di Mariavittoria Orsolato

A Brunetta i giovani non piacciono, men che meno se questi sono precari. “Questa è la peggiore Italia”, così li ha apostrofati lo scorso martedì quando, nel corso del convegno “I giovani innovatori” che si teneva a Roma, una delegazione di precari della pubblica amministrazione ha tentato di porgli qualche domanda in merito alla loro posizione. Tentato, perché non appena la ragazza si è presentata come una rappresentante della lega dei precari della p.a., il miniministro ha sdegnosamente voltato le spalle e si è incamminato verso la sua auto blu alla velocità della luce.

Com’è ovvio, i quattro minuti e mezzo di video che immortalano l’ennesima alzata di spalle istituzionale di fronte ad una delle maggiori piaghe d’Italia - il precariato appunto - ha fatto immediatamente il giro della rete e, in men che non si dica, il profilo Facebook di Brunetta è stato subissato da commenti di rimprovero e insulti da parte di migliaia di precari. Impossibile biasimarli.

Ora, se è di per sé evidente l’assurdità di un ministro che rifiuta di rispondere a quelli che a tutti gli effetti sono suoi collaboratori e sottoposti, dobbiamo dare merito a Brunetta di essere riuscito a fare anche di peggio. Per zittire a tutti quelli che - in modo sacrosanto - si sono inferociti per la sua offesa, il Ministro della Pubblica Amministrazione si è dato alla controinformazione e ieri ha postato un video online in cui rovesciava totalmente quello successo a Roma e che le telecamere hanno impietosamente ripreso. Giacca, cravatta e manine dietro la schiena, Brunetta giustifica l’infelice battuta con il fatto di essere stato insultato e preso a spintoni, cosa assolutamente falsa giacché l’impropero è stato pronunciato esattamente due secondi dopo la sua plateale discesa dal palco, quando in sala il silenzio era ancora assoluto.

Si scaglia poi contro gli attivisti definendoli “squadristi” che “usano la condizione difficile di tanti giovani per giustificare fallimenti personali” e non hanno “niente di meglio da fare che organizzare agguati mediatici di questo tipo, magari con giornali compiacenti che pullulano di questi precari”. Perciò, conclude il miniministro con un’antifrasi degna del miglior Joyce “non bevete… quello che vedete”.

Semplicemente fantastico: come a dire non credete a quello che avete visto, date semplicemente retta a me! D’altra parte, chi lo ha visto in televisione, può rendersi conto del macchiettismo involontario del soggetto: petulante, incapace di dimostrare cosa ha studiato, invita tutti a studiare.

Col suo intervento di ieri Brunetta ha dato modo a tutti di vedere come l’Italia peggiore sia in realtà quella che siede nel Consiglio dei Ministri e nei vari Cda sparsi a macchia di leopardo sulla penisola: un’Italietta che vive da sostanziale parassita sul sudore e gli stenti di quelli che in continuazione insulta, svilisce, umilia.

Questa “peggio gioventù”, tanto deprecata dalle alte sfere istituzionali e imprenditoriali, è assolutamente funzionale - anzi, indispensabile - a mantenere alti i profitti e i lifestyle di queste ultime e l’atteggiamento di chiusura che in pubblico e privato dimostrano verso le istanze dei precari, non è altro che sputare nel piatto in cui si mangia, anzi ci si abbuffa, visto che percepisce un super stipendio da ministro che, guarda caso, è pagato dalla collettività.

Perché, in questo Paese al contrario, sono proprio i “bamboccioni, fannulloni, scalda sedie e scioperati” a mandare avanti la baracca. E lo fanno con 1000 euro al mese - quando va grassa - senza la possibilità di ammalarsi e soprattutto senza avere la sicurezza di quella stessa pensione che ora stanno pagando ai loro padri e ai loro nonni. Con la rivoluzione dei contratti lavorativi voluta dalle leggi Treu e Maroni (impropriamente chiamata legge Biagi), siamo stati spettatori imbelli del rovesciamento delle convenzioni sociali che vogliono la condizione dei figli migliore di quella dei padri.

Ma per Brunetta, ospite martedì sera ad "Otto e mezzo", i nostri giovani iperspecializzati con lauree e master postuniversitari non dovrebbero protestare per la loro condizione di sottooccupazione e palese sfruttamento, ma piuttosto “andare a scaricare le cassette ai mercati”. Un altro affondo che lo sterminato popolo dei precari non ha gradito, soprattutto se si pensa da che pulpito viene questa insulsa predica.

Dimentico del suo passato, il Ministro Brunetta - che nel 2008 ha bloccato la stabilizzazione dei ricercatori precari degli enti di ricerca dando il colpo di grazia ad una generazione di menti brillanti - nel 1981 è diventato professore universitario proprio grazie ad una sanatoria con la quale tutti quelli che, a vario titolo, erano precari nelle università, sono stati, assunti come professori.

Ma c’è di più. Nella sua trentennale attività di professore universitario “l’instancabile” Brunetta, acerrimo nemico di chi sta con le mani in mano, ha pubblicato solo due lavori, uno nel 1993 e uno nel 2001, e in entrambi i casi la qualità dei saggi era scadente.

A dirlo non siamo noi ma il sito ISI Web of Science, un enorme database in cui sono catalogate tutte le pubblicazioni universitarie con tanto di numero di citazioni e parametri di impatto della propria attività scientifica. Com’è ovvio, i lavori di Brunetta non hanno avuto alcun seguito né riconoscimento sia a livello nazionale che internazionale. Non gode di nessun peso nel Consiglio dei Ministri, figuriamoci nella comunità scientifica.

Se quella che martedì ha contestato Brunetta è l’Italia peggiore allora dobbiamo prendere atto di vivere in una dimensione parallela in cui il merito e le competenze dei giovani sono un’offesa alla mediocrità e all’incapacità di chi, nella realtà dei fatti, decide delle loro vite. Allo stato attuale delle cose, di certo c’è solo che se i precari decidessero di incrociare le braccia e smettessero di fare gli schiavi per uno stipendio da terzo mondo, il Paese intero sarebbe in ginocchio. Dicono che il vento stia cambiando, speriamo solo che amplifichi la voce di questi giovani “senza voce”.

 

di Fabrizio Casari

Quattro SI messi insieme fanno un NO enorme. Poche volte, in passato, un quorum aveva così ben rappresentato un giudizio popolare complessivo sul governo, le sue politiche economiche e sociali, il suo conflitto con la Costituzione, prima e oltre che quello con le altre istituzioni dello Stato. Il quorum, atteso e temuto, è arrivato come uno tsunami sui flutti del governo che ha tentato ogni mossa, anche la più furbetta, anche la più indegna, per evitarlo. Non sono servite a nient’altro che a determinare l’entità e il peso della sconfitta dell’Esecutivo. Ventisei milioni di italiani hanno dato inizio alle pratiche di divorzio tra la destra e il Paese.

Non è bastato il silenzio stampa da parte dei grandi media, siano essi privati o pubblici al servizio di un privato. Non è stato sufficiente nemmeno cercare di disincentivare l’affluenza alle urne con inviti diretti a non votare, spalmati in lungo e largo dalle dichiarazioni del Premier fino alle previsioni del tempo del Tg minzoliniano. E nemmeno l’ultimo, disperato tentativo d’includere gli italiani residenti all’estero con la speranza di aumentare ulteriormente la soglia del quorum ha avuto successo.

Il popolo italiano, attivatosi sui territori, nei posti di lavoro, sulla rete web, è sceso in campo nel vero senso della parola, riscoprendo il gusto e il piacere della mobilitazione, dello schierarsi contro un pacchetto di misure che sono state considerate inique, sbagliate, pericolose per tutti e convenienti solo per lobbies e cricche che perseguono i loro interessi in spregio a quelli collettivi.

Il risultato straordinario ottenuto pone alcune riflessioni, che riguardano tutto lo schieramento politico, sia governo che opposizione. Il Governo può solo ammettere la sconfitta: suoi erano i provvedimenti sottoposti al giudizio popolare, sue le scelte politiche che li avevano proposti, sua l’ideologia che li aveva ispirati. E, ancor più, indicano con chiarezza che il “tocco magico” del Premier è ormai un pallido ricordo.

Berlusconi, infatti, appare ora come un re Mida alla rovescia, tale è ormai il sentimento generale di ripudio che il popolo italiano gli tributa ad ogni apertura di urne, siano esse destinate al voto amministrativo o a quello referendario. Già il cavaliere aveva miseramente perso il referendum sulle modifiche costituzionali e quelli di ieri sono voti che raccontano, definitivamente, l’irrilevanza delle indicazioni del capo del governo sul tessuto del Paese.

Ha invitato a non votare e gli italiani sono corsi a votare. Ha chiesto di sostenerlo nella sua guerra alla Costituzione - e, di conserva, alla magistratura - e gli italiani gli hanno risposto che sono dalla parte della Carta e dei doveri che essa impone a tutti, uomini di Stato in primo luogo. Impossibile non leggere una batosta per il Governo e impossibile anche non vedere il tramonto di Berlusconi che del governo è Alfa e Omega.

Ha fatto molti danni e molti ancora può farne, ma nessuna proposta che giunge da Berlusconi ha ormai un quoziente di gradimento sufficiente a proporlo come guida politica del Paese e, forse, dello stesso PDL. Il Paese, come ha giustamente commentato Bersani, ha divorziato da Berlusconi. Il Premier non rappresenta più la maggioranza, non incarna più il senso comune degli italiani.

Ma i messaggi arrivano chiari anche all’opposizione, in particolare al PD, che ai referendum non aveva creduto sin dall’inizio, nel timore che il mancato raggiungimento del quorum potesse produrre una vittoria di Berlusconi di cui davvero non c’era bisogno. Ma, soprattutto, la lezione che il centrosinistra deve trarre da questa battaglia vinta è che, nonostante 17 anni di berlusconismo, il tessuto democratico di questo paese tiene. E non solo quello che si manifesta nelle istituzioni che resistono ai golpe striscianti della maggioranza, ma quello che vive nel cuore della società italiana, che al momento buono sa riscoprire il valore determinante della sua capacità di mobilitazione e, quindi, della sua capacità di determinare una nuova fase politica.

Associazioni di ogni tipo, articolate su tutto il territorio, organizzazioni sociali, gruppi d’iniziativa e forze politiche, che in questi lunghissimi e difficilissimi anni hanno lavorato sul territorio, nelle scuole, nei posti di lavoro, nella comunicazione online, in condizioni di cattività, senza risorse se non quelle provenienti dalla loro volontà di non mollare, hanno costituito il collante fondamentale che, insieme alla forza elettorale dei partiti d’opposizione, ha creato i presupposti prima politici, poi numerici, per proporre la sconfitta del Governo. Per ribaltare, insomma, i rapporti di forza elettorali.

Ora, senza voler togliere importanza agli aspetti tattici dello schieramento antiberlusconiano, senza voler ridurre il peso preponderante che una nuova legge elettorale potrebbe avere nel decidere le prossime elezioni, si deve passare dalle schermaglie parlamentari, dai riposizionamenti più o meno settimanali, a un messaggio chiaro: la sinistra, i democratici, hanno voglia di rimettersi in gioco, di uscire dalla sbornia qualunquistica di questi ultimi 17 anni e vogliono farlo sulla base di parole d’ordine precise. La sinistra tutta, complessivamente intesa, non può essere espunta dalla costruzione dell’Italia post-berlusconiana perché, semplicemente, o la sinistra avrà voce determinante in questo processo o, semplicemente, questo processo non inizierà.

Proprio quel terreno così fertile di volontà di partecipazione politica da parte di milioni di italiani, che negli ultimi anni avevano disertato le urne ricche di personaggi troppo somiglianti tra loro, dev’essere quindi il tavolo su cui scrivere l’agenda politica dell’opposizione ed il suo programma di governo. Più che dedicarsi all’annoso (e soprattutto noioso) discettare sull’eventualità del coinvolgimento di Casini, il PD deve assumere una nuova direzione di marcia: il popolo italiano, a maggioranza, ha deciso che la destra berlusconiana è inadatta a governare. Aprire il confronto con questo popolo, permettergli di prendere la parola e contribuire a forgiare il programma politico per l’oggi e per il domani, é la base indispensabile per proporre un cambio di prospettiva politica, una nuova fase storica per questo Paese. Ce n’è un grande bisogno.

 

di Alessandro Iacuelli

Dopo il referendum del 1987, si è tornato a parlare di nucleare civile in Italia dal 21 gennaio 2005, giorno dell'approvazione di una legge apposita sul riordino del settore energetico, meglio conosciuta come "Legge Marzano". L'allora ministero delle Attività Produttive, a tale proposito, fece notare che "in teoria nulla osta perché in Italia si torni all'energia di origine nucleare, visto che i referendum del 1987 riguardavano l’eliminazione dei contributi in denaro da parte dello Stato".

Nonostante questo, la spinta verso il nucleare poteva avere un senso alla fine degli anni '80, avendo ancora l'Italia un mercato dell'energia pubblico e sotto controllo statale, impianti pronti a ripartire e staff tecnico-scientifico tra i migliori al mondo. Ma a fine anni '80, sull'onda del referendum e soprattutto sull'onda del disastro di Chernobyl, tale spinta non ci fu. Si preferì invece, anche a livello governativo, approfittare della sconfitta del nucleare per fare un altro giro di vite con la metanizzazione, convertendo (in modo peraltro costosissimo) a metano molte centrali elettriche funzionanti con altri combustibili.

Non si sta qui a sindacare se la scelta della metanizzazione sia stata giusta o meno ma, una volta presa quella strada, cambiarla completamente adesso significherebbe pagare costi che nessun investitore privato affronterebbe, scaricando quindi sul settore pubblico il compito di pagare. Vero è che il metano dobbiamo comprarlo dall'estero, ma non è certo la via nucleare quella che garantirebbe l'indipendenza energetica: oggi le competenze per riportare il nucleare in Italia non ci sono più.

Moltissimi dei progettisti e tecnici dell'epoca d'oro del nucleare italiano sono andati in pensione, senza trasmettere alle nuove generazioni di tecnici quelle competenze acquisite. Pertanto il nucleare in Italia non sarebbe certamente un "nucleare italiano", ma sarebbe realizzato con tecnologie, personale e aziende estere. Non sarebbe neanche un "nucleare pubblico", in un mercato privatizzato, dove l'unica spinta è il profitto a fine anno. Spinta al profitto che, in nome della sicurezza nucleare, dovrebbe passare assolutamente in secondo piano.

Aprire una centrale nucleare, o riattivarne una in disuso da anni, non è una cosa semplice: servono miliardi di Euro, senza contare il costo del loro mantenimento (i sistemi di sicurezza e quelli per il raffreddamento hanno un costo elevatissimo). Tutti questi soldi, se sottratti ai cittadini mediante erogazione di fondi pubblici, difficilmente andranno per benessere del Paese, nonostante la propaganda in corso: se i profitti del nucleare degli anni '60 e '70 andavano nelle casse dell'Enel (pubblica), questa volta finiranno sempre e solo nelle casse delle multinazionali dell’energia privatizzata.

Il nucleare, per certi versi, è forse peggio del petrolio e del carbone e non è affatto sostenibile e “non inquinante”: produce scorie radioattive non smaltibili (se non in migliaia di anni) che saranno sepolte nelle profondità dei mari oppure sotto milioni di metri cubi di cemento. I punti cardine sono quindi: finanziamenti ed entità degli investimenti necessari, contrarietà delle popolazioni interessate, stato delle competenze, sicurezza, smaltimento dei rifiuti. Su ciascuno di questi punti in Italia si soffre di decenni di arretratezza e di stasi.

Accusiamo un ritardo nello sviluppo di validi sistemi alternativi, prima di tutto il solare e l'eolico, validi strumenti che potrebbero risolvere diversi problemi, se si investisse in ricerca e sviluppo. Con gli stessi soldi da investire per tre o quattro centrali nucleari sarebbero possibili in dieci anni scoperte sul solare che ora possono apparire impensabili. Invece la strategia è di investire in centrali nucleari, che sono pur sempre delle macchine a vapore, per garantire appena il 25% del fabbisogno energetico italiano. Fra trenta anni, tra l'altro.

Tutto questo senza considerare che non abbiamo affatto risolto, ma neanche affrontato, il problema delle scorie. Quella nucleare è un'intera filiera, dalla produzione del combustibile in poi, e stiamo dando inizio alla costruzione delle centrali senza avere preparato un piano di smaltimento delle scorie di tutti gli impianti. Non solo manca ancora l'individuazione del deposito nazionale, ma anche dei centri temporanei di stoccaggio, che sono necessari. Tutto questo non viene affrontato, perché sarà un problema che diventerà cruciale tra 20 o 30 anni, che è un tempo che non interessa a nessun governo.

Quel che è certo è che in caso di ritorno al nucleare in Italia non si tratterebbe di un nucleare italiano, ma di un insieme di politiche energetiche e tecnologie importate dall'estero. Le stesse centrali verrebbero costruite da multinazionali energetiche estere e, data la natura assolutamente anomala del mercato energetico italiano (totalmente privatizzato), l'Italia diverrebbe terra di conquista da parte dei gestori stranieri proprietari delle centrali.

Che occorra una svolta nel settore energetico italiano è indubbio. Sbaglia certo ambientalismo radicale italiano, che ripete ossessivamente che i problemi d'ordine energetico derivano solo dalla necessità di far girare soldi. Il problema è reale: l'Italia ha un parco centrali basato fortemente su petrolio e metano, due combustibili che vanno reperiti all'estero, non sono rinnovabili e sono fortemente inquinanti.

Non dimentichiamo che l'Italia ha firmato il Protocollo di Kyoto, ben sapendo di non essere in grado di mantenere l'impegno, ma in ogni caso ora dovrebbe in qualche modo cercare di contenere le emissioni in atmosfera, e non saranno certo i blocchi del traffico nelle grandi città a risolvere il problema.

All'indomani del grande black-out nazionale del 28 settembre 2003, causato unicamente da una cattiva gestione dell'emergenza e dalla frammentazione del sistema energetico italiano dovuto alla privatizzazione selvaggia, si è assistito ad un coro di voci (compresa quella del Presidente della Repubblica) che senza alcuna nozione tecnico-scientifica e senza alcuna cognizione di causa hanno indicato la necessità della costruzione di nuove centrali e del ritorno al nucleare.

L'Italia di centrali ne ha abbastanza, ne ha anche troppe. Se avviene un black-out notturno è perché, essendo molte centrali ormai private e quindi in gestione a chi deve far profitto monetario, per diminuire i costi si preferisce tenerle spente di notte e si preferisce acquistare dall'estero la poca quantità di energia che serve.

In definitiva, le cose da fare nel settore energetico sarebbero altre: un ammodernamento della rete elettrica nazionale, che ha il record in Europa sia delle perdite sia degli allacciamenti abusivi, una riorganizzazione del coordinamento tra tutti i gestori dell'Energia, dalle centrali alla distribuzione.

La rete elettrica di una nazione fa parte della geografia stessa della nazione, è intessuta sul territorio, fa parte del territorio e senza di essa si ferma la nazione intera. Per questo motivo, una rete elettrica non andrebbe mai privatizzata. Cosa succederà quando sarà di proprietà privata anche il traliccio in campagna ed il cavo aereo? Non ci sarà centrale nucleare che tenga quando il proprietario privato vorrà tagliare i costi ed aumentare i profitti.

E quando quel proprietario privato, magari estero, interessato solo alla salita del proprio titolo su una borsa valori situata dall’altra parte del globo, sarà in possesso di un reattore nucleare situato sul territorio italiano? Ci saranno tutte le garanzie e gli obblighi affinché quel reattore possa essere ispezionato, per quanto riguarda la sicurezza, da parte dello Stato? E lo Stato da dove prenderà personale qualificato per tali controlli? E se saranno privatizzati anche questi controlli? Siamo sicuri di volerci fidare?

di Cinzia Frassi

Tra pochi giorni, il 12 e il 13 giugno, si gioca la partita dei referendum con gli ormai famosi quattro quesiti: nucleare, legittimo impedimento e i due sull'acqua pubblica. Sulle quattro schede i quesiti che in questi ultimi mesi hanno impegnato da un lato il governo a sabotarli e dall'altro il grande popolo dei Si. Grande perché oltre ai promotori, la lista degli aderenti e dei sostenitori è chilometrica: dal WWF ai comitati cittadini, dai francescani ai gruppi di acquisto solidale, dai sindacati confederali a Italia nostra e poi Liberazione, Il Manifesto, Circoli, Movimenti studenteschi, Associazioni ambientaliste e culturali, Arci, Acli e moltissimi altri ancora. A tutti questi si aggiunge la voce della rete, capillare, esuberante, tentacolare che tra blog, siti, social network tiene banco, informa e amplifica le attese per il prossimo voto.

A voler vedere, la campagna referendaria, soprattutto negli ultimi mesi, ha visto la presenza di un elemento che mette perfino una punta di sana ironia: tutto il baccano fatto dal governo Berlusconi per vanificare l'appuntamento. Non solo la questione dell'election day o il tentativo di cancellare il referendum sul nucleare, ma quasi tutta la linea di condotta.

Una corsa forsennata allo stratagemma, fosse per cavillare su un quesito referendario o pontificare sull’energia nucleare con dichiarazioni ai limiti proprio della satira. Paradossalmente, se se ne fosse stato zitto, se non avesse messo in atto tentativi teatrali e grotteschi, magari non se ne sarebbe parlato tanto e la gente sarebbe andata davvero al mare forse.

Ora francamente la gita l’hanno praticamente tutti rimandata. Va da se che una spintarella energica viene anche dall’esito del recente appuntamento con le elezioni amministrative che hanno segnato la sconfitta del governo, del suo entourage e del suo modus operandi.

Non è stato zitto e l’attenzione per l’appuntamento referendario è sempre più alta. Quattro i quesiti, che si traducono, di fatto, in altrettanti No alla costruzione di centrali nucleari sul territorio nazionale, No al legittimo impedimento e ancora No alla privatizzazione dell'acqua.

Il primo quesito sull’acqua (scheda rossa) propone l’abrogazione di quanto introdotto dal decreto Ronchi. In particolare il primo quesito, “Modalità di affidamento e gestione dei servizi pubblici locali di rilevanza economica”, nasce da alcune norme introdotte dal decreto firmato Andrea Ronchi, l'allora ministro per le politiche comunitarie, in seguito convertito in legge a suon di fiducia il 18 novembre 2009. Il decreto era nato per ottemperare a una serie di direttive comunitarie e per provvedere ad adeguare alcune norme censurate a livello europeo: si va dall'etichetta made in Italy alle lampadine "verdi", a questioni amministrative relative al trasporto ferroviario.

A quel decreto si deve la necessità di votare domenica e lunedì prossimi perché ha introdotto l’obbligo per i Comuni di conferire la gestione dei servizi pubblici locali a società miste. Chiede in sostanza che si costituiscano società miste pubblico-privato, mentre la gestione in house diventa una deroga per situazioni eccezionali.

A chi commenta dicendo che spesso la gestione pubblica dei servizi non è sempre un fiore all’occhiello, resta da dire che sarebbe proprio quell’inefficienza a dover assorbire le energie, trovando soluzioni concrete, ma senza utilizzarlo come alibi per creare business ai privati su una risorsa pubblica.

Il secondo quesito referendario (scheda gialla) chiede l’abrogazione di parte di una norma introdotta dal governo Prodi e relativa alla determinazione della tariffa del servizio idrico in base ad una “adeguata remunerazione del capitale investito”. Questo il secondo quesito referendario al quale occorre votare Si.

Quest’adeguatezza della remunerazione consente di gonfiare il conto ai cittadini fino al 7% in più, per remunerare il costo del capitale investito dall’azienda privata, in nome del profitto di pochi. Cancellando questa norma s’intende andare verso una tariffa adeguata al concetto stesso di servizio pubblico.

L’acqua è un bene comune, una risorsa naturale, di tutti: questo il concetto di fondo che i promotori hanno visto violato da una serie di norme. Certo, si difende il principio, ma non basta. Ci sarà da lavorare sul fronte della capacità di produrre una gestione pubblica efficiente, intervenire sulla rete idrica e garantire alla risorsa acqua il massimo della purezza. Di certo è la strada migliore, considerando anche che nei settori dove si è privatizzato in Italia, non ci sono stati sempre risultati apprezzabili.

Nel frattempo si contano ben 47 milioni e 300 mila elettori attesi nelle 61.601 sezioni di voto tra domenica e lunedì. Servono quindi 23 milioni e 650 mila voti per raggiungere il quorum per sancire la validità dei referendum. Ancora meglio: servono più di 23 milioni di SI.

di Mariavittoria Orsolato

La legge è uguale per tutti e se si compiono dei reati tutti sono tenuti a risponderne, indipendentemente dal fatto che siano il Capo del Governo o i ministri, perché il principio della parità di trattamento rispetto alla giustizia è un principio supremo, inderogabile e squisitamente costituzionale. Tra i quattro referendum quello sul legittimo impedimento è sicuramente il più politico: dopo la clamorosa débâcle della maggioranza alle amministrative, la vittoria dei SI sulla scheda di colore verde chiaro potrebbe rappresentare il vero colpo di grazia all’agonizzante Esecutivo Berlusconi.

Il quarto quesito del referendum abrogativo dei prossimi 12 e 13 giugno si pone infatti l’obiettivo di eliminare i privilegi contenuti nella legge ad personam che vorrebbe sottrarre Berlusconi dal giudizio della magistratura per i reati che gli sono contestati e che nulla hanno a che vedere con lo svolgimento delle funzioni di Presidente del Consiglio. Le imputazioni che hanno coinvolto il premier sono state commesse in veste indubbiamente non istituzionale e sono la naturale conseguenza del conflitto d’interessi che da 17 anni caratterizza la sua vita politica.

Nel caso sui costi gonfiati dei diritti Mediatrade e della frode fiscale Mediaset, Silvio Berlusconi è imputato in quanto azionista di maggioranza del gruppo Fininvest. Per quanto riguarda il cosiddetto Rubygate, sono tutti fin troppo a conoscenza dell’abuso di potere che il premier ha esercitato nei confronti della Questura di Milano e dello spavaldo aggiramento delle disposizioni del giudice minorile. Quanto al processo Mills, causa prima per cui il dispositivo del legittimo impedimento è stato escogitato - dopo il fallimento del lodo Alfano - il Presidente del Consiglio ha la certezza matematica di essere condannato, dal momento che il procedimento contro l’avvocato inglese ha già reso la sua sentenza, condannando l’ex consulente finanziario di Berlusconi per falsa testimonianza. Proprio quest’ultimo esempio dovrebbe far riflettere, dal momento che - caso probabilmente unico nel suo genere - abbiamo avuto una sentenza in cui è stato condannato il corrotto ma non il corruttore.

In questi 17 anni di berlusconismo, il cavaliere ha fatto approvare ben 37 leggi ad personam: dal decreto Biondi del 1994, che vieta la custodia cautelare per i reati contro la Pubblica Amministrazione, passando per i vari Lodi (Maccanico, Schifani e Alfano) tutti tesi alla sospensione dei processi contro il premier, per arrivare alle leggi “contra Sky”, confezionate su misura per abbattere la concorrenza televisiva del magnate australiano Rupert Murdoch. Trentasette porcate legislative - come le ha giustamente definite Marco Travaglio - che hanno monopolizzato le attività di Camera e Senato e che agli italiani sono costate ben 2,5 miliardi di euro in termini di ore lavorate dalle Commissioni.

Di per sé il dispositivo del legittimo impedimento è uno strumento giuridico presente in molti paesi e rappresenta una garanzia sacrosanta per gli imputati che, pur volendo essere presenti nelle aule giudiziarie, sono - citando l’articolo 420-ter del codice di procedura penale - nella “assoluta impossibilità di comparire per caso fortuito o forza maggiore”. Il disegno di legge che è stato approvato il 3 febbraio scorso pur se decisamente ridimensionato dalla Consulta poco dopo, risulta palesemente incostituzionale nella misura in cui l’impedimento in questione è rappresentato unicamente dal ricoprire una carica istituzionale.

In applicazione del principio dell’uguaglianza dei cittadini dinanzi alla legge sancito dall’articolo 3 della Carta, Berlusconi deve essere giudicato per i fatti che gli sono contestati e non può sottrarsi al giudizio della magistratura solo in virtù della sua posizione privilegiata. Legittimo impedimento, nella sua attuale accezione, non può quindi significare altro che illegittima impunità e in un momento politicamente e socialmente delicato come quello che l’Italia sta attraversando, non è più possibile rendere al Paese l’immagine di una politica come casta di intoccabili che spavaldamente se ne fregano delle norme solo grazie alla carica da essi ricoperta.

Se non avesse dovuto salvaguardare le sue aziende dai debiti, il cavaliere non sarebbe mai “sceso in campo” ed ora che la bolla berlusconiana è sul punto di implodere, sono già in molti ad abbandonare la nave della libertà come topi terrorizzati dall’acqua. Il 12 e 13 giugno ci si presenta l’occasione per liberare definitivamente il Paese da questo regimetto che ci ha ammorbato per quasi un ventennio e il raggiungimento del quorum è ormai un imperativo morale per tanti. Certo, descrivere l’appuntamento referendario come se fosse prettamente politico potrebbe risultare in una certa misura controproducente, ma di fatto gli italiani hanno per la prima volta la possibilità di affossare una legislatura attraverso un referendum.

Il re è nudo da tempo e nel caso in cui il quorum venisse raggiunto le implicazioni a livello di alleanze (o puntelli che dir si voglia) porterebbero presto o tardi ad una crisi di Governo. Un esecutivo tenuto in piedi dai soli responsabili è pura fantascienza e, dopo la batosta alle amministrative, la Lega sembra sempre più convinta che Berlusconi sia soltanto una zavorra. Anche gli industriali capitanati da Emma Marcegaglia sembrano sul piede di guerra e dalla banca d’Italia il governatore Draghi mette all’indice una politica economica che ha saputo solo tagliare tanto e male.

Questa sedicesima legislatura ha rappresentato un fallimento su tutti i fronti e in fondo lo sa bene anche il Presidente del Consiglio che, dopo aver indebolito e reso sterile il Parlamento, adesso prova anche a scippare agli italiani la possibilità di esprimersi sul ritorno al nucleare, l’acqua pubblica e il legittimo impedimento. Una democrazia che teme gli elettori non può più dirsi democrazia, per questo è importante recarsi in massa alle urne ed esprimere il proprio parere. Come cantava il buon Giorgio Gaber “libertà è partecipazione” e non, come parodiava Corrado Guzzanti e come ci hanno mostrato in questi 17 anni, “fare un po’ come ce pare”.


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