesionismo fisico. Negli ultimi cinque anni, i suicidi sono stati 306.

In un paese dove ci sono 9 milioni di giudizi pendenti tra penale e civile e che vede 170.000 prescrizioni all’anno, il governo dei tagli ha stabilito, per il 2013, un taglio di 22 milioni di euro di spese per il vitto e di 19 milioni di euro di spese per l’assistenza e la rieducazione dei detenuti. Quanto alle politiche carcerarie destinate a favorire sin dalla detenzione il reinserimento dei detenuti, come previsto dal nostro ordinamento, nel 2013 verranno tagliati 2,3 milioni di euro destinati alle “mercedi”, cioè i miseri salari che i detenuti percepiscono per i lavori svolti in carcere.

L’amnistia che propone Pannella, pur essendo il minimo risarcimento dovuto da parte di un Parlamento cieco e sordo, difficilmente vedrà la luce. Storicamente, Parlamento e Senato sono ammantati  d’ipocrisia sulla materia, basti ricordare l’applauso che accolse Giovanni Paolo II quando pose con forza il problema all’attenzione dell’aula e lo scrollar di spalle che ne seguì quando il Pontefice fece ritorno in Vaticano. A maggior ragione, con la campagna elettorale alle porte, nessun partito vorrà prestare attenzione al tema. D’altra parte, loro si cautelano con l’estensione oltre ogni decenza del principio d’immunità, perché mai dovrebbero preoccuparsi di chi non ne usufruisce?

Ma indipendentemente dalle scarse possibilità che un provvedimento di amnistia veda la luce, non è forse la strada giusta e risolutrice quella che vede nei provvedimenti di clemenza la soluzione anche parziale e momentanea del problema.

Servirebbe agire su due altri fronti per trasformare una soluzione temporanea in una definitiva. In primo luogo dando via alla legge che istituisce le pene alternative al carcere, dal momento che il 20% dei detenuti è ancora in attesa del primo grado di giudizio e si arriva al 40% con chi si trova in carcere pur non essendo ancora stato condannato in via definitiva. In secondo luogo, si deve agire sul fronte politico, giacché solo la depenalizzazione di alcuni reati risolverà definitivamente il problema del sovraffollamento carcerario e dell’ingorgo atavico dei procedimenti giudiziari.

In Italia, purtroppo, diversamente dal resto del consorzio civile europeo, disponiamo di Fini, Bossi e Giovanardi. Questo inverecondo terzetto, causa autopromozione politica,  si è reso protagonista di due leggi, sull’immigrazione e sugli stupefacenti, che hanno trasformato il diritto penale in un abuso continuato e la giustizia italiana nel carnevale.

L’Italia è l’unico paese europeo che imputa ai migranti il reato di immigrazione clandestina. Non facendo nessuna differenza tra lo scafista mercante di uomini e il migrante che attraversa disperato il mare, mette sullo stesso piano vittima e carnefice. Stesso discorso per quanto riguarda le norme in vigore sull’uso degli stupefacenti. Qui la follia è doppia: da un lato, indifferenti ai principi scientifici e ai protocolli sanitari vengono equiparate droghe leggere e pesanti: inoltre si equipara il possesso allo spaccio laddove la quantità è superiore ad un paio di spinelli. Si stabilisce arbitrariamente la dose prevista per “uso personale” e si prevedono pene pazzesche (da 6 a 26 anni) per chi detiene più di quattro grammi.

Ci si trova di fronte ad un mostro giuridico che offende il diritto e prima ancora il senso comune e che stride fortemente con il costume consolidato del paese. In barba a qualunque considerazione scientifica e sanitaria, indifferente a qualunque valutazione di opportunità, senso delle proporzioni e ragionevolezza, l’art.73 esprime una visione talebana ispirata dalla sottocultura della destra, che vede la libertà degli affari come orizzonte e la libertà degli individui come una minaccia. Non a caso lo stesso terzetto votò entusiasta l’abolizione del reato di falso in bilancio: chiaro quindi cosa li preoccupa e cosa li rasserena.

Ma anche sul piano del funzionamento della giustizia l’impatto delle norme talebane è pesantissimo. Perché rappresenta un costo enorme per la comunità; distrae dalla lotta al crimine l’attività della polizia giudiziaria, intasa il lavoro dei pubblici ministeri e dei tribunali e le conseguenze ricadono pesantemente anche sul sistema penitenziario. Quasi il 40% del totale dei detenuti, infatti, è imputato o condannato ai sensi dell'art. 73 del Testo Unico di disciplina degli stupefacenti, inerente l'acquisto, la ricezione e la detenzione di droghe.

Abolire la legge Fini-Bossi sul reato d’immigrazione clandestina e la legge Fini-Giovanardi sugli stupefacenti, riconsegnerebbe la questione carceraria e, con essa, quella più ampia della giustizia, ad una dimensione fisiologica dal punto di vista dei numeri. Ma è ovvio che i tempi di un superamento delle due leggi liberticide sarebbero lunghi, anche ove ci fosse la volontà politica. Nel frattempo, dunque, per affrontare l’emergenza, l’amnistia è l’unica soluzione possibile insieme all’approvazione rapida del disegno di legge sulle misure alternative al carcere.

Si dice che la libertà di un paese, così come il grado di civiltà, stia scritto sui muri nelle celle delle sue prigioni. Se questo è vero non c’è certo da rallegrarsi per lo stato di salute della nostra democrazia. I luoghi del disagio sociale e della marginalità risentono più di qualunque altra situazione dell’indifferenza di un sistema malato, autocentrato sull’ombelico dei potenti. Per questo va comunque ringraziato Pannella quando a nome di tutti noi, anche di chi non lo sa, accende i riflettori sull’ingiustizia disumana della giustizia. Occuparsi degli ultimi è un ottimo metodo per guardare cosa fanno i primi.

 

di Fabrizio Casari

Sembra che siano tutti con il fiato sospeso in attesa che il professor Monti, premier per ancora qualche settimana, decida quale sarà il suo futuro. Il professore accarezza l’idea di rimanere a Palazzo Chigi più di qualunque altra prospettiva d’incarico, ma i sondaggi non confortano ambizioni e aspirazioni, mentre la sola scelta di mantenersi le mani libere gli ha già fatto perdere l’appoggio del suo sponsor istituzionale più importante, il presidente Napolitano.

Monti deciderà quale strada gli converrà percorrere sulla base delle richieste alle quali non potrà rifiutarsi di aderire. Le pressioni che gli piovono addosso dall’estero dicono molto su quali siano interlocutori e referenti del professore, mentre quelle che arrivano dall’interno indicano più che altro la disperazione politica nella quale versa la destra italiana.

La monocorde eurocrazia a guida tedesca, preoccupata di un eventuale arrivo della politica alla guida dell’Italia, ricorda a mo’ di minaccia il “contributo di Monti al risanamento dell’Italia”. Il fatto che il debito pubblico sia aumentato, che lo spread tra i titoli italiani e tedeschi sia rimasto altissimo e che l’economia del paese sia in piena recessione non riducono affatto, dal loro punto di vista, i meriti del professore. Anzi, le sue politiche ultraliberiste, che stroncano la ripresa italiana, sono utili proprio al rafforzamento della guidance tedesca sull’intero continente. In fondo, grazie a Monti le banche internazionali dispongono di un controllo totale sull’economia e sul sistema paese; insieme alla Grecia, oggi, l’Italia è la nazione europea che ha nelle vesti di Primo Ministro un fidato funzionario dei poteri forti, nazionali e stranieri.

Chiaro che un mandato elettorale che riportasse al governo la politica - e magari una politica riformatrice - metterebbe in discussione la funzione supina del Paese verso i centri della speculazione finanziaria. I quali dapprima hanno causato la crisi e poi, grazie appunto ai loro funzionari, sono riusciti non solo a non pagarla ma addirittura a lucrarci ulteriormente guadagnandoci due volte: la prima con le operazioni folli sui derivati, la seconda accollando sui bilanci pubblici le perdite dei loro azionisti. Qui si collocano le ragioni di tante pressioni: nel timore che un nuovo governo, pur mantenendo sotto controllo le politiche di spesa, acquisisca una diversa politica economica in Europa e fuori che potrebbe mettere in discussione la guidance tedesca del continente.

Ove Monti decidesse per sua tranquillità personale di non voler scendere in campo, riservandosi il ruolo di “tecnico” a disposizione del Paese, sa perfettamente che perderebbe la fiducia dei poteri forti europei, che fin qui gli è servita in tutta la sua carriera politica. Allo stesso tempo è però consapevole di quanto il sacrificio che gli viene chiesto sia duro: pensare di rispettare i patti scellerati che prima Berlusconi e poi lui hanno firmato con l’Europa dei banchieri significa governare un paese che rischia la definitiva disgregazione sociale. Uno per tutti, l’impegno al pareggio di bilancio nel 2013, già improponibile in condizioni di crescita, é del tutto impossibile in una fase recessiva che anche per il 2003 prevede un meno 1,5 di PIL. L’idea di partenza era quella di scaricare su chi lo avrebbe seguito i costi della sua devozione alla Merkel, non di assumerli su di sé in prima persona.

Nel frattempo, tocca ai suoi fidati cominciare a muovere pedine per vedere quali potrebbero essere le mosse per una lista Monti, sia essa con il premier espressamente candidato, sia come ispiratore dall’esterno. La sostanza cambierebbe poco, dunque quello che sembra chiaro è come la mossa di Riccardi ed altri sia un sondaggio esplorativo su incarico del professore per cercare di vedere nel concreto i margini di manovra possibili e gli spazi di una sua lista.

Un panorama diverso, ma non più nobile, è quello all’interno della destra italiana, dove anche solo allungando lo sguardo si nota lo stato di decomposizione permanente e la dispersione in mille rivoli del suo ceto politico, oltre che del suo blocco sociale. Il tentativo da parte di Berlusconi d’ingaggiare Monti nasce dalla consapevolezza di un’impossibile ritorno di fiamma degli italiani per le sue promesse.

Una destra ormai affatto credibile ha bisogno proprio della credibilità del professore per mettersi al riparo dalla memoria degli italiani, che ben ricorderanno venti anni di governo che hanno alimentato solo prostitute e faccendieri, rubagalline e corrotti di ogni risma senza che nemmeno una delle sue annunciate riforme per liberalizzare il paese sia stata realizzata. L'ultima trovata l'ha lanciata ieri da Vespa, quando ha proposto di rinviare il voto di due settimane, per evitare "fretta eccessiva".

Non si era mai sentito nella storia della Repubblica l'accomodamento delle elezioni ai tempi di uno dei candidati ed è un'ulteriore segno di difficoltà dovuto alle mosse e contromosse che agitano la partita tra Berlusconi e Monti. Il primo ha voluto lanciare un ultimatum e il professore lo lascia sospeso, costringendolo a cambiare versione almeno quattro volte al giorno sul cosa fare, con chi e con che sigla.

Il bilancio penoso del ventennio di governo della destra rende impossibile pensare di ripresentarsi agli italiani come se nulla fosse successo ma, allo stesso tempo, la rottura al suo interno e la debolezza al suo esterno la proiettano verso la debacle elettorale e spianano la strada alla vittoria del centrosinistra.

E’ qui, su quest’ultimo aspetto, che le pressioni internazionali e quelle interne s’incontrano; nel tentativo d’impedire che il centrosinistra conquisti il governo del paese, a maggior ragione dopo non essere stati in grado di modificare la legge elettorale. Con il porcellum, il partito di maggioranza relativa ottiene quella assoluta e, in questo modo, disporrà del margine numerico e politico per poter governare e riformare il paese senza nemmeno dover ricorrere al sostegno del centro.

Non a caso Bersani, nel colloquio di ieri con il Premier, ha avvertito che ove Monti scendesse direttamente nell’arena elettorale, “lo sconto sarebbe inevitabile”. Il PD, che ha dato oltre ogni immaginazione il suo sostegno al governo dei cosiddetti “tecnici”, si troverebbe però nella condizione di dover marcare una presa di distanza più netta da Monti e dalle sue inefficienze e proporre un’agenda di governo molto diversa da quella sulla quale il professore chiamerebbe al voto. Non tanto sull’operato del governo Monti, quanto sulle diverse ricette per accompagnare la ripresa economica e impedire la disgregazione sociale.

Che poi il centrosinistra abbia lo spessore necessario per modificare le linee guida economiche, anche volendo mantenere i saldi invariati del bilancio, è tutta un’altra storia. Ma è sufficiente il timore di vedere Bersani e Vendola varcare il portone di Palazzo Chigi a scatenare paure ed esercitare pressioni. Tanto per avere un’idea degli interessi che sono in ballo.

di Antonio Rei

Non gli conviene, lo sa benissimo. I numeri gli danno torto e la sua carriera rischia di implodere subito dopo aver toccato l'apice. Eppure, a questo punto, è addirittura probabile che Mario Monti si candidi alle prossime elezioni politiche. Se non per convinzione, quantomeno per obbedienza, visto che da settimane subisce pressioni indicibili dai suoi principali referenti: i tecnocrati europei e il gotha finanziario.

Non c'è dubbio che da Bruxelles e Francoforte arrivino i messaggi più espliciti. L'ultimo in ordine di tempo è stato quello di Mario Draghi: "Le riforme economiche danno frutto, anche se, nel breve termine, il costo per i cittadini è considerevole - ha detto ieri il presidente della Bce davanti al Parlamento europeo -. Ma le riforme sono il giusto corso e i governi devono perseverare. L'aggiustamento dei conti è visibile, ad esempio, guardando all'aumento dell'export in Italia, Spagna, Irlanda e Portogallo". Inevitabile leggere in queste parole un invito al nostro Paese, chiamato a proseguire lungo la strada tracciata del Professore.

Sempre ieri, un'altra pacca sulla spalla del Premier è arrivata dalla Commissione europea, che ha dato il via libera alla ricapitalizzazione del Monte dei Paschi di Siena tramite 3,9 miliardi di euro in "Monti bond". Aiuti di Stato, per intenderci, che solitamente a Bruxelles non vedono affatto di buon occhio.

Fin qui gli ultimi segnali della comunità internazionale, che si sommano alle esortazioni sfacciate arrivate nei giorni scorsi dai più influenti leader europei. Su tutti la cancelliera tedesca, Angela Merkel, che ha lasciato intendere chiaramente la sua predilezione per Monti. Ma non basta: il Partito popolare europeo si è prodotto in una serie di anatemi anti-berlusconiani per sottolineare il contrasto con la presunta lungimiranza del Professore, mentre l'ambasciatore Usa in Italia ha composto l'ennesimo panegirico del montismo.

In tutti questi casi l'obiettivo più ovvio è evitare che in Italia prenda il potere un governo credibile di centrosinistra, il quale rischierebbe d'indebolire il teorema del turbomonetarismo all'europea, danneggiando i signori della speculazione.

In questo turbine di smancerie, per il momento, il diretto interessato non si sbilancia. A ben vedere, tuttavia, anche dal fronte interno arrivano dei segnali che fanno pensare a una prossima discesa in campo del Professore. Ieri il governo ha presentato in commissione Bilancio al Senato un subemendamento per rinviare da gennaio ad aprile il pagamento della prima rata della Tares, la nuova (pesante) tassa sui rifiuti e su altri servizi comunali. Si tratta della correzione a un emendamento che a sua volta era stato presentato dall'Esecutivo un paio di giorni fa.

E' possibile che ci siano ragioni tecniche (sembra che ancora non sia affatto chiaro come calcolare il prelievo), ma è anche verosimile che lo slittamento sia riconducibile a motivi elettorali. Con il ricordo dell'Imu ancora fresco, come potrebbe il super-tecnico candidarsi alle elezioni mentre infligge l'ennesima stangata fiscale ai suoi connazionali?

C'è poi un'altra squadra di burattinai da tenere in considerazione. Oltre all'Europa, tifano per Monti anche i grandi poteri finanziari italiani. Parliamo di quello che una volta era conosciuto come "il salotto buono", riunito intorno al tavolo della Mediobanca di Enrico Cuccia. Grandi istituti di credito, grandi assicurazioni, grandi fondi d'investimento. Un intero universo che dopo Tangentopoli ha perso il suo naturale riferimento politico (la Dc), senza mai riuscire a far pace con la volgarità paesana del berlusconismo. Basti ricordare la guerra aperta dell'avvocato Agnelli contro l'ingresso del Cavaliere nel capitale di Mediobanca.

Sarà forse una speranza velleitaria, ma questi feudi oggi sognano che il Professore riesca a creare intorno a sé il nuovo, grande partito della borghesia italiana. Una destra liberista, europeista, fintamente cattolica e progressista, all'occorrenza trasformista. Una destra che finalmente se ne frega della Procura di Milano e tira dritto lungo la sua strada speculativa.

E' possibile che Monti riesca a resistere a questo genere di pressioni? Se si limitasse a valutare pro e contro, il Professore farebbe meglio a puntare sul Quirinale. Ma l'ambizione personale mal si concilia con una carica ingessata dalle strettezze della Costituzione. E allora ecco che d'improvviso si favoleggia di un nuovo soggetto politico: non certo il fantomatico "rassemblement" di cui vaneggia Berlusconi, ma una formazione che occuperebbe lo spazio lasciato vuoto dall'inconsistenza di Montezemolo.

Una visione realistica assegna a un partito del genere pochi voti (il 10%, a essere generosi). Ma in politica non è da sottovalutare l'effetto domino: cosa farebbero a quel punto i pidiellini scontenti? Meloni, Crosetto e La Russa stanno già abbandonando la nave e il Cavaliere potrebbe ritrovarsi ben presto molto più isolato di quanto temesse.

Un discorso speculare vale per il centrosinistra: Bersani accarezza in modo ambiguo una possibile alleanza con l'Udc, ma questa porterebbe certamente all'abbandono di Sel e probabilmente anche a una guerra civile nel partito. Casini non è un'alternativa presentabile per chi si ritiene di sinistra. Monti, invece... 

 

 

 

di Giovanni Gnazzi

Tra domande legittime e reazioni rabbiose, tra dubbi sulle procedure e rifiuti di rispondere, tra sospetti di manipolazione di liste e allungamento di mani sul denaro che verrà, le parlamentarie grilline sono state una vera debacle per il M5S. Dovevano essere la risposta democratica alle primarie del PD, una sorta di messa in rete di un diverso modo di scegliere candidati e liste ma in realtà si sono rivelate soprattutto un disastro d’immagine.

Le proteste, che hanno assunto dimensioni numeriche non indifferenti, lungi dal produrre una discussione in rete sulle procedure e come garantire la trasparenza delle operazioni di acquisizione, selezione e raccolta voti dei candidati, hanno scatenato le ormai quotidiane ire di Grillo che trova in ogni domanda ed ogni richiesta l’occasione per dire a qualcuno di andarsene.

Molti lo hanno già fatto e molti altri lo faranno, scambiare la rete per i vialoni di Pyongyang non era l’ambizione di partenza. Proprio oggi ha espulso Favia e Salsi, proseguendo così le epurazioni, ormai numericamente più significative delle nuove adesioni.

E quasi a voler certificare l’ormai cresciuta distanza tra il comico isterico e i suoi adepti, c’è da segnalare come sia proprio nei numeri che le parlamentarie hanno fatto flop. Secondo calcoli fatti in rete dagli stessi esponenti del Movimento 5 stelle, trentadue mila sarebbero i voti espressi: se così fosse si tratterebbe di un numero decisamente basso, un sostanziale 15% degli iscritti al M5S, giacché lo stesso Grillo aveva dichiarato, lo scorso giugno, essere duecentomila.

La difficoltà per l’accessibilità alla candidatura di alcuni non proprio nelle corde del comico e la farraginosità delle credenziali che si sarebbero dovute esporre per risultare candidabili ha di gran lunga superato sia la cripticità delle regole in casa PD sia anche il senso del ridicolo genericamente inteso.

A chi ha fatto notare come il suffragio universale dovrebbe valere anche in Rete e come l’esiguità del numero dei voti non consentirebbe di giudicare l’operazione riuscita, e chiede perché mai non ci sono dati ufficiali e perché nessun ente terzo ha certificato i numeri, Grillo risponde sul suo blog che “chi all’interno del movimento fa domande su domande e si pone problemi della democrazia del movimento va fuori dalle palle!”. Sobrio e convincente.

L’impressione è che il movimento 5 stelle stia perdendo molto di quel fascino di rottura democratica dei riti anacronistici della politica che aveva rappresentato. Proprio la partecipazione collettiva dove ogni testa valeva un voto e dove ognuno poteva riconoscersi nel rappresentarsi dal basso, senza padroni e senza guinzagli, pare ormai essere diventata un’immagine non più rispondente alla realtà.

Se in qualche modo era inevitabile lo sgretolamento di certezze fideistiche sull’uomo della provvidenza che tutto ha capito e che tutto cambierà, c’era però lo spazio per rappresentare l’Italia dei diritti civili e della buona amministrazione, una sorta di laboratorio permanente di organizzazione dal basso che punta verso l’alto, sovvertendo bruscamente lo schema della politica verticistica dei partiti.

Invece quello che viene fuori dall’atteggiamento di Grillo è un impasto di cesarismo, di cultura proprietaria, di volgarità e di livore che sembrano indicare più la paura di perdere il bottino all’orizzonte che non quella di garantire democrazia e trasparenza per cambiare il paese. Se degli altri non tolleri le opinioni, è fuori luogo chiedergli l’adesione.

Perché puoi essere in Rete o a terra, in cielo o per mare, ma la garanzia del diritto di parola e di dissenso, le procedure e le regole per la gestione della vita interna di una organizzazione e persino la collegialità degli organi di autodisciplina interna sono le stesse e tutte a tutela delle potenziali vittime di abusi di potere. Dove il capriccio del sovrano si sostituisce invece al giudizio fondato e trasparente, c’è solo l’arbitrio del padrone.

Peccato. Per un movimento che (pure in realtà ben lontano dalle palle mediatiche dei sondaggi a due cifre) poteva rappresentare una ventata di nuovo in termini di partecipazione e approccio alla politica per decine di migliaia di persone, c’è ora il rischio che possa fare una fine ingloriosa, auto avvitandosi nell’arroccamento proprietario e dittatoriale del comico genovese e del suo socio Casaleggio.

Le critiche che lo indicano come un epigono del Duce peccano di senso delle proporzioni e di carenza di letture di libri di storia: la grandezza storica di una tragedia infame non pare equiparabile alle isterìe di un comico e i suoi critici non sembrano indossare i panni dei partigiani. Semmai proprio lui, il Grillo furioso, che spiegava ai suoi quanto fosse l’unico in gradi di fare Tv perché l’unico a conoscere “il mostro”, dovrebbe sapere, da uomo di spettacolo, quando il tormentone insopportabile del “One man Show” rischia solo di accellerare la calata del sipario. Senza applausi o richieste di bis.


di Fabrizio Casari

Monti candidato? Berlusconi che si candida e si scandida nel giro di poche ore? Il grande centro che a giorni alterni c’è o scompare? Come una maionese impazzita, la politica italiana stenta a trovare un punto di partenza e uno d’arrivo per confezionare proposte e programmi in vista del voto. Non che ci sia molto di nuovo da dire, dal momento che i fatti sembrano lasciare meno margine che in passato alle parole, però almeno il tentativo di dire cose si vuole, con chi ci si schiera e per ottenere cosa, andrebbe fatto.

Proviamo a dare uno scorcio veloce al panorama, partendo da Monti, oggettivamente ago della bilancia nella formazione degli schieramenti di centro-destra. Le sue dimissioni annunciate mettono tutti in una situazione di difficoltà, giacché le diverse opzioni - a destra come anche a sinistra - si erano costituite su uno scenario che prevedeva il premier scivolare verso il ritorno alla Bocconi o, al limite, per qualche incarico futuro. In questa seconda ipotesi le varianti erano sostanzialmente due: Quirinale o Ministro dell’Economia nel prossimo governo. La seconda sembra una diminutio vista la superbia del personaggio, mentre la prima appare decisamente troppo.

Il Colle è ancora la sede più alta della nostra sovranità nazionale, non adatto quindi a chi ha dimostrato di essere socio di troppe sigle e tutte estere per definirlo uomo di garanzia costituzionale. Inoltre l’avversione per la politica e i suoi strumenti - sindacati, partiti e parlamento - davvero non consente d’immaginare l’ex-advisor di Goldman Sachs a garante della nostra indipendenza nazionale e della regolarità del processo democratico, missione principale del Presidente della Repubblica. A parte ciò, Giuliano Amato – ma soprattutto Romano Prodi per restare nell’angusto ma indicativo terreno degli ex-premier -  rivendicherebbero con buone ragioni una loro candidatura al Quirinale, avendo in particolare Prodi dei titoli di merito indiscutibili, quali aver risanato i conti del Paese e consentito di entrare nell’euro senza la benché minima macelleria sociale così invece abbondantemente presente nelle politiche dei professori che hanno portato il paese in recessione ed aumentato il debito pubblico.

A chiedere al premier di entrare in campo con una sua lista ci sono Confindustria, Vaticano e comunità degli affari a trazione tedesca in Europa, che vedono al momento sia l’affermazione di Bersani che il ritorno del cavaliere come pericoli, pur essendo per Berlusconi l’allarme maggiore. A costoro si aggiungono Casini, Montezemolo, Fini e i titoli di coda del filmino tipo Lanzillotta e Rutelli. Si potrebbe candidare Monti? Certo che sì, basta solo che si dimetta da senatore a vita.

Ma non è una scelta facile quella che dovrà prendere il professore: un conto è godere di nomina presidenziale e di maggioranza bulgara per governare, un altro è presentarsi ai milioni di italiani che andranno alle urne e saggiare ciò che pensano del suo operato. Difficile che il suo sovrano disprezzo per chiunque non sieda nel board di una banca possa piegarlo alle ragioni dell’inevitabile arena politica e, stando ai sondaggi che girano (danno la sua lista al massimo tra il sei e l’otto per cento), non sarebbe certo un successone. A passare da uomo della provvidenza a uomo del sei per cento ci si mette un attimo.

Nel frattempo, però, la sola minaccia che si presenti con una sua lista mette in angoscia per motivi diversi sia Bersani che Berlusconi. Bersani si troverebbe a dover competere per la vittoria con chi continua a dire tre volte al giorno aver fatto un ottimo lavoro. E allora, se Monti ha fatto un ottimo lavoro e potrebbe continuarlo, perché si dovrebbe cambiare con Bersani?

Ovvio quindi che il segretario del PD proverà ad insistere perché Monti non si presenti con una sua lista, offrendogli magari in cambio l’ascesa al Colle. Monti potrebbe rifiutare o accettare, si tratterà di vedere quale peso avrà la volontà degli oligarchi europei di continuare a tenere l’Italia a loro disposizione. E, persino, potrebbe scegliere una strada oggi ed essere pronto a rimangiarsi tutto quando lo reputasse conveniente. Bersani, che lo conosce, sa cosa rischia. C’è da dire però che se Monti formerà la sua lista, Casini ne sarà tra i promotori; almeno in questo l’alternativa tra lui e Vendola nella coalizione di centrosinistra potrebbe trovare soluzione.

Alla sinistra dell’asse PD-SEL c’è poco: la pur interessante proposta degli arancioni, guidata da De Magistris, Di Pietro e Ferrero (con Ingroia sullo sfondo), è suggestiva ma poco convincente, sia perché un partito che vede tre ex-pm alla guida non appare immediatamente scevro da una lettura particolare della scena politica, sia perché il grande assente - la FIOM - continua a rimanere defilata sullo sfondo. Ad ogni modo non è un mese prima del voto che si costruiscono aggregazioni politiche: in questo modo si fanno cartelli elettorali, che sono cose diverse e, spesso, destinate a raccogliere poca gloria, come la precedente esperienza Arcobaleno ha testimoniato. In queste condizioni la soglia di sbarramento è un ostacolo difficile da superare. L’unica possibilità sarebbe quella di accordarsi per un appoggio alla coalizione del centrosinistra, ma purtroppo non sembra, al momento, uno scenario praticabile per gli uni e per gli altri.

L’incognita Monti ha però soprattutto nel centrodestra la possibilità di rovesciare il tavolo. Berlusconi ha di che preoccuparsi per una eventuale lista del Premier. Sceso nell’agone per poter fronteggiare i processi che ancora lo attendono e per poter immettere benzina fresca nei serbatoi a secco delle sue aziende, il cavaliere di Arcore pensava di lanciare la sua sfida solo a Bersani, riproponendo la storiella della “lotta al comunismo” per vedere se è come la musica melodica, che va sempre bene.

La scesa in campo di Monti lo obbligherebbe a cambiare i piani, giacché la divisione ulteriore del bacino elettorale della destra non farebbe che avvantaggiare ulteriormente il PD e SEL, che potrebbero agevolmente fare a meno di Casini. Sempre che l'alleanza regga: se Bersani continua a riproporre l'agenda Monti, c'é il rischio che la pagina di sinistra si strappi.

I sondaggi ultimi assegnano a Berlusconi tra l’8 e il 15 per cento, in dipendenza dall’alleanza con la Lega e gli ex-AN oppure no. Del resto la diaspora quotidiana dei suoi che ogni mattina propongono un nuovo raggruppamento, certo non aumenta compattezza e coesione e non sarà certo un’operazione di maquillage sul nome che invertirà l’andazzo. Con la Lega che conferma il suo no all’accordo elettorale con Berlusconi candidato, può scordarsi di vincere anche solo in una circoscrizione al Nord e l’alleanza con l’eventuale “Centrodestra italiano” di La Russa e Gasparri avrebbe un’influenza elettorale minima, coerente con lo spessore intellettuale dei due ispiratori.

Ove quindi Monti si presentasse, Berlusconi troverebbe lo spazio politico al centro e il sostegno dei poteri forti del paese schierato con il professore e non avrebbe perciò un bacino elettorale da occupare. D’altra parte, Vaticano, Confindustria, Tv e giornali che oggi appoggiano Monti, sono esattamente gli stessi che gridano contro la ricandidatura di Berlusconi (dopo averlo però sostenuto, alcuni di loro, per vent’anni).

Il cavaliere di Arcore, che non combatte mai battaglie che teme di perdere, pur se in grado di dare il meglio di sé nelle campagne elettorali, che si caratterizzano per le promesse irrealizzabili, troverebbe ostacoli seri e, vista l'impossibilità di vincere, potrebbe decidere di ritirarsi. Lo farebbe raccontando che affronta il sacrificio per impedire che i moderati divisi offrano il governo a Bersani, ma in realtà affiderebbe a Monti il ruolo di garante dei suoi interessi in cambio del ritiro dalla competizione e dell’appoggio mediatico ed elettorale che gli fornirebbe.

Insomma un quadro ancora confuso e suscettibile di cambiamenti repentini. L’aspetto più interessante è che dovendo andare a votare con il Porcellum, chi prende abbastanza  avrà tutto. Voleranno scimitarre e si riempiranno i calici di veleni per uno di quei mille scranni circa. Meglio però andare in strada a offrire lezioni di memoria a chi non ce l’ha allenata piuttosto che rimanere sul divano a godersi lo spettacolo.


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