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di Nicola Lillo
“Parole, parole, parole”. Così cantava Mina, duettando con Alberto Lupo nei lontani anni ’70. E questo sembra essere l’esito e l’effetto prodotto dalle parole del Presidente della Repubblica Giorgio Napolitano, durante il consueto intervento di fine anno. Napolitano parla di crisi economica, da cui non siamo ancora usciti, di coraggio, riforme economiche e sociali, equità, più cura per chi subisce i danni più gravi, come i ceti deboli e il Mezzogiorno. Parla della riforma del fisco, degli ammortizzatori sociali.
Nomina le riforme: quelle istituzionali e della giustizia, che “non possono essere ancora tenute in sospeso, bloccate da un clima di sospetto”. Sono questi i temi principali toccati nel corso del messaggio di fine anno, il quarto del Settennato. Una ventina di minuti senza mai un cenno ai ricercatori dell’Ispra, alla Fiat di Termini Imerese, a tutte le altre fabbriche in procinto di chiusura. Un discorso per lo più cosparso di buoni propositi.
Sul tema delle riforme - il più caro, attualmente, alla classe politica dirigente - il Presidente Napolitano afferma che occorrono per “un più efficace funzionamento dello Stato e non possono essere bloccate da un clima di sospetto fra le forze politiche e da opposte pregiudiziali”. “E’ essenziale che siano sempre garantiti equilibri fondamentali tra governo e Parlamento, tra potere esecutivo e legislativo e istituzioni di garanzia, e che ci siano regole in cui debbano riconoscersi gli schieramenti sia di governo sia di opposizione. (…). Si andrà avanti, non ci si bloccherà in sterili recriminazioni e contrapposizioni”. Napolitano ha, inoltre, rinnovato la condanna dell’aggressione a Silvio Berlusconi e l’impegno ad operare per “attenuare le tensioni”. “È mio dovere - continua il Presidente - realizzare una maggiore unità della nazione: un impegno che richiede ancora tempo e pazienza, ma da cui non desisterò”. Conclude il discorso dichiarando che “i cittadini italiani in tempi difficili come quelli attuali hanno bisogno di maggiore serenità. Serenità e speranza che sento di potervi trasmettere oggi con il mio augurio per il 2010”.
Plauso unanime per il discorso, a partire dal premier Silvio Berlusconi, tra i primi a telefonare al Capo dello Stato Giorgio Napolitano, dopo aver ascoltato il messaggio, esprimendo personalmente il suo apprezzamento. La voce fuori dal coro é di Antonio Di Pietro. “Il discorso di Napolitano è di per sé condivisibile, come tutte le dichiarazioni di buoni propositi. Sono improcrastinabili riforme che garantiscano un futuro a questo Paese. Ma per quanto riguarda la riforma della giustizia, il problema è sempre lo stesso: le riforme che vuole questo Governo sono solo ed esclusivamente norme per salvare Berlusconi dai suoi guai giudiziari. Su questo tema, non credo si possa parlare di clima di sospetto, ma di certezza, visto che questi provvedimenti sono già all’esame del Parlamento. Sono sicuro - conclude Di Pietro - che il Presidente della Repubblica saprà essere garante dei principi della Costituzione e che, questa volta, non firmerà questi orrori”.
Ma qual è stato il suo effetto? Oltre al plauso unanime e qualche voce fuori dal coro, da evidenziare è l’intervento del ministro della Pubblica amministrazione, Renato Brunetta. Anche qui, “parole, parole, parole”. Ma non vaghe e generali, come potevano essere quelle di Napolitano, bensì del tutto strampalate. Intervistato da Libero, Brunetta ha affermato che è necessario cambiare anche la prima parte della Costituzione e non solo la seconda (come dichiarato dal Presidente della Repubblica) articolo 1 compreso: “Stabilire che l'Italia è una Repubblica democratica fondata sul lavoro non significa assolutamente nulla”. Bonaiuti segue dicendo: “Sono del parere che non bisogna mai mettere troppa carne al fuoco, però tutto si può vedere”. Come dire: non tutto subito!
Durissimo invece Di Pietro: “Come volevasi dimostrare: dai un dito e si fregano il braccio”. Per l’ex-pm, le parole del Capo dello Stato sono state “forse incaute visti gli interlocutori”. Per essere più chiaro, il leader dell’IDV ha aggiunto: “Napolitano ha messo il vento in poppa alla barca dei pirati che utilizzerà strumentalmente le dichiarazioni di chi rappresenta le istituzioni per distruggere e mortificare le stesse”. A quali altre parole, ma soprattutto a quali azioni e atti governativi, ci dobbiamo prepare?
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di Mariavittoria Orsolato
Prendi 5 e paghi 1. Fosse un’offerta di una qualche catena di supermercati, a quest’ora i punti vendita sarebbero stati presi d’assalto da orde di massaie inferocite; ma della ghiotta promozione in questione si può usufruire solo se si è titolari di un partito politico. Sebbene nel 1993 i 90,3% degli italiani si sia espresso negativamente riguardo ai finanziamenti pubblici ai partiti, è cosa nota che l’odioso meccanismo è stato sostituto da quello ancor più subdolo dei rimborsi per le spese elettorali. Quello che ancora non si sapeva - e che la Corte dei Conti nella sua relazione annuale ha puntualizzato - è che per ogni Euro speso in campagna elettorale sono almeno 4 e mezzo quelli che ritornano nelle casse dei singoli partiti. Le cifre esatte dell’ultima tornata elettorale ammontano a 110 milioni di euro per le spese e a 503 milioni di euro per i rimborsi. Decisamente troppo.
Il problema però non sta tanto nell’eventuale lievitazione nei rendiconti di spesa che le formazioni politiche sono tenute a presentare subito prima e immediatamente dopo il voto: la vera e propria beffa sta nelle norme che regolano la pratica. In base alla legge del ’93, infatti, quelli che formalmente sono rimborsi, ma che effettivamente sono finanziamenti di denaro pubblico, non vanno calcolati in base alle effettive spese sostenute, ma vengono erogati in base ad una cifra fissa calcolata non tanto sulle reali preferenze alle urne ma sul numero degli aventi diritto. E pazienza se il numero di persone che vanno effettivamente a votare sono molte meno di quelle che ne avrebbero costituzionalmente diritto.
Secondo questi dettami, possiamo vedere come per le politiche del 2008 il Pdl abbia incassato ben 206 milioni di Euro, a fronte di una spesa reale di circa 53 milioni di Euro. O come il Pd abbia sopportato costi elettorali per 18 milioni, ma sarà risarcito con 180 milioni. La Lega abbia avuto uscite per meno di 3 milioni e riceva entrate per 41 milioni. E persino un ipotetico baluardo della legalità, come l’Italia dei Valori, pur avendo più volte cercato di invertire la rotta legislativa in materia di rimborsi pubblici, abbia anticipato 3 milioni per incamerare poi, senza fiatare, ben 21 milioni di rimborso.
Ma c’è di più. Anche altre formazioni partitiche che non sono approdate in Parlamento hanno diritto al rimborso pubblico. Così è andata per La Destra di Storace, che a fronte di 2 milioni spesi ne riceve 6 e per la Sinistra Arcobaleno che ne dà 8 e ne riceve 9. Per fortuna però, non si danno contributi a cani e porci e così per liste come “Associazione difesa della vita - Aborto? No grazie” - quell’abominio politico scaturito dall’incontenibile fervore cattolico di Giuliano Ferrara - non avendo raggiunto la soglia dell’1%, non ci sarà l’obbligo d’indennizzo.
C’è però un altro punto che dovrebbe far riflettere più degli smisurati cachet (perché di questo alla fine si tratta) che vengono elargiti agli attori politici. Nel dicembre 2005, agli sgoccioli del governo Berlusconi III, la legge 5122 ha stabilito che i fondi pubblici destinati al rimborso sono dovuti per tutti e cinque gli anni della legislatura, indipendentemente dalla sua durata effettiva. Perciò, anche in caso di crisi e cambiamento di governo, i soldi arrivano comunque. Se infatti prendiamo la XV legislatura - l’ultima del governo Prodi, per intenderci - scopriremo che da quella gli attuali partiti di maggioranza e opposizione hanno guadagnato e stanno guadagnando circa 300 milioni, cento milioni all’anno fino al 2011, data della scadenza naturale della legislatura iniziata proprio nel 2006. Insomma, non importa che il mandato si sia concluso, l’erogazione continua lo stesso e se i pagamenti arrivano in ritardo, si aggiungono pure gli interessi legali!
Ora, non che si voglia insinuare che i partiti debbano svolgere il loro - per quanto pessimo - lavoro cavando di tasca propria tutto il necessario per far ingranare macchine burocratiche così pantagrueliche; la democrazia ha dei costi e solo nei regimi dispotici non esistono partiti da foraggiare. La cosa che preme di più sottolineare è l’assoluta sproporzionalità di questo do ut des squisitamente italiano. La legge attuale è un insulto all’intelligenza e come unico obbligo prevede di dichiarare spese al di sotto di un certo tetto, che corrisponde a circa 50 milioni di euro. Oltre ad essere lautamente rimborsati i partiti, pur non sforando il tetto, tendono a gonfiare le loro dichiarazioni di spesa allo scopo di evitare che i parametri di rimborso vengano fissati proprio sul rapporto effettivo della spesa. Perciò i costi delle campagne elettorali sono cresciuti in maniera smisurata: i contributi statali prescindono da essi e sono molto superiori.
Dal 1994, anno zero della Seconda Repubblica, i cittadini italiani hanno contribuito al mantenimento dei partiti con ben 2.253.612.233 Euro, contro 579.004.383 di spese accertate. Il guadagno netto della compagine politica ha i numeri di una finanziaria: c’è di che congratularsi. Cin cin.
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di Nicola Lillo
La “primavera pugliese” è terminata, morta nello scontro intestino alla sinistra. Nichi Vendola, attuale governatore della Regione, e Michele Emiliano, sindaco di Bari, sono in procinto di compiere un harakiri degno di nota. Se l’intento fosse quello di perdere la Regione, i due amici-nemici si troverebbero sulla giusta via. Il “casus belli” si chiama Udc, per intercessione di Massimo D’Alema.
È lui, infatti, che vuole nella sua amata Puglia l’alleanza con il partito di Casini. Circostanza che metterebbe al tempo stesso fuori gioco Nichi Vendola, non certo apprezzato dal partito dell’Unione dei Democratici Cristiani (il più volubile tra i partiti, date le differenti e divergenti alleanze, con i papabili vincitori, nelle 13 regioni in vista delle elezioni del 2010). Ma neppure il governatore uscente ha una minima intenzione di creare una coalizione con Casini. È da qui che si dipana il problema. Ed è Emiliano l’uomo che D’Alema e il Pd vedono come futuro presidente della Regione.
Ma andiamo per gradi. “Vendola è il nostro candidato, Massimo D’Alema si rassegni”, “sono convinto che la coalizione, anche con l’Udc, vorrà Nichi” (13-9-2009): sono le parole di Emiliano. Il sindaco di Bari non ammette, inizialmente, alcun suo interesse alla presidenza della Regione. Anzi, appoggia candidamente, in opposizione a D’Alema, la candidatura del suo amico Vendola.
Il primo di dicembre Emiliano, cambiando drasticamente prospettiva, dichiara: “Non mi candido, resto sindaco. Ma a Nichi dico: fatti da parte”. “Con Vendola - aggiunge - perdiamo di sicuro e non è che amministrare gli sia uscito così bene” (riferendosi, chiaramente, alle inchieste giudiziarie nei confronti della sua Giunta, che hanno portato alle dimissioni di un assessore). Emiliano continua nella sua invettiva all’ormai ex-amico. “Faccia il nome del candidato e si liberi da un ruolo che gli pesa. La scissione non gli ha giovato: è un governatore senza partito. (…). La primavera del 2005 è finita, bisogna capirlo e voltare pagina”.
Se non che, alcuni giorni dopo, la sua posizione viene nuovamente stravolta, candidando se stesso per le regionali. La situazione che si viene a creare è quella di due uomini per una sola poltrona. Ed è Vendola il primo a parlare di primarie: “Io non mollo” (8-9-2009). Intanto, il governatore della Puglia replica a D’Alema, il quale non ritiene scontata una sua rielezione, affermando che “le primarie sono un laboratorio per la sinistra”, e chiosa: “Caro Massimo, stop agli inciuci”. Ma neppure le primarie sembrano, inizialmente, andare bene.
Anche in questa circostanza nuovo colpo di scena e cambio di rotta: “Nichi, somigli a Berlusconi. Non fare il capo popolo. Chiedo a Vendola che le primarie siano fatte in modo regolare”. E che primarie siano. Gran parte del Pd resta a bocca aperta. È una sorpresa per tutti. “A questo punto, le primarie, le voglio io. Nichi la smetta di parlare di appelli al popolo. Immagini la politica come fatta dai partiti”. Quella di Emiliano è una scelta però personale. Sarà il segretario regionale Sergio Blasi, il 29 dicembre, a confermare le primarie, “aperte” ai sostenitori del centro sinistra e dunque non soltanto agli iscritti ai partiti della coalizione.
Ma la scelta di Emiliano comporta una richiesta. Un nuovo “do ut des” in questa politica, oramai, mezzo-inciucista. Il sindaco di Bari, infatti, chiede in cambio a Vendola, una sorta di provvedimento personale: ovvero che il consiglio regionale modifichi la legge che riguarda l’ineleggibilità dei sindaci, secondo la quale per candidarsi, lo stesso Emiliano, dovrebbe dimettersi, rischiando di perder sia il Comune, che la Regione. La risposta di Vendola è fulminea: “Non posso interferire sull’attività legislativa. I consiglieri sono chiamati a votare senza vincoli di mandato”. Una legge ad personam dunque. Sembrerebbe quasi che questi provvedimenti personali non vadano bene in quel di Roma, ma in Puglia si.
Intanto la bufera si amplia anche sulle date delle primarie. Vendola aveva proposto il 17 gennaio, il suo rivale il 24. Tra le due giornate, il 19 gennaio, si terrà però il consiglio regionale che si esprimerà sulla legge sull’ineleggibilità del sindaco. Se non dovesse essere modificata Emiliano sarà costretto alle dimissioni, provocando nuove elezioni al Comune. Intanto Vendola stempera le tensione ribadendo che, in caso di sconfitta, sosterrà Emiliano, il quale a sua volta ha inviato una lettera aperta a Nichi tramite facebook.
Ma sembra non bastare. È del 31 dicembre la notizia secondo cui il sindaco Emiliano avrebbe ritirato la candidatura: “Senza la modifica alla legge elettorale regionale non si può fare nulla: nessuno può costringermi a candidarmi contro l'interesse di Bari”. Per poi precisare: “Non mi pare proprio che esprima una rinuncia ad alcunchè: si tratta solo di considerazioni politiche che riservatamente avevo trasmesso al segretario del mio partito e che lui ha reso pubbliche con il mio consenso”. Emiliano chiarisce ancora affermando di essere “dell'opinione che questa partita, come avevo sempre detto in precedenza, non è la mia, ma è quella del presidente uscente che adesso deve decidere se consentire la formazione di un'ampia coalizione indicando un altro candidato oppure se ritiene la sua candidatura indispensabile, raccogliere comunque la coalizione più corta e cominciare immediatamente la campagna elettorale”. Dunque, o si elimina la norma sull’ineleggibilità del sindaco, oppure Emiliano rifiuterà di partecipare alle primarie, garantendo (secondo la sua opinione) una sonora sconfitta per il Pd. La scelta a Vendola.
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di Daniele Rovai
Il 24 dicembre 2009, si è aperto il primo cantiere per la realizzazione del Ponte sullo Stretto di Messina, come scrivono tutti i giornali nazionali. Si tratta dello spostamento di 1 km e mezzo della linea ferroviaria Salerno-Reggio Calabria che attraversa Cannitello, il paese della costa calabra che dovrebbe ospitare il pilone principale del futuro Ponte. La “variante di Cannitello” nasce come cantiere propedeutico alla costruzione del Ponte sullo stretto sin da quando, nel 2001, quell’opera viene inserita dal CIPE (delib. del 21 dicembre 2001) all’interno della “legge obbiettivo” voluta dal governo Berlusconi per dare all’Italia infrastrutture moderne per rimanere agganciati all’Europa dei mercati. La ferrovia deve essere spostata per poter costruire il cantiere.
Nel 2006, dopo diversi anni che hanno visto questa grande opera morire e rinascere più volte, il CIPE, Comitato Interministeriale per la Progammazione Economica, approva la cosidetta “variante di Cannitello” (delib. del 6 marzo 2006) sganciando l’opera dal progetto del Ponte, come del resto chiedeva da tempo la Regione Calabria, ed inserendola nel più ampio disegno di ammodernamento de “l’asse ferroviario Salerno-Reggio Calabria-Palermo-Catania”. Il cantiere diventa parte del progetto di sviluppo del “Corridoio plurimodale tirrenico - nord Europa”. La motivazione è che l’opera apporterà “indubbi vantaggi sia al trasporto passeggeri a lunga percorrenza che al trasporto ferroviario regionale”.
Il progetto viene addirittura ampliato: il nuovo pezzo di strada ferrata sarà costruito “in affiancamento alla vecchia linea” - non si smantella niente, né si fa posto ad alcun cantiere per il Ponte - per permettere il successivo interramento dell’intero tratto ferroviario di Cannitello; sarà costruita una galleria artificiale che “renderà disponibile la parte più cospicua del fronte mare”, ripristinando addirittura la stazione soppressa da decenni. Niente male per un paese che vive di turismo.
L’opera viene perciò suddivisa in due lotti separati: il primo, il cantiere originale, che prevede la costruzione della nuova linea; il secondo, un nuovo cantiere, che prevederà l’interramento di quella linea. Viene definito anche il costo: per il primo serviranno 19 milioni di euro e c’é già il progetto definitivo. Per conoscere l’importo necessario all’interramento e alla costruzione della galleria si dovrà invece aspettare il “progetto preliminare” che sarà realizzato dal committente dell’opera. Dagli studi di fattibilità prodotti dagli uffici del ministero si è calcolato una spesa non inferiore ai 224 milioni di euro.
Per la realizazione del progetto viene scelta R.F.I., cioè il proprietario della linea ferroviaria. Lo Stato, azionista di riferimento, gli riconoscerà, a partire dal 2007, “un contributo” di 1,6 milioni di Euro ogni anno per 15 anni (cioè 24 milioni di Euro). In pratica l’opera sarà finanziata aprendo un mutuo che sarà pagato, interessi compresi, dallo stato.
A marzo del 2006, dunque, il CIPE approva la “variante di Cannitello”, cioè il cantiere che apre oggi, e affida ad R.F.I. il progetto per la “variante finale alla linea storica in località Cannitello”, cioè l’interramento, che otterrà il via libera con una successiva delibera del CIPE appena R.F.I. avrà realizzato il “progetto preliminare”. Tutto molto chiaro.
Ed eccoci ai giorni nostri. Il 29 luglio del 2009 il ministro Matteoli chiede al CIPE di riesaminare la “variate di Cannitello” perché è sua intenzione cambiare il “soggetto aggiudicatore”: per il ministro il lavoro deve essere fatto dalla società “Stretto di Messina spa” e non più da R.F.I. Come si può leggere dalla delibera del CIPE, che dopo due giorni discute e accetta le motivazioni addotte dal ministro (del. CIPE del 31 luglio 2009), il cambio deve essere fatto perché la società concessionaria per il Ponte ha “provveduto a riavviare le attività necessarie per la realizzazione dell’opera”, ha “proceduto al rinnovo del vincolo preordinato all’esproprio sugli immobili interessati dalla realizzazione dell’opera stessa” e perché è essenziale “l’apertura accelerata dei cantieri rimasti bloccati o non ancora avviati nella precedente legislatura” tra cui il “Ponte sullo Stretto di Messina”.
Secondo il ministro, ed il CIPE, attribuendo la realizzazione della “variante” alla società Stretto di Messina, si assicurerà “la coerenza con gli altri interventi da eseguire nel territorio calabrese”. Inoltre, scrive sempre la delibera, “il Soggetto aggiudicatore della variante di Cannitello, indicato in RFI S.p.A. viene ora individuato in Stretto di Messina S.p.A., in quanto l’intervento è connesso e complementare al progetto del Ponte sullo Stretto”.
Cambia anche il costo dell’operazione: dai 19 milioni deliberati in via definitiva dal CIPE nel 2006, si passa a 24 milioni. Una variazione che il CIPE approva con un unica prescrizione: sarà cura del ministro Matteoli trovare i 5 milioni in più che servono “entro novembre”, cioè prima dell’apertura del cantiere. In pratica con questa ultima delibera si afferma che un “opera pubblica” che serve ad ammodernare un importante asse ferroviario non sarà realizzata dal proprietario dell’impianto ma da un “soggetto privato” tramite un affidamento diretto, quindi senza alcuna gara di appalto pubblica. Non solo: il CIPE decide anche che il passaggio di consegne tra il “soggetto pubblico”, R.F.I., ed il “soggetto privato”, Stretto di Messina spa, si risolverà con un patto riservato tra le due società che “provvederanno a definire, in apposito accordo, le problematiche connesse alla sostituzione del Soggetto aggiudicatore.”
In sostanza si ha che il cantiere apre grazie a due delibere: quella del 2006 che definisce cosa si deve fare e quella del 2009, che decide il cambio del committente ed il costo dell’opera. Variazioni che sono proposte dal ministero dei trasporti, e accettate dal CIPE, ma che non hanno alcun valore perché la delibera del 2009 integra e non abroga quella del 2006. Il cantiere che si apre è, per la legge italiana, un opera di risanamento e miglioramento dell’ambiente che il governo ha deciso di togliere dalle mani del soggetto pubblico per affidarla ad un soggetto privato che con quell’opera non centra niente. E’ tutto regolare? Non lo sappiamo.
Quello che sappiamo, a parte quello letto sui documenti ufficiali, è che qualche mese fa, per l’annuncio dell’apertura del cantiere, il governo ha fatto dichiarazioni mirabolanti che hanno conquistato le prime pagine dei giornali e le dirette televisive. Ora che il cantiere viene aperto, solo uno scarno comunicato stampa. Possibile che si annunci un opera in pompa magna e poi, quando l’opera viene inaugurata, lo si sappia leggendo semplici didascalie pubblicate nelle pagine interne dei giornali? Forse perché, ora che l’opera è partita - e tutto è nero su bianco - se si fa troppa pubblicità qualcuno potrebbe iniziare a fare domande imbarazzanti?
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di Rosa Ana De Santis
Adesso è l’amore che prevale. L’odio conseguentemente arretra e, con l’avanzamento dell’amore, è il clima che si fa migliore. No, non è l’ennesima banalità della rubrica di Alberoni: è il nuovo corso del sentimento politico italiano. Che parli d’amore chi lo compra e che combatta l’odio chi lo fomenta, sono dettagli; inutili orpelli fastidiosi che si frappongono tra le parole e i fatti, creando inopportune richieste di coerenza. L’amore, quello che va ora per la maggiore, è una straordinaria trovata di comunicazione a fini pubblicitari. Quasi come lo fu Forza Italia (chi è l’italiano contro l’Italia?) o il Popolo delle Libertà (chi è che non vuole libertà?), il nuovo claim tende ad uniformare i gusti prima delle opinioni, contrapponendo l’odio all’amore (chi è che potrebbe detestare il sentimento più bello per eccellenza?).
Lo smemorato di Cologno, come lo chiamavano al tempo del Lodo Mondadori, non ricorda di aver apostrofato come “coglioni” gli italiani che votavano per il centrosinistra; di aver dato degli “assassini” e dei “farabutti” ai magistrati che indagano sulle sue avventure finanziarie prima della sua “discesa in campo”; di aver definito “kapo’” l’eurodeputato Shultz che chiedeva conto del suo agire; delle dichiarazioni dei suoi fedeli tipo Gasparri; degli insulti di Brunetta nei confronti dei lavoratori pubblici - fannulloni se impiegati, panzoni se poliziotti - o dei cortei dei suoi aficionados con le bare dedicate a Prodi. E, quasi certamente causa medesima sindrome, deve aver dimenticato i delicati titoli del giornale famiglio e del suo direttore, che per cause ancora da accertare non è stato radiato dall’Ordine dei giornalisti. Roba vecchia, acqua passata, quello era amore ai tempi del colera: adesso é un’altra storia.
In un messaggio natalizio indirizzato alla comunità di Don Gelmini, il nuovo Cavaliere in odor di santità si è detto certo che “nel 2010 il governo proseguirà sul cammino delle riforme, per le quali ha avuto il mandato della maggioranza degli elettori". Dev’essere l’effetto dei postumi dell’impatto con la statuetta del Duomo, perché in verità lui ha avuto solo il 37 per cento dei voti, cioé meno del 20 per cento degli italiani; ma fà lo stesso, grazie alla legge porcata di Calderoli. Ha anche aggiunto che il 2010 sarà l’anno nel quale il governo “sconfiggerà la droga”, e questo a Tarantini deve aver procurato qualche sobbalzo...Per motivi di sicurezza, intanto, la fermata dell’autobus di Via del Plebiscito, a Roma, di fronte a Palazzo Grazioli, é stata soppressa: le persone comuni sono rischiose, nessun problema invece per le ospiti del palazzo, che arrivano notoriarmente in macchine con i vetri oscurati.
Dunque il Cavaliere nero si trasforma in rosa, mentre nell’opposizione (grigio plumbeo) si litiga tra chi dovrebbe odiare e invece dialoga e chi dovrebbe amare e invece odia. Ratzinger non ha voluto essere da meno. All’Angelus della scorsa settimana, nel saluto in lingua italiana, il Papa tedesco ha fatto appello all'«amore vicendevole e alla reciproca comprensione». I due, uniti dall’essere vittime a distanza di pochi giorni dall’attacco del comodo psicolabile di passaggio, si presentano alle folle accomunati dall’ingiustizia subita, dalla santità del perdono e forti della obbligata solidarietà di tutti, amici e nemici.
Ancora dolente per le critiche ricevute al processo di beatificazione di Pio XII dalla comunità ebraica e da tutti coloro che hanno studiato un po’ di storia, Ratzinger ha trovato comunque sotto l’albero la promessa del governo italiano di aumentare l’impegno per soddisfare i desiderata d’Oltretevere nella compressione ulteriore del libero arbitrio degli italiani. Ci aspetta quindi un nuovo anno vecchio come e più di quello passato, con il lupo che si finge agnello e il pastore che si conferma lupo. Il gregge, è proprio il gregge che non si accorge del pericolo che preoccupa.