di Fabrizio Casari

Magari sembrerà il problema minore, ma sarebbe bene tenere a mente che ci troviamo a dover votare il 12 e 13 Giugno perché il governo, tramite l’inutile Maroni, stabilì l’impossibilità di celebrare “l’election day”, cioè di accorpare il voto referendario a quello amministrativo del mese scorso. Si sarebbero risparmiati oltre 300 milioni di Euro, certo, ma pur di evitare che la consultazione elettorale amministrativa determinasse di per sé l’affluenza al voto referendario e, con essa, il raggiungimento del quorum, non si è badato a spese e nemmeno a espedienti.

Il terrore vero e proprio che pervade il governo Berlusconi-Bossi-Scilipoti è che gli italiani si pronuncino sui referendum, giacché difficilmente la scheda per loro più importante (quella sul “legittimo impedimento”) verrebbe ignorata nel momento in cui si vota per gli altri tre. Ed è fin troppo evidente che la pretesa di erigersi al di sopra della legge e di decidere egli stesso dei procedimenti giudiziari che lo vedono imputato, vedrebbe una bocciatura sonora nelle urne. Questo era quanto Berlusconi voleva evitare e, a questo fine, si é giocato anche gli ultimi brandelli di decenza politica.

Si deve ricordare che il governo ha tentato ogni mossa possibile per evitare il voto referendario: dapprima cercando di far annullare la consultazione con una furberia da retrobottega, firmando cioè un decreto che sospendeva il precedente, dove si annunciava il rilancio del nucleare. Successivamente, di fronte alla sentenza della Suprema Corte che confermava invece la procedibilità del pronunciamento referendario, ha dato mandato all’Avvocatura di Stato per inoltrare un ultimo, disperato ricorso, presso la Consulta affinché dichiarasse nulla la sentenza della Cassazione.

Sono stati gli ultimi tentativi, in ordine di tempo, per tentare di impedire ad ogni costo la celebrazione del referendum. E non solo perché i temi oggetto della consultazione riguardano direttamente gli affari privati del capo del governo e delle lobby finanziarie che l’hanno da sempre sostenuto, ma anche perché nel corso di questi anni sia da parte della Corte Costituzionale, sia da quella dei cittadini nelle urne referendarie, il governo Berlusconi è uscito a pezzi. Tanto la Consulta, infatti, come i cittadini, hanno respinto in ogni occasione, nei rispettivi ambiti e nelle diverse forme, le forzature anticostituzionali che il cesarismo del cavaliere tentava d’imporre al Paese.

Perché la riduzione della Carta a mero feticcio ideologico è stata, da sempre, l’ossessione del premier. Non per ignoranza giuridica, quanto meno non solo; ma perché l’idea proprietaria che Berlusconi ha delle istituzioni non può trovare concreta applicazione senza che il testo fondamentale sul quale le istituzioni esercitano il loro compito perda efficacia. Questa è stata la madre di tutte le battaglie ingaggiate dal cavaliere in 17 anni di vita politica. Nel perdurare del piagnisteo sulle “mani legate” che il governo avrebbe, intendendo con ciò l’insieme delle norme previste dall’ordinamento costituzionale,

Berlusconi ha tentato con volgare pervicacia forzature istituzionali ad ogni occasione possibile, indifferente ai richiami delle autorità istituzionali che tentano di far comprendere a lui e ai suoi guardasigilli la differenza tra una Repubblica e un sultanato. Avendo una maggioranza parlamentare che risponde ai suoi interessi personali, Berlusconi ha ritenuto che, forte del potere esecutivo e legislativo, potesse sopraffare quello giudiziario.

Il tentativo costante è stato infatti quello di porre il governo al di sopra delle altre istituzioni, cercando d’imporre il volere dell’esecutivo a scapito dei poteri del legislativo e del giudiziario e di porre il ruolo del capo del governo in supremazia nei confronti del capo dello Stato. Insomma, un modo per trasformare la Costituzione in carta riciclabile.

Ha cercato di perseguire l’obiettivo con un modo scorretto nella forma (giacché non predisposto secondo quanto previsto dall’art.138 della Carta) e pessimo nella sostanza (in quanto i provvedimenti erano palesemente viziati dall’interesse privato dei proponenti), di dichiarare l’avvenuto superamento del dettato costituzionale a vantaggio di una “Costituzione di fatto”, che altro non è se non l’affermazione di una volontà proprietaria privata della cosa pubblica da parte del premier e delle sue cricche. Insomma la riproposizione di quello che Antonio Gramsci definiva “il sovversivismo delle classi dirigenti”.

Per fortuna, la democrazia italiana, con tutti i limiti politici conosciuti, ha dimostrato di avere una tenuta forte, garantita sia dalle istituzioni sia dai cittadini. In questo senso é difficile vedere nel voto referendario solo un pronunciamento nel merito dei quesiti e non coglierne il senso politico generale di un’occasione per assestare un altro colpo durissimo al governo Berlusconi.

Di Pietro afferma che il voto referendario non dev’essere un giudizio sul governo: l’intento è quello - comprensibile - di portare al voto anche gli elettori del centrodestra che sono comunque contrari al nucleare, alla privatizzazione della rete idrica e, perché no, anche alle leggi “ad personam”, ma che, probabilmente, non vogliono utilizzare l’occasione referendaria per colpire nuovamente il governo.

C’è però un doppio dato, tutto politico, che non può essere taciuto in funzione tattica: i quesiti referendari sono, per contenuto, una battaglia politica contro la manifestazione esantematica di un morbo turboliberista.

Privatizzare i servizi idrici aumentandone il costo, diminuendone la qualità e limitandone la distribuzione è un esempio chiaro di come il governo (e forse anche qualcuno all’opposizione) intende la cosa pubblica: smantellamento dei servizi pubblici locali come occasione d’affari per le lobbies a scapito degli interessi popolari.

Abolire la norma che obbliga i sindaci alla privatizzazione dei servizi pubblici locali si dice chiaramente cosa si chiede all’amministrazione delle comunità. Ricorrere al nucleare, poi, significa piegare l’economia, l’ambiente e la sicurezza del Paese alle lobby dell’atomo, dopo aver scatenato guerre per conto di quella del petrolio.

Il “legittimo impedimento” è la proposizione di un’idea della giustizia basata su un concetto semplice, che prevede un doppio binario di applicazione, uno per le persone comuni ed uno per i potenti. La riforma della giustizia, necessaria e non procrastinabile, diventerebbe così l’ingiustizia che diventa legge.

Il voto, proprio perché di contenuto e quindi politico, servirà anche per il futuro. Il ceto politico, di centrosinistra o di centrodestra che sia, deve ricevere un messaggio forte e chiaro: il berlusconismo è al crepuscolo perché anche l’ideologia di cui è portatore ormai non ha più senso comune, se mai l’ha avuto.

Welfare, diritti, ambiente, giustizia giusta, lavoro e sviluppo sono i punti da cui si ricomincia dopo aver archiviato la notte oscura della democrazia. Ci si può sedere a terra occupando piazze o impugnando schede e invadendo le urne: sono due modi diversi e ugualmente legittimi di far capire cosa si vuole e, soprattutto, cosa non si vuole più. L’ubriacatura liberista è finita. Chi vuole capire capirà.

di Rosa Ana De Santis

Il caso di Giuseppe Marletta, architetto catanese di 42 anni, ha fatto il giro dei quotidiani. La denuncia disperata di sua moglie davanti alle porte dell’ospedale Garibaldi di Catania ha portato di nuovo all’attenzione dell’opinione pubblica una esperienza esistenziale al limite, che gronda desiderio di giustizia. Un’operazione banale ai denti, poco più di un anno fa, ha lasciato quest’uomo immobilizzato su un letto, tracheotomizzato, raramente cosciente e con momenti di dolore acutissimo ben stampati sul suo viso quando viene sottoposto alla procedura dell’aspirazione o al trattamento della sua piaga da decubito di 10 cm all’altezza dell’osso sacro.

La moglie Irene non risparmia dettagli di questo calvario nella speranza che la conoscenza di questa condizione persuada le persone a comprendere quello che lei chiede per suo marito: liberarlo dalle sofferenze. Ma è soprattutto alle Istituzioni che Irene lancia il suo appello.

Ogni mese 1000 euro vanno per la struttura specializzata in cui Giuseppe è ricoverato. Nessun indennizzo e nessun sostegno arriva dallo Stato, tantomeno si è fatta chiarezza sulle cause che hanno portato un uomo sano a precipitare in questa condizione dopo un intervento banale e di routine. Eppure è in una struttura pubblica che Giuseppe ha nei fatti perso la sua vita e la sua salute e le indagini avviate non hanno ancora portato a niente.

Il Ministero della Salute, attraverso la voce del Sottosegretario Roccella, ha respinto le richieste della signora Marletta, dichiarando di non poter partecipare ai costi. Ma sta facendo qualcosa di più l’agenda politica del Ministero e di tutto il governo. Sta impedendo, legge alla mano, di poter permettere a Giuseppe - che mai avrebbe voluto sopravvivere in certe condizioni - di poter decidere quello che dopo lunghissima battaglia giudiziaria fu permesso ad Eluana.

Ed è a lei e alla pietà, che Beppino Englaro ha invocato vanamente per troppi anni, che Irene s’ispira, indignandosi per uno Stato che l’ha di fatto abbandonata con l’aggravio immorale di non voler risparmiare sofferenze inutili a Giuseppe e di impedire con ogni strumento che ne siano rispettate le volontà.

A dire il vero Irene chiede soprattutto che le Istituzioni si occupino di suo marito, che lo Stato intervenga a sostenere una famiglia, come la sua, con due figli piccoli e uno stipendio da insegnante, che non può farcela ad affrontare costi così pesanti.

La denuncia del caso di Giuseppe è importante, infatti, proprio per capire e svelare fino in fondo tutta l’ipocrisia di un paese che difende strenuamente la vita in ogni sua forma e a prezzo di qualsiasi dolore, fino al punto di calpestare la volontà individuale, ma senza investire nulla di serio e di concreto su quella stessa sacralità della vita tanto osannata. La famiglia Englaro, almeno, ha potuto permettersi per 17 lunghissimi anni che Eluana fosse accudita nel migliore dei modi possibili.

Ma per coloro che non hanno strumenti economici lo Stato, proprio quello che sigla le leggi sulla vita, ha il dovere assoluto di intervenire. Per questo il diniego del Ministero non è accettabile e per questo la difesa della vita si svela per quello che è realmente: una montatura politica e mediatica, una propaganda per il plauso del Vaticano che non ha alcuna credibilità.

Se questo paese ha scelto di non essere liberale, di mantenere sotto traccia una vocazione cattolica, sarebbe meno grave se lo fosse davvero, fino in fondo e se non utilizzasse piuttosto i casi di sofferenza umana per costruire campagne di terrore sull’eutanasia senza aiutare le persone che versano in condizioni disperate. Questa schizofrenia di valori senza il welfare che servirebbe a renderli possibili, costruisce non soltanto una privazione di libertà pesantissima per le persone e un accanimento che manca di pietà, ma rappresenta anche un’odiosa non credibilità istituzionale che arriva ai cittadini come l’annuncio di un abbandono, come lo sconto autoregolamentato di una politica zoppicante.

Bisogna decidere se si vuole costruire lo Stato minimo, quello che lascia l’assoluta libertà, o se si tifa per lo Stato etico, quello che entra nella vita di ogni cittadino. Orribile il primo senza di welfare, orribile il secondo per la vocazione liberticida. La storia dell’Europa moderna ci avrebbe dovuto guidare alla scelta di una soluzione comprensiva e sintetica di entrambe le tradizioni.

Il caso italiano è invece pericolosamente orientato e voler essere tutto l’uno e tutto l’altro. Solo questo può spiegare perché Giuseppe debba rimanere imprigionato in un letto, a qualsiasi costo emotivo e di dolore fisico, e perché tutto quello che serve per accudirlo, medicarlo e non abbandonarlo a se stesso non sia onere delle casse dello Stato.

Questo strano mostro giuridico, quello che partorirà la legge amata dalla Roccella, che chiede potere assoluto sulla vita di ogni singolo cittadino, assumendo quasi un’investitura sacra di giudizio nel merito dei valori, e che si disinteressa di entrare nel merito emotivo ed economico della situazione, diventa solo un’odiosa restrizione.

Quella che ha avuto il suono di un’implacabile condanna sulla scelta di Eluana. Un pubblico ammonimento, un peccato cui rimediare in fretta. Quello che dentro i confini di questa Sacra Romana Repubblica rischia di lasciare Giuseppe alla sua agonia. La politica della pietà e dell’impegno non è in agenda. La parola d’ordine è la vita, purché sia a costo zero e tutta decisa a Montecitorio secondo indicazioni vaticane.

di Sara Seganti

Sarà la volta buona? Il 12 e 13 giugno si raggiungerà il fatidico quorum? Il referendum come strumento di consultazione popolare sembrava, fino a poco tempo fa, avere esaurito la sua funzione storica. Lunghi elenchi di quorum mai raggiunti sono rimasti come cadaveri sul terreno di una flebile partecipazione diretta degli elettori. Ultimo di una lunga serie, il referendum sulla procreazione assistita era stato un autentico fallimento.

Ora, dopo la decisione della Corte di Cassazione che conferma il quesito sul nucleare nonostante l’opportunistico tentativo di marcia indietro del governo, sembra che il referendum possa ridiventare espressione di democrazia diretta e partecipata. Il 12 e 13 giugno si vota su quattro quesiti abrogativi, di cui due sull’acqua, uno sul legittimo impedimento e l’altro sul nucleare.

Complice anche il successo delle opposizioni alle recenti elezioni amministrative e i forti malumori all’interno della coalizione di governo, esiste la concreta possibilità che questi referendum diventino catalizzatori di una richiesta di cambiamento più ampio della scena politica. Insomma, il governo Berlusconi si è infilato in un bel pasticcio, dal quale non sa come uscire.

Ma partiamo con ordine, per ripensare a tutto ciò che è stato fatto dalla maggioranza per impedire a questi referendum di trasformarsi, come sembra stia succedendo, in un giudizio definitivo sull’operato del governo e sul presidente del consiglio. Tutto è iniziato quando, con evidente disprezzo di regole democratiche e denaro pubblico, il governo ha imposto lo scorporo dei referendum dalle amministrative.

A questo è seguito, dopo gli eventi giapponesi e il clamore mondiale suscitato dalla contaminazione radioattiva dei reattori danneggiati di Fukushima, un goffo tentativo di smarcarsi dal nucleare pur, in realtà, non rinnegandolo affatto. Un’autentica truffa varare il decreto legge omnibus, con l’esplicito obiettivo di far saltare il quesito sul nucleare che, sondaggi alla mano, rischiava di portare in massa gli elettori al voto e far raggiungere, così, il quorum anche sull’abrogazione del legittimo impedimento, norma tanto cara al premier.

Ma non è finita qui: la Rai, televisione e radio pubbliche, e tutti gli altri network belusconiani, hanno imposto agli ospiti, per iscritto, il divieto di nominare i referendum nelle trasmissioni con l’assurda scusa della par-condicio elettorale. Ultimo dato, il calcolo del quorum è stato modificato e, da adesso in poi, nel conteggio di quel 50% più uno degli elettori sono stati inclusi gli italiani all’estero, il che rende ancora più impervio il raggiungimento della vetta. Tra l’altro, molti di loro hanno già votato con la vecchia scheda, e a questo punto è difficile capire come verrà conteggiato il loro, visto che il quesito sul nucleare va riformulato.

Insomma, un balletto della peggior specie che esula sempre dal merito dei quesiti che, invece, sono di una certa rilevanza, anche, e soprattutto, ideale. Ecco, perché ci sono effettivamente in ballo tre grandi domande. È giusto discutere di beni pubblici solo in termini di efficienza? La legge può non essere uguale per tutti? Possiamo investire in una forma di energia che non garantisce alle generazioni a venire un futuro sicuro, in nome della promessa dell’autonomia energetica e dell’abbassamento dei costi?

I due quesiti sull’affidamento e la gestione dei servizi pubblici di rilevanza economica pongono queste questioni: la privatizzazione può essere una “modalità ordinaria” di gestione di un bene pubblico come l’acqua, e questa “modalità ordinaria” può prevedere dei profitti stabiliti come un diritto dalla legge?

Abrogare questa norma, per i promotori del referendum sull’acqua pubblica, significa fermare l’opera di privatizzazioni in atto e la definitiva consegna al mercato dei servizi idrici italiani, che invece, per circa i due terzi, sono ancora a gestione pubblica ed è tutto da dimostrare che siano meno efficienti di quelli a gestione privata.

Il secondo quesito sull’acqua chiede di abrogare parte di una norma che permette al gestore privato di aggiungere sulla bolletta dei cittadini un 7% a remunerazione del capitale investito, senza obblighi di reinvestimento per migliorare, o rendere più efficiente il servizio. In pratica, un regalo ai privati che avrebbero, per legge, diritto a fare profitti sulla gestione dell’acqua pubblica.

Il quesito sul legittimo impedimento, la norma che permette a premier e ministri impegnati in attività di governo di sottrarsi alle udienze in tribunale, dopo il giudizio di parziale incostituzionalità della Consulta, verrà sottoposto al giudizio dei cittadini. E chiaramente questo è il quesito che Berlusconi teme di più, per ovvi motivi.

Il quesito sul nucleare, dopo la decisione della Cassazione, è stato trasferito sul nuovo decreto omnibus e diventerà una domanda sull’«abrogazione delle nuove norme che consentono la produzione nel territorio nazionale di energia elettrica nucleare». Su questo quesito la confusione è ancora grande, ma in sostanza sono i commi 1 e 8 dell’articolo 5, quelli che potrebbero riportare tra un anno in auge le centrali atomiche.

Comunque vada a finire, sentire da ogni parte della società civile espressioni di rispetto per l’istituto referendario e inviti ai cittadini ad esprimersi con il voto, è forse il vero cambiamento che stavamo aspettando da tempo. Chissà se basterà a raggiungere il quorum…

 


 

 

 

 

 

di Michele Paris

Il rapporto annuale di Amnesty International sulla situazione dei diritti umani nel mondo contiene una corposa sezione dedicata al nostro paese. Il quadro che ne emerge appare a tratti inquietante. Le preoccupazioni della autorevole ONG per l’Italia riguardano in particolare le continue discriminazioni nei confronti dei migranti, dei rom e degli omosessuali, ma anche i maltrattamenti e i decessi di detenuti. Il tutto in un clima di crescente intolleranza alimentata dagli esponenti del mondo politico.

Il cinquantesimo rapporto di Amnesty è stato pubblicato di recente ed è basato sull’analisi delle restrizioni poste alla libertà di espressione in 90 paesi, di casi di tortura in cento paesi e di processi considerati iniqui in 54 paesi.

La prima parte del capitolo riguardante l’Italia riassume i giudizi espressi da vari organismi internazionali sulla condizione dei diritti umani nel nostro paese. La visita da parte dell’alto commissario dell’ONU per i diritti umani ha così sollevato preoccupazioni per il fatto che le autorità italiane considerano i rom e i migranti come “problemi legati alla sicurezza”, tralasciando invece la ricerca di metodi che favoriscano il loro inserimento nella società.

Di seguito vengono citati i rapporti della Commissione per la Prevenzione della Tortura presso il Consiglio d’Europa e del Consiglio per i Diritti Umani dell’ONU. In essi viene evidenziato il rifiuto da parte delle autorità italiane di introdurre il reato di “tortura” nel nostro codice penale e di abolire invece quello di “immigrazione clandestina”.

Oltre al sovraffollamento delle carceri, si ricorda poi la condanna da parte dello stesso Consiglio d’Europa delle intercettazioni dei migranti in mare e il loro forzato respingimento verso la Libia o altri paesi extra-UE. Una pratica questa che viola apertamente la proibizione, come riconosce il diritto internazionale, di rimandare qualsiasi individuo in un paese dove esistono seri rischi di violazione dei diritti umani.

Nel capitolo riguardante le pratiche discriminatorie, viene evidenziato come siano i rom a subire il trattamento peggiore. I loro diritti all’educazione, all’alloggio, alle cure sanitarie e al lavoro risultano sistematicamente calpestati. A ciò vanno aggiunte, secondo i ricercatori di Amnesty, le dichiarazioni provocatorie da parte di “alcuni politici e rappresentanti di varie autorità” che contribuiscono ad alimentare un clima d’intolleranza non solo verso i rom, ma anche gli immigrati, gay, lesbiche, bisessuali e transessuali. Per contrastare questo clima, lo scorso mese di agosto è diventato operativo l’Osservatorio per la Sicurezza contro gli Atti Discriminatori (OSCAD), un organo della polizia che dovrebbe incoraggiare e semplificare le denunce da parte delle vittime di atti discriminatori.

Sempre per quanto riguarda i rom, vengono ricordati i numerosi sfratti che hanno luogo in tutto il paese e che provocano la disgregazione di intere comunità e rendono impossibile l’accesso al mondo del lavoro e alla scuola. In particolare, Amnesty ricorda il “piano nomadi” del comune di Roma, iniziato nel gennaio 2010 e la cui implementazione ha “perpetuato una politica di segregazione ed ha causato un peggioramento delle condizioni di vita” per molti rom.

Sul fronte delle discriminazioni LGBT, continuano gli “attacchi omofobici”. Inoltre, a causa del vuoto legale esistente in Italia, alle vittime di crimini motivati da discriminazioni circa l’orientamento e l’identità sessuale non viene garantita la stessa protezione di cui godono gli altri cittadini.

Estremamente preoccupanti sono anche le carenze che riguardano i diritti degli immigrati. Per cominciare, le procedure per l’ottenimento dell’asilo non sono facilmente accessibili. Le autorità, inoltre, non proteggono adeguatamente i migranti, così che questi ultimi sono esposti a violenze razziste. Anche in questo caso è evidente lo scadimento di una classe politica, che in maniera ingiustificata associa automaticamente l’immigrazione al crimine, contribuendo alla xenofobia e all’intolleranza diffusa.

L’Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i Rifugiati (UNHCR) e le ONG avevano poi espresso tutte le loro preoccupazioni per i trattati tra Italia, Libia e altri paesi nordafricani per il controllo dell’immigrazione. Una situazione che ha negato a centinaia di richiedenti asilo - inclusi bambini - l’accesso alle procedure di protezione previste dal diritto internazionale.

Oltre ai noti fatti di Rosarno del gennaio 2010, viene citato un episodio dello scorso ottobre, quando un’imbarcazione con a bordo 68 persone venne respinta e fatta tornare in Egitto senza aver concesso ai migranti la possibilità di chiedere eventualmente asilo.

Come altri paesi africani, asiatici e dell’Est Europa, anche l’Italia è stata inoltre teatro delle cosiddette “extraordinary renditions” della CIA. Il riferimento è quello del caso Abu Omar, il cittadino egiziano rapito illegalmente in una strada di Milano nel febbraio del 2003 da agenti statunitensi e italiani e quindi trasferito nel suo paese d’origine per essere interrogato sotto tortura. Se gli agenti americani sono stati condannati in absentia, per quelli italiani la giustizia si è fermata di fronte al segreto di stato posto dal nostro governo.

Numerosi sono anche gli episodi di maltrattamenti ad opera delle forze di sicurezza dello stato. Per Amnesty International persistono le preoccupazioni per la mancanza di indipendenza e imparzialità degli organi preposti alle indagini. Per i decessi in carcere sono emersi dubbi sulla raccolta delle prove circa le responsabilità dei funzionari implicati, tanto questi ultimi rimangono spesso impuniti. I casi più eclatanti citati da Amnesty sono quelli di Federico Aldovrandi, Aldo Bianzino, Stefano Cucchi e Giuseppe Uva.

Il rapporto sull’Italia si chiude con le vicende legali seguite ai fatti del G8 di Genova del 2001. Nonostante le condanne emesse dal processo di secondo grado, molti degli imputati hanno potuto beneficiare della prescrizione. “Se l’Italia avesse introdotto il reato di tortura nel suo codice penale”, fa notare Amnesty, “la prescrizione non avrebbe potuto essere applicata”.

di Fabrizio Casari

Giuliano Pisapia, Luigi De Magistris, Massimo Zedda e Roberto Cosolini sono i nuovi sindaci di Milano, Napoli, Cagliari e Trieste. Sono i nomi contro i quali la crisi della destra al governo si è stampata con ogni evidenza, vista anche la dimensione numerica delle loro vittorie e il fatto che sono spalmate su zone distinte del Paese. Il centrosinistra vince otto ballottaggi su undici e forse, come ironicamente ha dichiarato Bersani, il PDL dirà che si è trattato di un pareggio.

E invece è un cappotto vero e proprio. Per le dimensioni della sconfitta, per l’ubicazione in lungo e largo dell’Italia, è superiore anche alle peggiori previsioni del PDL. I toni terroristici di una Milano che si minacciava invasa da zingari, islamici, spacciatori di droga, ladri di ogni risma, insomma tutto tranne gli alieni, hanno dimostrato come il padrone della destra italiana abbia perso ragione ed equilibrio e, con esse, voti, influenza e credibilità. Con la sua caduta, vengono giù anche i suoi consigliori peggiori, tra i quali spiccano Sallusti e Santanchè, simpaticamente denominati Olindo e Rosa. Colpiva ieri pomeriggio, mentre erano ancora in corso lo spoglio, la home page di Libero, uno degli house organ di Arcore, che titolava: “E adesso godetevi il comunismo”.

Evidentemente, il perseverare negli errori è una caratteristica ineliminabile di una compagine ideologica e isterica che, priva di cultura politica, non può tollerare il giudizio degli elettori che hanno deciso di cacciare la destra dal governo di Milano, dove da 20 anni dettava legge. D’altra parte, una campagna elettorale con i toni come quelli usati dalla destra, è stata ritenuta unanimemente un fallimento di comunicazione politica. E’ vero, ma la questione andrebbe analizzata sotto un altro aspetto: consapevoli dell’aria di sconfitta che tirava in tutta Italia, hanno scelto di giocarsi la carta della disperazione, le bugie, gli insulti, le false promesse, nel disperato tentativo di provare a spaventare l’elettorato per cercare d’invertire la tendenza.

Hanno tentato di tutto, proprio su Milano, consci dell’importanza politica e simbolica del capoluogo lombardo, per cercare di ribaltare il risultato del primo turno: le follie, le finte gaffes di Vespa, l’occupazione militare dei telegiornali in sommo sprezzo delle regole, i toni urlati e paradossali e quelli più pacati. A quest’ultima specie va ascritta la circumnavigazione dell’emittenza pubblica e privata del volto di Cl a Milano, Lupi, spedito a girare come una trottola per ogni studio televisivo a cercare di recuperare i danni provocati dalla coppia Sallusti-Santanchè.

Ma non è stato sufficiente. Perché proprio il voto di Milano è andato assumendo, dal primo turno al ballottaggio, il sapore della sfida politica al cuore dell’impero berlusconiano e del maggiore insediamento leghista (questi ultimi, tra l’altro, perdono persino Novara, roccaforte piemontese del partito di Bossi). Milano è stata la culla, dal Risorgimento ad oggi, di tutti i grandi processi di trasformazione politica, economica e sociale del Paese ed è per questo che il suo voto era così importante per entrambi gli schieramenti. Milano, da sempre, anticipa i processi che si ampliano poi a livello nazionale.

La sconfitta di Berlusconi sotto al Duomo (simbolicamente bissata persino dalla sconfitta ad Arcore) ne è il segno politico evidente. Il crepuscolo del berlusconismo e di Berlusconi in prima persona è cominciato ed è l’aspetto decisivo della crisi della destra che, in Italia almeno, non è mai stata altro che la strenua difesa degli interessi del suo proprietario. E il voto di Milano, come quello di Napoli, dove diventano sindaci due esponenti dell’opposizione di sinistra non targati PD, dimostra ulteriormente che più che una vittoria del partito di Bersani (il cui contributo è stato, ovviamente, determinante) è la vittoria dell’antiberlusconismo, inteso come messaggio di contenuto e stile di governo.

Napoli ha giudicato insopportabile il fiume di balle e mancate promesse del capo dell’esecutivo e, pur non soddisfatta del governo uscente (l’ha fatto capire chiaramente al primo turno), ha ritenuto di dover cambiare guardando a sinistra, perché una sinistra inedita è foriera di speranza, mentre la destra partenopea è una delle parti peggiori della destra italiana.

Il voto, da nord a sud, dalla Sardegna a Trieste (dove il centrosinistra vince anche la Provincia) da Crotone a Macerata, racconta dello sgretolamento progressivo del blocco sociale della destra berlusconiana. E’ un verdetto preciso che esprime un’inversione di tendenza nell’elettorato, che presenta il conto per quindici anni (su venti complessivi) di governo che hanno stremato il paese sotto il profilo economico, sociale e politico. E proprio di fronte all’emergenza economica e sociale e alle incombenze pesanti che gravitano sull’Italia, una parte consistente dell’elettorato moderato ha ritenuto di dover ritirare il credito che pure aveva offerto in passato. Altro che “rafforzare l’azione di governo”, come afferma Lupi: è proprio questo governo che persino gli elettori moderati non vogliono continuare ad avere.

Milano, infatti, dimostra soprattutto una cosa: che la borghesia milanese, conservatrice o progressista che sia, stanca dell’insipienza governativa e dell’incapacità di ascolto a fronte della volgarità galoppante, ha deciso che Berlusconi ed il berlusconismo debbano passare all’archivio della storia del paese, che di tutt’altro ha invece bisogno. Pensare di dipingere uno dei suoi figli, da tutti conosciuto e stimato per le idee e i modi, gentili e misurati, come una specie di Attila ai confini dell’impero, è stato un errore di comunicazione fatale per la destra. Vedere i maggiordomi del bunga-bunga dare dell’immorale ad una persona per bene, composta e colta, è stato il paradosso ignorante e decisivo per la sconfitta del berlusconismo.

Per Salvini, della Lega Nord, il voto di Milano è stato un voto contro Berlusconi, mentre per Cicchitto non si può parlare di “fine del berlusconismo e di Berlusconi”. Ma sono solo i primi colpi che tendono a presentare uno dei prossimi scenari possibili: la presa di distanza della Lega da Berlusconi e, con essa, la fine del PDL e del governo. Bossi e i suoi dovranno, infatti, riflettere a fondo sul costo che potrebbero pagare continuando a tenere in vita il governo, e le difficoltà e le sconfitte dei suoi candidati raccontano bene la crisi di credibilità che la stessa Lega ha presso i suoi elettori. Un segnale d’allarme serio, non certo trascurabile o addossabile per intero al cavaliere.

Se si riproporrà la rottura del 1994 o si sceglierà l’appoggio esterno è ancora presto per dirlo: ma la consapevolezza del ciclo politico che si è chiuso, a Via Bellerio l’hanno ben presente. Insomma, una resa dei conti appare all’orizzonte: magari non assumerà nell’immediato la forma della rottura pubblica ed evidente, ma se verrà confermata la disponibilità annunciata ad una nuova legge elettorale sarà il segno che, in prospettiva, prima ancora della tenuta di questo governo, la Lega si prepara ad andare avanti da sola.

Il disastro elettorale apre uno scontro interno al variegato mondo della destra italiana e già si annunciano i primi colpi bassi. Il partito dell’amore si prepara alle stilettate dell’odio.

 


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