di Carlo Musilli

Il ritorno in campo di Silvio Berlusconi non ha un prezzo solo per Angelino Alfano. Mentre il delfino abbandona ogni velleità di leadership (reale o apparente che fosse), la notizia che il Cavaliere intende ricandidarsi alla poltrona di premier nel 2013 si riflette inevitabilmente sul mercato. E rischia di aggravare l'instabilità dell'Italia proprio in uno dei momenti più delicati e pericolosi per il governo Monti.

La partita politica si gioca sul terreno della campagna elettorale. Sono già iniziate le scommesse su quali colpi di scena arriveranno stavolta da Arcore. In ballo non c'è solamente la tenuta dell'attuale esecutivo: il vero nodo è quello delle future alleanze. Gli ultimi sondaggi danno in testa il Pd, poco sopra il 25%, seguito dal Pdl con il 20% circa. Il Movimento Cinque Stelle si attesta intorno al 15%, l'Udc al 7% e la Lega al 5,5%. In uno scenario simile, i pidiellini sono costretti a trovare qualcuno che li sostenga. Pier Ferdinando Casini ha già chiarito che la vecchia alleanza con i berluscones è sepolta, sentenziando che "i moderati sono altrove". Il leader dell'Udc è evidentemente più interessato a costruire un ponte verso il Pd.

A Berlusconi non rimane quindi che tentare di ricucire lo strappo con la Lega. Per navigare in questa direzione, il Cavaliere potrebbe puntare su una qualche forma di propaganda anti-euro. Ed è proprio questo a spaventare i mercati. Non più tardi di un mese fa, il leader del Pdl aveva accennato all'ipotesi che l'Italia uscisse dalla moneta unica. Lo aveva fatto a modo suo, tra il serio e il faceto. Ma era bastato a creare scompiglio, strizzando l'occhio a tutta l'opinione pubblica esasperata dall'austerity montiana e dalle imposizioni di Bruxelles. Domenica Alfano è però stato costretto a chiarire che, malgrado l'euro "abbia un problema enorme", la crisi non si risolve con l'uscita, ma con "maggiori poteri alla Bce".

Intanto dalla Lega arrivano segnali poco incoraggianti per il Pdl. Matteo Salvini, il segretario lombardo, non ha dubbi: "Silvio è il vecchio, se corre ancora lo fa senza la Lega". Roberto Maroni non lo smentisce, ma si produce in un'analisi ben più sfumata. Per il neo segretario del Carroccio, il nuovo passo avanti di Berlusconi non è una scelta definitiva, perché "se davvero avesse avuto in mente di ricandidarsi, l'avrebbe fatto a settembre, non adesso. In ogni caso - conclude Maroni - non sono affatto preoccupato. Le alleanze sono l'ultimo dei miei problemi".

Tutto questo surplus d'incertezza, oltre ad offuscare le prospettive per il futuro, arriva anche a pochi giorni da agosto, mese in cui i mercati sono particolarmente volatili e la speculazione si fa di solito molto più vorace. Consapevoli del pericolo in agguato, all'Eurogruppo del prossimo 20 luglio i leader europei potrebbero dare il via libera non solo allo scudo anti-spread, ma anche a una sorta di cabina di regia permanente per interventi d'urgenza contro gli speculatori.

Fin qui, la prima bastonata estiva all'Italia è arrivata però da Moody's. Venerdì l'agenzia ha abbassato di due livelli la valutazione sui nostri titoli di Stato (scesa da A3 a Baa2, solo un paio di gradini sopra la "spazzatura") e nel motivare il downgrade ha messo in primo piano proprio il fattore politico. Dalle elezioni della prossima primavera - dicono gli analisti - potrebbe emergere un quadro troppo frammentato per creare una maggioranza realmente in grado di governare.

Su Moody's si è abbattuto come sempre un diluvio di risposte al veleno. Gli attacchi sono arrivati non solo dall'Italia (il ministro Passera ha parlato di "giudizio ingiustificato e fuorviante"), ma anche da Bruxelles, che ha espresso dubbi sul "timing inappropriato" del declassamento, arrivato guarda caso a poche ore da un'importante asta di Btp.

Per fortuna le preoccupazioni dell'agenzia non hanno condizionato il collocamento. Il Tesoro ha venduto titoli con scadenza a luglio 2015 per complessivi 3,5 miliardi, massimo ammontare previsto, e i tassi sono scesi dal 5,30% al 4,65%. Insomma, è andata bene, ma soprattutto perché ormai i compratori alle aste sono quasi tutti domestici.

Lo si intuisce dal contrasto con lo spread, che rimane altissimo: intorno ai 480 punti. Non poi così lontano dal massimo storico di 575 toccato lo scorso novembre. E allora qual è la differenza fondamentale da quando Berlusconi non è più premier? "La curva dei rendimenti dei nostri titoli è completamente diversa - ha spiegato il neo ministro dell'Economia, Vittorio Grilli, in un'intervista al direttore del Corriere della Sera – aggiungendo che prima, quelli a breve erano superiori a quelli a lungo termine, segno che per l'Italia l'accesso ai mercati si stava chiudendo. Oggi accade il contrario. I tassi a breve sono più bassi di quelli a lunga. Ancora troppo elevati, però". E se non calano è colpa anche della politica.

 

di Rosa Ana De Santis

L’Assemblea nazionale del Partito Democratico si è trasformata in una bagarre e ancora una volta il partito di riferimento della sinistra italiana ha mostrato tutta l’inconsistenza della propria identità. Dopo gli ammiccamenti a Monti e alle scellerate manovre di risanamento, già sufficienti a sollevare perplessità sulla collocazione politica e culturale del partito, persino sui diritti civili il Pd riesce a non esprimere una posizione unanime e autenticamente progressista, riciclando il peggiore conservatorismo democristiano. Si spacca in due, tra cattolici e non sulla questione del matrimonio gay.

La presidenza dell'assemblea infatti ha deciso di non sottoporre al voto un ordine del giorno sui matrimoni omosessuali perchè precluso da un documento (già votato) messo a punto dalla commissione per i diritti del Pd in cui si parla di diritti individuali, ma non si vuole parlare di unioni civili. Il segretario Bersani ha un gran da fare a spiegare ad una platea indignata che i cambiamenti sociali sono lente evoluzioni, che il Pd sta lavorando con serietà alla materia e che siamo all’inizio del percorso.

Le defezioni e le minacce di abbandonare il partito aumentano. La Bindi, presidente dell’Assemblea, non ha altro da dire se dispiacersi per quanti decidessero di portare avanti determinate battaglie in partiti minoritari. I matrimoni gay non sono previsti dalla Costituzione e questa basterebbe a spiegarne l’assenza nel documento finale messo ai voti. E invece la scelta di non “metterci la faccia”, di non portare all’attenzione del proprio elettorato e delle forze politiche una proposta chiara in questa direzione sembra essere piuttosto un’autentica presa di posizione.

Quella dei cattolici facenti capo all’area della Bindi che da sempre tengono in scacco il Pd impedendo una emancipazione profonda del partito dai retaggi cattolici e allontanandolo pericolosamente dalle forze politiche progressiste europee. E così con un segretario in panne tra proclami sempre più liquidi si alzano barricate sempre più grandi tra i Bindi e Fioroni da un lato e gli Ignazio Marino e Concia dall’altro. Il tecnicismo copre una vera e propria discordanza che su un tema tanto cruciale e dirimente non può essere definita una “bega interna” come Bersani prova a fare.

Su quelle che assomigliano alle ceneri del Pd si scatena l’Italia dei valori che chiama a raccolta tutti quei partiti, da Sinistra e Libertà al Movimento a Cinque Stelle, favorevoli al matrimonio tra omosessuali. Persino Fini è ormai avanti al Pd e Berlusconi, se il Pdl non fosse invaso da alcuneesternalizzazioni del Vaticano, lo sarebbe altrettanto.

La tesi del partito aperto alle contestazioni, che può ancora essere sufficiente a placare le intemperanze di Renzi e dei giovani, sui diritti individuali fondamentali scricchiola un po’ troppo per essere credibile. Perché su questo passa il riconoscimento e l’autoriconoscimento di un’identità. Quella che il Pd, aperto al futuro, ma inchiodato alla morale democristiana, vicino ai lavoratori ma alleato fedele di Monti-Fornero, è evidente che non ha più.

 

 

di Fabrizio Casari

La sentenza della Corte di Cassazione che ha comminato pene pesantissime nei confronti di alcuni dei giovani protagonisti degli scontri del G8 a Genova ha stupito e indignato buona parte dell’opinione pubblica. E’ una sentenza priva dei criteri di equità, proporzionalità e ragionevolezza che rappresentano l’essenza di un dispositivo giusto. E non ci sono solo pene pesantissime in rapporto ai reati addebitati e a 11 anni di distanza ma, per colmo d’iniquità, c’è l’evidente discrepanza con l’assoluzione per i poliziotti protagonisti di comportamenti ben più gravi in quelle ore.

I reati di devastazione e saccheggio e le aggravanti con le quali la Corte ha esteso ai massimi livelli possibili di sanzione le condanne ai no-global sbattono violentemente contro la magnanimità con la quale non si è proceduto per lesioni personali gravissime contro i protagonisti in uniforme della macelleria cilena di quelle ore nel capoluogo ligure. Ci sono stati poliziotti a volto coperto che hanno devastato e seviziato esseri umani, non rotto vetrine e non hanno scontato, ne sconteranno, un solo giorno di carcere.

Si ha un bel dire che, grazie ad un escamotage politico, l’assenza del reato di tortura nel Codice Penale italiano avrebbe impedito una condanna per chi in quei giorni, ignorando e diffamando la stessa divisa che indossava, ha commesso ogni sorta di reato contro le persone, accanendosi con violenza inaudita ed illegale contro soggetti inermi, per i quali i loro superiori, come affermato dalla stessa Cassazione, hanno costruito prove false per giustificare la carneficina commessa.

Si può condividere o meno la scelta di accettare lo scontro di piazza come forma dell'agire politico. Ma devastazione e saccheggio sono reati assimilabili a scene di guerra e non a momenti di scontri di piazza. Davastazioni e saccheggio sono i termini tipici per identificare i comportamenti criminali degli eserciti invasori. Quanto verificatosi a Genova, come in ogni scontro di piazza, da sempre, è del tutto diverso da “devastazione e saccheggio”, reati ereditati dal fascismo e ancora esistenti grazie alla vigenza del Codice Rocco che del fascismo rappresentò l’impalcatura giuridica con la quale comminare repressione permanente verso ogni forma di dissenso.

E comunque, la sproporzione delle pene in ordine ai reati la si può facilmente ricavare anche dalla constatazione di condanne inferiori per reati ben peggiori, quale omicidio, rapina a mano armata e perfino con finalità di terrorismo o associazione mafiosa regolarmente comminate negli ultimi venti anni.

Quelle comminate dalla Cassazione assumono quindi, con ogni evidenza, la valenza di sentenze esemplari. Non si può infatti non vedere come questa sentenza sia soprattutto “politica”. Un’indicazione di assoluta intolleranza per ogni forma di conflitto sociale, che sparge sentenze liberticide su chi si rende protagonista di episodi di ribellione, anche violenti, mentre assolve (e dunque in qualche modo incita) le forze dell’ordine chiamate a reprimere le proteste.

Lo fa mettendone al sicuro le responsabilità penali anche grazie all’assenza del reato di tortura e alle pende blande previste per abuso di autorità ed uso sproporzionato della forza. Per gli agenti autori di reati gravissimi la prescrizione, per le vetrine rotte le condanne esemplari. Pene tombali da un lato, impunità totale dall’altro.

L’impressione, difficile da fugare, è che la pesantezza sproporzionata delle pene comminate ai no-global somigli in qualche modo ad un gesto riparatorio verso la polizia, condannata nei suoi livelli più alti pochi giorni orsono proprio per quanto successo a Genova. Appare così una sorta di “riequilibrio politico” della sentenza di una settimana prima che, con pene decisamente più lievi, aveva comunque avuto il merito di sanzionare formalmente i comportamenti delittuosi di alti funzionari dello stato durante le ore del G8.

A leggere le due sentenze si colgono quindi due elementi chiari. Il primo è che tra civili e forze dell’ordine esiste una asimmetria di giudizio circa la legittimità e le conseguenze del loro operato. Il secondo è che le vetrine rotte sono più gravi di ossa rotte a persone inermi . Un bancomat e una vetrina rotta, in una simbologia che atterrisce, meritano sanzioni maggiori che un uomo selvaggiamente picchiato. La “roba” vince sugli esseri umani.

 

di Fabrizio Casari

Dismessi i toni sobri, abbandonato l’aplomb e tolto il loden, il premier sembra aver indossato l’elmetto. Probabilmente conscio che la sua luna di miele con gli italiani è finita e che solo i gruppi finanziari amici (con i giornali che controllano) restano a cantarne le lodi, il professore ha deciso di scendere ormai quotidianamente in campo con invettive, minacce e considerazioni che fanno emergere con chiarezza il delirio autoritario che ormai lo attanaglia.

E’ di due giorni fa l’affermazione ultima, che addebita ad un eccesso di concertazione i problemi dell’arretramento cronico dell’Italia. E’ quindi certamente in errore - questa la lezione del professore - chi pensa che lo sviluppo diseguale, la burocrazia ampliata a dismisura e utilizzata come ammortizzatore sociale, una classe imprenditoriale incapace e assistita e favorita dai finanziamenti pubblici, una spesa pubblica fuori controllo e una classe politica ad alta voracità, insieme alla mancanza di investimenti in innovazione, ricerca e riconversione ambientale siano le cause dell’arretramento italiano.

Ancor più è in errore chi crede che le lobbies di ogni fede siano come un polipo i cui tentacoli ghermiscono la sfera pubblica e privata del mondo del lavoro e una legislazione frutto di equilibri al ribasso con i poteri forti siano le prime cause dell’arretratezza culturale del Paese. Adesso sì che le cose sono chiare: troppa concertazione tiene indietro l’Italia; un’idea bizzarra  e sbagliata, dunque, quella della relazione e della mediazione tra gli interessi dei diversi attori e delle diverse classi che popolano la società italiana. Il comando d'impresa è la strada maestra.

Il professore nominato dall’alto (condizione di tutta la sua storia professionale, scandita dalle amicizie giuste e dalle giuste devozioni) a forza di rincorrere convegni internazionali di circoli di miliardari e templi delle banche si è fatto prendere la mano. La quadratura del cerchio montiana si può riassumere nella subordinazione della politica all'economia, che significa, declinata oggi, la direzione politica dei paesi in mano alla finanza e ai gruppi bancari che la dominano. La sua idea di democrazia è grosso modo quella che vede il censo come alfa e omega delle regole sociali, ma nulla ha a che vedere con la democrazia moderna in ogni sua declinazione.

Ha ragione da vendere la leader della Cgil, Susanna Camusso, quando ricorda al professore che l’ultima concertazione in Italia risale al 1993. Monti non ce la fa a intendere che proprio la capacità di garantire la concertazione tra le parti sociali è, insieme alla rappresentanza elettorale delle opinioni politiche, la quinta essenza della democrazia. Non a caso il consenso lo si deve ottenere e, come gli ricorda Camusso, essere nominato solo nelle stanze dei poteri forti non consente poter fornire lezioni di democrazia a chi viene eletto regolarmente.

Critiche ancora più dure arrivano da Niki Vendola: "Quando si dice che bisogna superare la concertazione da parte di un governo fatto di tecnici e voluto da un Parlamento di nominati, siamo veramente a una separazione dalla democrazia che è drammatica". La democrazia non è una malattia, ma una medicina, è la tecnocrazia che rischia di essere una malattia". E non va certo per il sottile Stefano Fassina: “Il governo Monti ci sta avvitando in una involuzione economica e anche democratica” ha detto infatti il responsabile economico del PD, commentando l’infelice uscita del professore.

E’ ormai da qualche giorno che il professore pare aver perso le staffe. In quest’ultima settimana Monti si è sostanzialmente dedicato a ricordare come l’Italia sia ancora nella fase di sopravvivenza grazie al suo lavoro (ha intinto le parole nel fiele circa il vertice di Novembre 2011 dove Berlusconi “venne umiliato”). Il suo malumore viene dall’aver preso atto che il convincimento della sua insostituibilità però è solo suo e che invece anche la sua ultima manovra, pomposamente definita spending review (ma che in realtà è solo un concentrato di tagli orizzontali e scriteriati, con l’unica precauzione nel non toccare i privilegi dei suoi referenti), non incontra il consenso delle parti sociali e trova invece il malumore crescente dei partiti che dovrebbero votarla.

D’altra parte, se il confronto con il paese è escluso, anche quello con il Parlamento non è granché, dato che è dovuto ricorrere ben 29 volte al voto di fiducia in pochi mesi, vista l’impossibilità di affrontare il dibattito parlamentare benché sostenuto dalla quasi totalità dei partiti.

Le dichiarazioni con cui Monti continua a provocare il Parlamento e il paese sono ormai a getto continuo. Emerge con forza il dispetto di quest’uomo collerico e intollerante ad ogni forma di critica che lancia fendenti in ogni direzione. Ogni rialzo dello spread, ogni declassamento ad opera dei suoi colleghi nelle agenzie di rating e ogni statistica che racconta impietosa lo stato di recessione e depressione economica in cui ormai versa l'Italia è sempre colpa di qualcuno che non é lui: di volta in volta i sindacati, Confindustria, i politici. Insomma: lui sarebbe la salvezza, peccato che questa democrazia troppo concertativa permette ad altri di esprimersi. E’ la strategia della disperazione per via mediatica, il tentativo di porre ogni giorno sotto ricatto l’intero paese che ha l’ardire di non obbedirgli a comando, che non ne coglie la grandezza epocale.

Ci si dovrebbe chiedere cosa spinge un uomo come Monti a tentare di offrire ogni giorno bacchettate a chiunque si permette di osservare dubbi sulle performances governative. Probabilmente ciò si deve alla consapevolezza della fine della sua luna di miele con il paese. E’ abbastanza facile riscontrare infatti che ormai vi sia convincimento generalizzato: la guidance economica del professore, per quanto dotata di maggiore credibilità internazionale rispetto al suo predecessore, non ha risolto affatto i problemi del paese ed ha invece spinto l’Italia nel vortice della depressione economica.

I numeri impietosi, più che le polemiche, raccontano il fallimento del governo. Dunque, l’inevitabile domanda: otto mesi dopo il suo insediamento, l’economia italiana sta meglio o peggio? Le sue prospettive sono migliori o peggiori? E la democrazia del Paese è maggiore o minore? Insomma, dagli esodati alla riforma del lavoro, alla spending review, la sensazione che i tecnici siano pasticcioni e incompetenti e che il campione sia in realtà un bidone, si fa strada.

Ad adombrare il professore c’è poi il difficile rapporto con i partiti, nessuno escluso: sarà anche vero che l’odore della campagna elettorale comincia a diffondersi e sarà anche comprensibile che chi deve chiedere il consenso agli elettori sia preoccupato di votare provvedimenti che mettono ulteriormente in difficoltà alcuni milioni di persone, ma il fatto è che la possibilità di proseguire con lui e con la sua agenda è ormai considerato un suicidio assistito dai partiti che dovranno presentarsi agli elettori (fa eccezione la corrente democristiana del PD che agisce come cavallo di Troja dell'UDC a Via del Nazareno, ma la spiegazione é semplice: la banda Letta-Fioroni-Gentiloni e frattaglie ha come scopo immediato impedire che Bersani sia il nuovo Presidente del Consiglio).

Il professore così, da risorsa della repubblica rischia ora di essere percepito come colui che piccona ogni lembo di stato sociale e di civiltà giuridica del lavoro senza che poi nemmeno la speculazione finanziaria risulti acquietata e sembra proprio che il dispositivo per la fine del suo mandato sia stato impostato per il prossimo ottobre.

Monti l’altro ieri, nel ricordare che non si ricandiderà (ma omettendo di dire che nessuno glielo propone) ha ricordato che non abbandonerà la politica perché senatore a vita ( e a vitalizio, soprattutto). L’intenzione è quella di proporsi comunque per il dopo Napolitano e di arrivare al Quirinale spinto dal centro-destra e sfidando il centro-sinistra dal remargli contro.

In questo senso è rimasto infastidito dalla ricandidatura di Berlusconi e dalle critiche di Confindustria, Confcommercio e sindacati. Ma il giro dell’orologio è comunque iniziato e le lancette non vanno oltre il prossimo ottobre. E non si arriva sul Colle se si ha il paese contro. Se ne faccia una ragione.

 

di Mariavittoria Orsolato

Il quotidiano francese Le Figaro lo annuncia, l'agenzia Ansa lo rilancia: il progetto della Torino-Lione potrebbe saltare per volontà dei francesi. I costi improponibili, le numerose esternalità negative e l'obiettiva inutilità dell'opera in termini operativi sono, oltre che le ragioni gridate a gran voce dai No Tav, le motivazioni stringenti che il governo francese starebbe vagliando in visione di una spending review degna di tale nome.

La Francia intende infatti riesaminare ed eventualmente rinunciare a dieci progetti di linee ferroviarie ad alta velocità - tra cui appunto la Torino-Lione - in virtù degli alti costi, stimati in circa 260 miliardi di euro, diventati insostenibili a causa della crisi economica che lambisce anche i cugini d'oltralpe.

Per questo, ha spiegato il ministro del bilancio Jerome Cahuzac, una commissione composta da parlamentari ed esperti verrà istituita per classificare le linee TGV in base alle priorità entro la fine dell'anno, quando il governo di François Holland dovrà scegliere i collegamenti a cui rinunciare. A essere fatte fuori, spiega il giornale francese, saranno con tutta probabilità le linee più costose e non ancora iniziate: l'investimento per la Torino-Lione è di 12 miliardi di euro e, grazie anche all'opposizione in Valsusa, da entrambi i lati delle Alpi gli scavi non sono ancora cominciati.

La conferma che la tratta italo-francese non si farà è dunque quasi scontata. L'irrinunciabilità dell'opera era fondata sull'aumento del traffico commerciale sulla tratta ma, stando ai dati aggiornati al 2010, solo al traforo del Frejus il traffico merci della ferrovia esistente é sceso nel 2009 a 2,4 milioni di tonnellate, poco più di un decimo del traffico dei 20 milioni di tonnellate previsti all’origine del progetto.

Dati assolutamente arbitrari e fantasiosi che i No Tav hanno meritoriamente contribuito a sbugiardare e a rendere evidenti all'opinione pubblica in vent'anni di lotte. Nonostante la stampa mainstream li accusasse di essere terroristi e la polizia e la magistratura li trattassero di conseguenza: giusto un paio di giorni fa, Marianna, un'attivista No Tav, è stata condannata a scontare 8 mesi e tra i 26 incarcerati lo scorso gennaio, almeno la metà sono rimasti in regime di isolamento nonostante i procedimenti giudiziari non fossero ancora iniziati.

Ora, dunque, a meno che Hollande il suo gabinetto non siano un covo altrettanto pericoloso di facinorosi terroristi, la nostra politica dovrebbe ammettere di aver sbagliato e porgere tante scuse a quanti si sono sempre opposti alla Tav. Il primo a fare ammenda dovrebbe essere il Partito Democratico, così abbarbicato al progetto di ingrassare una delle sue coop - la CMC di Ravenna che si è aggiudicata l'appalto sullo scavo del tunnel di Chiomonte - da espellere in blocco dal partito quanti, in Piemonte e non, hanno dato pubblicamente appoggio alla resistenza valsusina ribellandosi alla nomenklatura.

A seguire, le scuse dovrebbero arrivare dal premier Monti che, dall'alto del suo sapere tecnico, ha sempre e ufficialmente confermato di voler portare avanti un progetto deleterio per le casse statali e per l'ambiente valsusino. Così come dovrebbe scusarsi anche il ministro Annamaria Cancellieri, quella per cui la Tav era “la madre di tutte le preoccupazioni”, che ha continuato ostinata la politica repressiva dei precedenti governi, confermando la zona di interesse strategico nazionale e le migliaia di uomini delle forze dell'ordine a presidiarlo a suon di lacrimogeni e manganellate.

Quanto al Pdl e ai partiti delle sue maggioranze, da sempre in prima linea con i Si Tav, dovrebbero riconoscere i propri errori e convenire sul fatto che la Torino-Lione sarà un aborto alla stregua del ponte sullo stretto e di tutte le “grandi opere” millantate dei governi Berlusconi. Ma sappiamo già che non sarà così.

L’ufficializzazione della decisione francese di abbandonare la Tgv Turin-Lyon sarà quindi il colpo di grazia per un progetto nato male e abortito peggio. Un progetto inverosimile fin dall’origine e molto difficilmente percorribile, che solo numeri e referti truccati ad hoc avevano reso plausibile, ma che, nonostante tutto, ha avuto il sostegno ostinato e cieco dei maggiori partiti del paese e di buona parte dell'opinione pubblica indottrinata da media compiacenti.

Ci sono voluti venti anni di battaglie legali, due morti avvenute - quelle di Baleno e Sole - e una scampata miracolosamente – quella di Luca Abbà - ci sono voluti migliaia di candelotti di CS fuorilegge e altrettante botte da parte della polizia, ci sono volute le barricate sull'autostrada e un numero spropositato di arresti arbitrari.

Ma, a meno che non si inventino una linea ad alta velocità tra Torino e Bardonecchia, alla fine la Tav non si farà. La Valsusa sarà quindi probabilmente salva dalla lunga mano della speculazione eppure l'Italia avrà ancora bisogno dei No Tav, della loro resistenza tenace ma garbata, del loro amore incondizionato per il territorio e soprattutto del loro strenuo perseguire i veri interessi della popolazione: il paese ha ancora troppi macroscopici problemi e, se è vero che il potere è intrinsecamente criminale, allora l'Italia necessita di cittadini che come i No Tav ne sorveglino ogni mossa e lo contrastino con la verità.

 


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