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di Carlo Musilli
E' stato come ascoltare "'O Sole mio" mentre fuori cadeva una pioggia battente. L'altroieri alla Camera il premier Silvio Berlusconi ha parlato della crisi che da settimane sta soffocando la finanza italiana, ma le sue parole non hanno centrato il bersaglio. C'era grande attesa per un intervento che, nelle speranze di tutti, avrebbe dovuto imprimere una sterzata decisa alla direzione imboccata dal Paese. Per giorni si è parlato di nuove misure possibili da mettere sul tavolo così da riacquistare credibilità a livello internazionale e convincere gli investitori a non scommettere più contro di noi. Purtroppo nulla di tutto questo è arrivato. Anzi, il Cavaliere ha rispolverato qualche vecchia frase buona più o meno per ogni momento di buio. Lontano dalla realtà dei fatti, non ha proposto nulla di concreto. E chi si aspettava un cambiamento ha dovuto ripassare il copione degli ultimi dieci anni.
Partiamo dal quadro generale tracciato dal Presidente del Consiglio. E' vero che la crisi che stiamo vivendo ha dimensioni internazionali, che nasce dalle difficoltà di altri Paesi a ripagare il proprio debito ed è alimentata dall'attuale debolezza degli Stati Uniti. E' vero anche che la tempesta in corso è motivata dalla fragilità dell'euro e che proprio la moneta unica è l'obiettivo primo degli speculatori. Tuttavia nessuno può negare che ultimamente sia proprio l'Italia (ancor più della Spagna) nell'occhio del ciclone. La Borsa di Milano è crollata più delle altre in queste settimane e veste con una certa regolarità la maglia nera d'Europa. I nostri titoli di Stato sono senza dubbio alcuno i più bersagliati dalle vendite, tanto che lo spread Btp/Bund si sta a poco a poco avvicinando a quello dei più malandati cugini di Madrid. Di tutto questo si rende perfettamente conto anche il premier, tanto che ha avuto la saggezza di posticipare il suo discorso in Parlamento. Aprire bocca prima della chiusura dei mercati sarebbe stata una roulette russa con poche possibilità di sopravvivenza. Bisognava evitare una reazione a caldo delle Borse.
Ma veniamo alla situazione italiana. Su questo fronte Berlusconi ha ribadito ancora una volta quegli stessi concetti che sentiamo ripetere da quando negli Usa è scoppiata la bolla dei mutui subprime. Le nostre banche sono ben capitalizzate, solide, poco esposte sul fronte finanziario. Mentre le famiglie italiane si distinguono dalla media internazionale per l'alto livello di patrimonializzazione e per lo scarso indebitamento. Tutto vero. Tutto, drammaticamente, già sentito.
Cantare per l'ennesima volta gli stessi ritornelli in un momento del genere, purtroppo, non aiuta l'Italia sui mercati. Non suona come un'affermazione di forza, ma come un tentativo di giustificazione piuttosto goffo, evidentemente insufficiente. La tavola di legno a cui il naufrago si aggrappa quando sente che la corrente sta per tirarlo a fondo.
Ma andiamo avanti. Ammettiamo che la furia degli speculatori non si possa spiegare razionalmente con quello che accade nell'economia reale. Ci deve allora essere un altro motivo per cui i mercati ce l'hanno tanto con noi. Infatti c'è: la politica. Agli occhi degli stranieri non siamo credibili. E' bene chiarire che stiamo parlando sempre di investitori, non dei vertici comunitari, interessati quasi quanto noi a spegnere il fuoco che ci sta bruciando e quindi sempre inclini a regalarci una buona parola.
"Il nostro Paese ha un sistema politico solido", ripete instancabile Berlusconi. Forse qualcuno è ancora disposto a credergli nella Matrix italiana, ma fuori dai confini, nel mondo reale, avranno di certo sorriso. Laggiù vedono solo un Paese che ristagna e che non fa nulla per riattivare la crescita. Vedono un premier coinvolto in quattro processi, un ministro indagato per mafia e un deputato della maggioranza che svolge le sue funzioni pubbliche dal carcere. Il colpo di grazia lo ha dato l'inchiesta su Milanese, che ha gettato una cortina di fumo anche sull'immagine internazionale di Giulio Tremonti, fino a qualche tempo fa considerato totem del rigore e garante della tenuta dei conti. Il tutto condito da una Lega sempre più mina vagante. Nel complesso, il quadro è quello di un carrozzone che stenta a sopravvivere. Mentre ci spertichiamo in odiose litanie sul processo lungo e sui ministeri al nord, in pochi credono davvero che questo Governo possa portare a termine le riforme di cui il Paese avrebbe bisogno.
Uno scenario desolante, un arresto cardiocircolatorio che non attende altro se non il defibrillatore. Per questo il Quirinale aveva fatto pressioni in vista di una svolta e la Banca d'Italia si era perfino spinta a dare dei suggerimenti. Entrambe le istituzioni sono state però deluse dal Cavaliere, che ha parlato per quasi mezz'ora del debito e della crescita senza indicare alcuna strada concreta per cavarci fuori dal pantano. Riorganizzare le province, tagliare le auto blu, varare finalmente il paino per il mezzogiorno. Tutte misure positive, ma molto lontane da quello che servirebbe davvero. Se i mercati non credono che in futuro saremo in grado di ripagare il nostro debito mostruoso, l'unico modo per fargli cambiare idea è iniziare subito a ridurre il rosso delle nostre casse. E per farlo ci sarebbero delle strade: anticipare quelle misure che la manovra scarica sul biennio 2013-2014 (e quindi sul prossimo Governo), mettere in campo una sacrosanta patrimoniale.
Invece niente. Sono mosse inimmaginabili per chi è troppo attaccato alla poltrona e già la sente scottare. Fra calcoli e tatticismi, Berlusconi come sempre si è tenuto alla larga da ogni e qualsiasi autocritica, perdendosi addirittura nell'eco delle vecchie autocelebrazioni. Tutto questo mentre il mondo gli ripete che così non può andare avanti.
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di Emanuela Pessina
BERLINO. “Ciao bella! Il tramonto del Paese più incantevole del mondo”. Così l’autorevole settimanale tedesco Der Spiegel ha titolato la copertina di una sua recentissima edizione, dedicandola interamente alla crisi della nostra Italia. Una crisi che è soprattutto economica, ma non solo: perché il caso italiano ha attirato l’attenzione della stampa internazionale alla luce del recente attacco della speculazione, ma la sua malattia è molto più profonda.
Ed è così che Der Spiegel traccia il ritratto di un Paese paralizzato a livello politico, economico e culturale, che fa fatica ad affermarsi nell’economia globale nonostante la sua presenza nell’olimpo dei Paesi più industrializzati. Un’immagine già di per sé triste, costantentemente schiacciata a livello internazionale dagli ingombranti problemi personali della sua classe dirigente.
Tanto per cominciare, Der Spiegel cita il Forum Economico Mondiale di Ginevra, che ha definito l’Italia “un grosso intralcio” allo sviluppo; un’inefficiente burocrazia statale, un sistema tributario corruttibile, infrastrutture insufficienti e un fiacco sistema di prestiti sono alla base della sua debolezza. Il bilancio 2010 della Banca d’Italia ha rivelato un livello di economia pari a 25 anni fa. Nel 2009 il volume del sistema produttivo si è contratto del 5%, mentre nel 2010 ha superato di poco la parità.
Tra il 2008 e il 2009 sono stati cancellati 560mila posti di lavoro; il debito pubblico ha raggiunto i 1.843 miliardi di euro, più del doppio di quelli di Grecia, Irlanda e Portogallo e nel 2011 raggiungerà con ogni probabilità il 120% del Prodotto interno lordo (Pil). E, dulcis in fundo, solo il 27,5% dei cittadini italiani sostiene l’attuale Governo, ma la forza di cambiare davvero sembra scemare.
È da vent’anni a questa parte che l’Italia perde progressivamente di credibilità sotto ogni punto di vista, e questo non è un mistero. Per il settimanale tedesco il verdetto decisivo in questo senso è arrivato settimana scorsa dai mercati: citando il Financial Times, Der Spiegel scrive che la finanza non dà più credito al Governo italiano perché la sua politica crea insicurezza negli investitori. E anche ora che la manovra per la riduzione del deficit è passata e il vertice europeo di giovedì a Bruxelles sembra aver rassicurato i mercati (tra cui anche Piazza Affari che ha ripreso istericamente colore), il pericolo finanziario non sembra del tutto scongiurato.
Perché in realtà le basi su cui poggia il piano di risparmio da oltre 70 miliardi del Governo italiano lasciano aperti spiragli di insicurezza, suggerisce Der Spiegel. “Tra questo e il prossimo anno si prevede di risparmiare 9 miliardi di euro, solo l’11% del traguardo finale”, si legge nel lungo servizio, 10 pagine che sembrano non finire mai, “nel 2013 ci saranno poi le elezioni e la sopravvivenza della manovra alla campagna elettorale è tutt’altro che sicura”. In pratica, i veri sacrifici sono rimandati a una prossima legislatura: poco probabile che l’Italia stia recuperando la sua attendibilità di fronte ai mercati per la serietà del suo programma di risparmio.
“Di quell’Italia degli anni ’70 e ’80 che l’Europa tutta guardava con speranza, simpatia e forse una punta di invidia rimane sempre meno”, prende atto Der Spiegel, e introduce la sua analisi della nostra società dal punto di vista dei costumi e della cultura. E si parte dal ruolo fisso delle donne nella televisione, che si riduce al mero, inconsapevole “sculettare”, passando per gli “orgogliosi comuni del Nord Italia”, trasformatisi nella “roccaforte xenofoba della Lega Nord”, e per Cinecittà, ormai leggenda nella memoria tedesca, che affonda facendo spazio “all’impero del cattivo gusto”.
Inutile aggiungere che, ancora una volta, al centro del servizio di Der Spiegel c’è il premier Silvio Berlusconi: dai processi in corso al Rubygate, dalla nascita del suo impero mediatico agli interventi sulle leggi italiane che gli garantiscono la sopravvivenza politica ed economica, senza tralasciare i recenti diverbi con il ministro delle Finanze Giulio Tremonti e i provvedimenti per circoscrivere la libertà dei giudici. Nessun particolare è risparmiato all’Italia e alla sua politica, definita da Der Spiegel la “democrazia dell’intrattenimento”, perché l’Europa è preoccupata e osserva.
Ed è proprio un filosofo friulano, Flores D’Arcais, a dare voce alle inquietudini europee: “Il berlusconismo è la moderna alternativa al fascismo e si fonda sulla legalizzazione dei privilegi, così come sul potere assoluto delle immagini”. Der Spiegel non manca di citare le parole dell'intellettuale, facendo presente che il rischio di contagio per il resto del continente è reale. Berlusconi è deciso a portare a termine la sua legislatura nonostante i vari coinvolgimenti privati, e tutte le capitali europee ne sono sbalordite. Nel resto del mondo i politici si dimettono per una tesi copiata o per una relazione clandestina con stagiste: ai più viene difficile capire la mentalità italiana fino in fondo. Perché nulla cambia.
L’Europa non crede più all’Italia e i segnali sono chiari. È difficile accettare il quadro che la stampa internazionale traccia della nostra società, eppure è giusto prenderne atto. Forse preferiremmo non doverci confrontare continuamente con il romanzo dei problemi privati della nostra classe politica, ma come possiamo aspettarci che il mondo faccia finta di niente quando il nostro rapporto con la politica si riduce a questo, a una lotta quotidiana con le loro complicazioni private? La difficoltà maggiore è quella di dimostrare agli stranieri che noi siamo diversi, che la nostra classe politica non ci rappresenta. Anche se è arduo sconfiggere i pregiudizi, almeno quanto il malgoverno.
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di Carlo Musilli
Mentre l'economia continua a camminare sul filo di lana, in Parlamento fervono i lavori. Gli onorevoli stakanovisti lavoreranno perfino la prima settimana di agosto. Purtroppo però non lo faranno per modificare la manovra finanziaria, ma per approvare una classica legge da ombrellone, di quelle da far passare mentre l'opinione pubblica prende il sole. Stavolta non si parla più di processo breve, ma di processo lungo. Verrebbe da pensare che si tratti di provvedimenti speculari, in realtà sono due facce della stessa medaglia. Lo scopo del gioco è sempre lo stesso: disinnescare la giustizia. In particolare quella che ce l'ha col premier.
Il Ddl è stato approvato venerdì in Senato con 160 voti favorevoli (Pdl, Lega e Coesione Nazionale), e 139 contrari (Pd, Idv, Udc, Mpa, Api e Fli). Il risultato del voto era assolutamente scontato, dal momento che il Governo ha scelto ancora una volta di porre la fiducia (la numero 48 dall'inizio della legislatura). Giovedì prossimo il testo tornerà alla Camera per l'approvazione definitiva.
Non serve un fine giurista per capire quale sia il vero scopo del nuovo provvedimento. Il nome stesso che gli è stato attribuito lascia pochi dubbi. Si tratta di espandere a dismisura la durata dei processi, in modo tale che sentenza definitiva diventi un approdo lontano e sempre più difficile da raggiungere. Il sistema giudiziario viene gonfiato a pieni polmoni fino all'esplosione, come si farebbe con un palloncino.L'obiettivo viene raggiunto attraverso una serie di modifiche al Codice di Procedura Penale. In particolare, il Governo mette mano ad alcuni articoli che riguardano il giudizio abbreviato e i delitti punibili con l'ergastolo. In primo luogo, cambiano i criteri secondo cui i giudici possono respingere le prove. Fino ad oggi si potevano escludere quelle "superflue e irrilevanti". Con la nuova legge invece possono essere rigettate soltanto quelle "manifestamente non pertinenti". Quanto ai testimoni, i difensori dell'imputato hanno "la facoltà davanti al giudice di interrogare o fare interrogare le persone che rendono dichiarazioni a suo carico". Questo significa che gli avvocati possono chiamare alla sbarra anche centinaia di persone. Il processo si trasforma così in una processione, fino a che, con il passare dei mesi, non interviene la tanto sospirata prescrizione.
La seconda modifica prevede che le sentenze passate in giudicato non possano più essere considerate come prove nei nuovi processi. Questa norma però non vale per i processi di mafia e di terrorismo. Infine, chi viene condannato all'ergastolo non può più avvalersi del giudizio abbreviato per sostituire la condanna a vita con 30 anni di carcere e chi ha commesso reati come strage o sequestro deve scontare 26 anni prima di usufruire di qualsiasi beneficio.
Ora, è evidente che, fra tutti i cambiamenti introdotti dalla futura legge, quello ad personam è il primo. Se il contenuto del Ddl non bastasse a far sorgere dei sospetti, aggiungiamo che, esclusi i dibattimenti già chiusi in primo grado, il provvedimento si applica a tutti i processi in corso. Come quelli in cui è coinvolto Silvio Berlusconi.
Il primo effetto della legge che sta per essere approvata sui guai giudiziari del primo ministro è quello di seppellire definitivamente il processo Mills, in cui il premier è accusato di corruzione. Considerando che i termini per la prescrizione scadono a gennaio e che devono ancora essere ascoltati otto testimoni della difesa, le possibilità di arrivare alla sentenza di primo grado erano già da tempo molto flebili. A questo punto scompaiono del tutto e praticamente si andrà avanti soltanto per salvare la forma. Quanto al caso Mediaset (l'accusa è di frode fiscale) la vicenda è meno scontata. La prescrizione arriverà soltanto nel 2014, ma con la nuova legge gli avvocati del premier, Niccolò Ghedini e Piero Longo, potranno chiamare in tribunale qualche decina di testimoni. Il che forse sarà sufficiente a levare le castagne dal fuoco di Arcore. Per il processo Mediatrade (in cui Berlusconi è imputato per appropriazione indebita), invece, il discorso è diverso. Anche in questo caso la prescrizione interviene nel 2014, ma gli effetti della riforma dipenderanno dal rinvio a giudizio. Se ci sarà, bisognerà vedere quale sarà la lista dei testimoni presentata dai difensori. L'unico processo che non potrà essere toccato dalla nuova legge è il Rubygate (prostituzione minorile e concussione), perché la prescrizione arriverà solo nel 2025.
"Questo provvedimento è dettato dall'esigenza di risolvere situazioni particolari e non porta ad alcun miglioramento dell'efficienza del processo", ha commentato in una nota Luca Palamara, presidente dell'Anm, sottolineando poi che "processo lungo vuol dire non arrivare mai a sentenza". E invece sarebbe proprio questa l'unica cosa da salvaguardare. Non importa che sia breve o lungo, un processo dovrebbe durare quanto basta. Per arrivare a sentenza, appunto.
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di Mariavittoria Orsolato
Oggi una manifestazione da Gaglione a Chiomonte chiuderà il campeggio No Tav che va avanti dal 15 luglio. Quello di quest’anno è il dodicesimo campeggio, ma mai prima d’ora l’attenzione dei media e delle forze dell’ordine era stata così asfissiante e soprattutto così male indirizzata. Scorrendo i servizi delle maggiori testate italiane, i toni e le immagini fanno ripensare ai giorni del G8 e al misto di violenza e mistificazione che venne perpetrato ai danni del movimento altermondista.
Come a Genova, anche in Val Susa gruppi di persone che si auto-organizzano stanno provando a contrastare un progetto imposto dall’alto. Come i no-global - che poi in realtà no-global non erano per nulla, anzi - anche i No-Tav sanno in partenza che l’iniziativa presa dalla politica e voluta dalle lobbies è destinata ad essere fallimentare, enormemente costosa in termini economici e sociali.
Per i promotori si tratterebbe di un progetto “strategico” del quale l’Italia non può proprio fare a meno: senza quel supertunnel ferroviario di oltre 50 km di lunghezza (sotto una delle parti a più alta concentrazione di amianto delle Alpi) l’Italia è destinata a un declino epocale, tagliata per sempre fuori dall’Europa. Balle. Se mai l’Italia dovesse essere estromessa dall’UE, i problemi sarebbero i buchi nelle casse statali ed una politica economica suicida, e gli abitanti della valle lo sanno.
Sanno anche che per quanto il trasporto su rotaia sia più apprezzabile che quello su gomma, un’opera colossale come la Tav - con oltre 70 chilometri di gallerie, dieci anni di cantiere, decine di migliaia di viaggi di camion, materiali di scavo da smaltire, perforatrici, migliaia di tonnellate di ferro e calcestruzzo, oltre all’energia necessaria per farla poi funzionare - non è certo preferibile nell’ottica costi/benefici. Sono poi a conoscenza di un rapporto del 2003 della Direction des Ponts et Chaussées francese (gli ingegneri del genio civile d’oltralpe) che afferma che riguardo al trasferimento modale tra gomma e rotaia, la Lione-Torino sarà del tutto ininfluente.
I valligiani, numeri alla mano, sanno che il costo ufficiale della tratta internazionale è 10,3688 miliardi di euro - di cui quasi 7 a carico dell’Italia - e che il costo della tratta nazionale è di circa 5, 16 miliardi di euro; e sanno anche che, dato che i 10 anni di tempo preventivati per portare a termine l’opera non verranno mai rispettati, con gli interessi, il totale a carico dello Stato diventerà complessivamente di 17,2002 miliardi di euro.
Praticamente due finanziarie, cifre che in questi tempi di vacche anoressiche sono assolutamente fuori dalla portata della tasche nazionali. E il bello è che anche nel momento in cui la Tav dovesse funzionare, la linea non sarà mai in grado di ripagarsi e diventerà fonte di continua passività, trasformandosi in un asfissiante cappio fiscale per tutti i cittadini, non solo i valligiani.
Gli abitanti della Val Susa sanno poi del pericolo reale delle infiltrazioni malavitose nella gestione dei cantieri e dei fondi stanziati: proprio il 27 giugno, mentre a Chiomonte fumavano i lacrimogeni, la corte d’appello di Firenze mandava assolti i dirigenti del consorzio Cavet, condannati in primo grado per l’inquinamento e lo smaltimento illecito di rifiuti, durante lo scavo delle gallerie per l’Alta Velocità nella zona del Mugello. Inevitabile, quindi, che quella contro il treno diventasse solo una parte della battaglia.
Di fronte alla contestazione ragionata di un progetto oggettivamente negativo, lo Stato si è barricato e sta cercando di ricreare il clima che fu delle giornate di Genova, perché “il nemico” è fondamentalmente lo stesso. Tra i due movimenti, è innegabile, si è creata una sorta di forza centripeta per cui il variegato mondo del dissenso - antagonisti, anarchici, ambientalisti, studenti e operai, sindaci ed amministratori locali - ha deciso di riunirsi sotto il vessillo del treno sbarrato.
Non è stato semplice. Si è dovuti passare per lutti come quelli di Sole e Baleno e battaglie come quella di Venaus, ma alla fine, mortificato dai poteri forti e stimolato dalla consapevolezza di queste realtà, il movimento No-Tav si è trovato proiettato da una lotta di territorio e contro una grande opera a una battaglia generale sui diritti e sulla democrazia.
In Val di Susa gli scontri, così pittorescamente dipinti dalle veline della Questura torinese e copia/incollati sulle aperture delle maggiori testate nostrane - l’attentissimo Fatto compreso -racchiudono in loro molti dei temi cari al movimento altermondista: la difesa dei beni comuni, la critica a un modello di sviluppo distruttivo, la tutela della Costituzione, l’antimilitarismo, la lotta alla repressione, la democrazia dal basso. E la storia si ripete, tristemente autoreferenziale nel suo copione.
La protesta, che come a Genova ha assunto le forme della creatività e della disobbedienza civile, ha dovuto fare i conti con i metodi repressivi imposti da quelli per cui la Tav s’ha da fare, sinistra (sic!) compresa. In questo mese i valligiani e i tanti accorsi per unirsi a quella che è ormai resistenza, hanno dovuto fare la conoscenza dei lacrimogeni al CS, sparati ad altezza d’uomo anche all’interno del campeggio - un fotografo è tutt’ora ricoverato con gravi fratture al volto - e fronteggiare la “macchina del fango” mediatica che, dopo aver bruciato la carta black-block, ci prova col dossieraggio a carico di alcuni manifestanti.
A chi dissente e manifesta, lo Stato riserva repressione. Ci sono gli idranti, i fogli di via, le criminalizzazioni come quella dell’incendio alla stazione Tiburtina di Roma, in un primo movimento attribuito ai No-Tav. Nessuno spazio per le molte evidenze tecniche e scientifiche, nessuna attenzione al rapporto costi/benefici e all’effettiva utilità dell’opera.
Non bisogna stupirsi perciò se il fronte No-Tav ha raccolto tutta quella serie di istanze che da anni si oppongono ad una gestione suicida della cosa pubblica e alla repressione sistematica delle forme organizzate di dissenso. Quando l’ingiustizia diventa legge, diceva Brecht, la resistenza diventa un dovere. E questa è la prima cosa tra le tante che i valligiani sanno.
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di Rosa Ana De Santis
La Camera ha respinto per la seconda volta la legge sull’omofobia che voleva riconoscere sul piano normativo delle aggravanti per le discriminazioni di natura sessuale ai danni degli omosessuali. La proposta era nata anche sull’onda di episodi di cronaca che in una pericolosa escalation avevano contato numerose vittime di violenza e di abusi e aveva conquistato una credibilità trasversale per l’impegno del Ministro Mara Carfagna (svanito presto) e di Paola Concia del Pd che l’aveva sostenuto con forza con molte altre deputate.
La legge crolla in aula per le pregiudiziali di costituzionalità. Udc, Pdl e Lega hanno espresso i loro 293 SI alle pregiudiziali contro i 250 uniti per il NO. Gli astenuti sono stati 21, tra cui brilla con sfacciata incoerenza politica proprio il nome del Ministro delle Pari Opportunità che aveva ingaggiato, almeno sulle copertine dei rotocalchi, la battaglia contro le discriminazioni sessuali con tanto di manifesti a crocette e di foto di gruppo al fianco di Vladimir Luxuria.
Le ragioni del Pdl o quelle della Lega ruotano tutte intorno al rifiuto di quella protezione privilegiata che la legge avrebbe offerto alle vittime di discriminazioni sessuali. Un principio che, secondo loro, farebbe a pugni con l’eguaglianza dei cittadini a prescindere da sesso, credo religioso e politico come affermato dalla nostra Costituzione. Peccato che l’eguaglianza scritta sulla carta e di assoluta inappuntabilità formale spesso ha bisogno di essere “riempita” di contenuti speciali laddove la realtà non coincide con la giustizia, l’essere con il dover essere.
Tra l’altro, risulta stupefacente che il Pdl, che chiede ogni due giorni le modifiche alla Carta invocandone un suo presunto superamento, nell’occasione sia così attento ad ossequiarne il testo, guardandosi bene dallo spirito e dal senso profondo che i padri costituenti vollero dare all’uguaglianza. Proprio la lettera della Carta, dove invoca uguaglianza rispetto ai sessi, pone con forza il rifiuto della discriminazione e apre quindi ogni possibilità alle sanzioni per chi discrimina. Dunque, un’aggressione contro una persona perché gay non riduce a reato comune il fatto, ma lo carica semmai dell’intento discriminatorio che dovrebbe trovare una sanzione appropriata in sé.
Il governo e i cattolici ossessionati dai gay ricorderanno che qualcosa di analogo è stato fatto per la violenza sessuale ai danni delle donne. La legge stabilisce che una violenza ai danni del corpo femminile non può essere uguale alla violenza fisica tout court, ha qualcosa di diverso in sé, più grave e tale da meritare un’aggravante speciale. Stessa cosa per le molestie a carattere sessuale o per le famose quote rose da inserire nella rappresentanza. Del resto quando la violenza e la discriminazione hanno una finalità di tipo razziale e xenfobo sono più gravi della violenza”punto e basta”.
La Lussana, voce della Lega, ha provato in aula a smontare la proposta di legge proprio evidenziandone le insidie del principio di eguaglianza, senza capire che non si sarebbe trattato di inficiare il principio di eguaglianza, ma di declinarlo secondo quelle che sono autentiche emergenze sociali.
Il Ministro, promotore della battaglia di civiltà, avrebbe potuto ricordare ai suoi amici di partito che l’eguaglianza di tutti i cittadini davanti alla legge è proprio ciò che molti cittadini non hanno “di fatto”. Gli omosessuali non sono uguali agli altri cittadini. Subiscono numerose discriminazioni, non sono riconosciute le loro unioni, non hanno gli stessi diritti per una casa popolare o dentro gli ospedali. E ora un’aggressione di tipo sessuale passerà per una rissa come tante. Il presidente della Camera non ha potuto fare altro che registrare il voto, ma ha espresso la sua personale posizione contro le pregiudiziali.
La legge muore prima di nascere, nel tradimento del Ministro che avrebbe dovuto difenderla e nell’ostinazione di chi rifiuta culturalmente la condizione degli omosessuali a tal punto da non vederne le prevaricazioni subite e le mille forme di esclusione sociale da cui sono vessati.
L’Italia con questo voto ha scelto di non recepire il Trattato di Lisbona che ha impegnato l’Europa contro tutte le discriminazioni sessuali (omosessuali, lesbiche e trans). Ancora una volta siamo fuori o indietro. E’ questo il marchio di casa nostra, in una carambolesca adorazione di quel principio di eguaglianza che è così facile da difendere se tanto non cambia nulla nella realtà. Diceva Hegel “tanto peggio per i fatti”.