di mazzetta

L'aggressione al premier ha rappresentato allo stesso tempo una ferita ingiusta all'uomo e all'istituzione, una piccola disgrazia per il paese e un bel problema per l'opposizione. Nell'occasione l'Italia è sembrata un paese sull'orlo di una crisi di nervi, ma la cacofonia generale è invece frutto di azioni calcolate; spesso male; e mirate a cogliere vantaggi politici dalla notizia del giorno.

Liquidato il campo dalle ipotesi più bizzarre, come quella del “fuoco amico” o del pazzo guidato dagli avversari politici, resta in bella evidenza solo il velocissimo tentativo di approfittare del fattaccio da parte degli associati al premier, perché se avessero veramente a cuore il tono e la qualità del dibattito politico, avrebbero minimizzato e sopito.

Di dichiaranti con il pelo sullo stomaco, capaci di diffondere le peggiori calunnie, ne hanno parecchi e non è stato per niente difficile arruolare gente nella caccia ai “responsabili morali” tra le fila dell'opposizione al sire di Arcore. Anche se è stato chiaro fin da subito che si trattava del gesto di uno sconsiderato isolato.

L'opposizione è rimasta disorientata da accuse del genere e dalla furia con le quali sono state scagliate, anche se non sono accuse nuove, perché negli ultimi mesi è stato proprio il premier, ormai isolato e inviso come un appestato, a gettare continuamente offese e secchiate di letame ai suoi nemici. Offese anche molto pesanti, ribadite dai media che controlla e sostenute dai “politici” che ha miracolato, calunnie a profusione e toni da guerra civile, ogni giorno ad annunciare un golpe o a dar del frocio agli avversari. Il più fesso è stato Di Pietro che, come gli capita spesso, ha trovato le parole sbagliatissime per esprimere la sua ribellione a questa ipocrisia, offrendo benzina al fuoco degli unni. Altri non hanno saputo fare di meglio e hanno dovuto piegarsi al fuoco di fila su televisioni e giornali.

Ad accompagnare tutto le immagini del premier ferito, immagini crude che mettono tristezza e che non possono piacere a nessuno, subito macinate dai media di ogni colore e latitudine, l'inciviltà dell'immagine che strumentalizza il grande comunicatore, che però in questo caso è anche un uomo ferito e sofferente. Ma nessuno ha rinunciato a pubblicarle più e più volte, vendono più di qualsiasi geniale editoriale e la fatica nel pubblicarle equivale a zero.

Un grande rumore che ha scatenato un grande caos, fatto di affermazioni deliranti e anche di veri e propri sciacallaggi istituzionali, come quelli del ministro Maroni, che dopo aver fallito nell'assicurare la sicurezza del premier, adesso vorrebbe chiudere internet e proibire le contestazioni, ridicolo se non facesse sul serio per deflettere le sue responsabilità.

“Italiani, sempre rumore, sempre casino”, lo devono aver pensato quelli di Facebook, tirati in mezzo perché le discussioni e le reazioni degli utenti hanno offerto il pretesto per indicare utili istigatori del crimine in qualche migliaio di balordi che hanno colto, pure loro, l'occasione di spararla grossa. Un cortocircuito per il quale moltissimi tra i molti milioni di messaggi che passano al giorno sul sito, hanno offerto l'occasione di strillare al reato.

Non bastasse questo, alcuni furboni, che si dilettavano a costruire gruppi falsi per recuperare dati degli utenti, hanno di colpo cambiato nome ad alcuni siti-bufala, trasformandoli in pagine a sostegno del premier. Un furto del consenso di una massa enorme di persone, ad esempio il gruppo “No Facebook a pagamento” (una bufala, perché FB non ha mai ipotizzato una cosa del genere), aveva due milioni d’iscritti.

Tutta gente che ieri aveva ancora un diavolo per capello a causa della truffa. Facebook ha reagito salomonicamente, rasando all'ingrosso centinaia di gruppi, forse la risposta migliore alle minacce del governo e al ribollire degli utenti, di sicuro la più semplice e immediata. Gli utenti “innocenti” potranno appellarsi alla procedura interna o rifare comunque un account usando un altro indirizzo mail. Forse il caso relativo è stato almeno un'utile una lezione sullo stare in rete con gli occhi aperti, che gentaglia pronta ad approfittare dell'ingenuità altrui ce ne sarà sempre.

Anche il sito de Il Giornale si è segnalato come una discreta raccolta di letame: dagli inviti a uccidere Travaglio e altri, fino alla proposta di pene medioevali per i “rossi, non si sono fatti mancare proprio niente. Eppure lì i commenti devono essere approvati dalla redazione prima di apparire, non è un sito come Facebook che non filtra nulla o come Indymedia; che in più offre l'anonimato agli utenti, lì appaiono solo quelli che sono ritenuti opportuni. Vedremo che farà Maroni quando si renderà conto che dovrebbe rasare tutti i siti dell'estrema destra e pure chiudere Radio Padania, dalla quale si è incitato al linciaggio di quelli dei “centri sociali”, che non c'entrano niente con l'aggressione a Berlusconi, ma stanno un bel po' sulle balle e sono comunque più intonati all'occasione dei soliti musulmani e anche dei negri.

Caos, rumore che all'opposizione è costato anche il naufragio della fantastica iniziativa della “mille piazze” del Partito Democratico, che doveva essere la forte iniziativa contro il governo, diversa dal No-B Day violetto, del principale partito d'opposizione. Come sia andata non si sa, non ne ha parlato proprio nessuno, come se non si fosse mai tenuta, anche i motori di ricerca restituiscono solo l'immagine del totale disinteresse. Anche il flop di Berlusconi in piazza del Duomo è passato sotto silenzio, c'era poca gente, a far risaltare qualche decina di rumorosi contestatori e il premier che arringava astioso dal palco i fedelissimi adoranti, ripreso ovviamente in campo stretto, a vedere piazza del Duomo dall'alto faceva tristezza per quanto era vuota.

Tutta questa agitazione spettacolare però, non è servita a molto; già oggi il governo ha dovuto mettere la fiducia alla finanziaria, segno che l'attentato non ha per nulla compattato la pur ampia maggioranza e che il timore d'imboscate c'è ancora tutto, mentre la soluzione dei problemi giudiziari di Berlusconi s'allontana correndo.

L'immagine è quella di un fallimento esteso ben oltre il gradimento di piazza, l'aggressione ha offerto una sospensione momentanea della pressione sul leader, ma il partito di maggioranza del paese senza memoria, farà bene a non contarci troppo. Se Berlusconi e i suoi sono cinici bastardi, quelli che si stanno accordando per liberarsi del suo governo non sono certo di primo pelo e, tra qualche giorno, l'effimero impatto mediatico dell'incidente sarà superato. Allora premier si concederà l'inevitabile gesto di magnanima benevolenza verso la famiglia dell'aggressore, ma già si starà parlando d'altro.

Il colpo di statua non è sufficiente a provocare un colpo di stato, ma nemmeno a miracolare un governo che non c'è più da tempo, Berlusconi uscendo dall'ospedale si ritroverà esattamente dov'era prima di domenica.

di Rosa Ana De Santis

La cronaca di una legge faticosa, che andrà avanti tra fiumi di emendamenti, tornerà in aula a fine gennaio. Il dibattito si accende a mesi di distanza dalla morte definitiva di Eluana. Le emozioni si sono fatte più calme, tv e giornali hanno dimenticato le oratorie di quei giorni e l’iter di una legge nata sull’emergenza di un caso individuale si è trasformato in procedura di palazzo. Il silenzio con cui si lavora alla legge sulla fine della vita rischia di consegnare a tutti noi una legge vincolante e restrittiva che di Eluana e del suo messaggio di libertà non conserverà quasi nulla, se non un veto morale.

Il relatore del testo in commissione Affari sociali alla Camera, Domenico Di Virgilio (Pdl), sa bene che la Camera non è il Senato e che lo scontro politico sarà più duro, più arduo il compito della mediazione. Gli emendamenti, soprattutto quelli presentati dai Radicali, sono numerosissimi. Segni evidenti di un atteggiamento ostruzionistico che vuole smascherare la legge per quello che è e che non riesce a diventare. La maggioranza è fiduciosa e ritiene che il testo, con le implementazioni degli emendamenti che lo migliorerebbero nella sostanza scientifica rendendolo più circostanziato, potrà ottenere i consensi trasversali che servono per passare il voto senza ricorrere alla sola asciutta vittoria di maggioranza.

L’estensione di quanti potrebbero beneficiare di questa legge, non solo le persone in stato vegetativo, ma anche coloro che sono in stato di coma, e la relazione stabilita tra idratazione e alimentazione forzata e la salute o l’ipotetico danno alla salute del paziente, dovrebbero rappresentare la possibilità teorica di incontrare il consenso di quanti vogliono vedere in questa legge uno strumento per esercitare la propria autonomia di scelta rinunciando al paternalismo medico o ai valori imposti per mano della legge.

In realtà questa interpretazione ottimistica di adesione trasversale alla legge incontra il solo consenso di quanti la scelta di Eluana e della sua famiglia l’hanno condannata. In quei giorni con formule aspre di condanna, oggi con un linguaggio timido, all’apparenza nutrito di termini e fine preoccupazioni mediche che nasconde però il convincimento di sempre. Un’altra Eluana no. Questa legge viene inquinata nel suo atto di nascita non soltanto dal solito abuso di potere da parte del Vaticano, ma da una diatriba, tutta funzionale al governo e molto più pericolosa, sull’eccesso di potere che le toghe hanno avuto nella consacrazione ufficiale e pubblica della morte di Eluana. Toghe, va ricordato, intervenute a sanare una mancanza della politica, un vuoto legislativo dovuto alla resistenza culturale di rivedere il teorema–tabù dell’indisponibilità dei limiti estremi dell’esistenza.

Paola Binetti e la collega Dorina Bianchi si danno un gran da fare, lo testimonia l’incontro su 'Testamento biologico. Menzogne e verità, per convincerci che il ddl Calabrò è stato modificato, che ha una veste laica e accettabile da tutti, che l’interruzione dell’alimentazione e idratazione artificiale non sarà vietata in modo assoluto. Rassicurazioni che dicono tutto quello che non può essere svelato. La valutazione dei casi come quello di Eluana saranno mediati da valutazioni scientifiche, peraltro difficilmente sostenibili di fronte a persone ridotte in stati irreversibili di coscienza, dal coro dei medici e dei familiari e da valutazioni istituzionali sulla vita, sulla persona e sul senso della morte che non riconoscono mai come assoluta e dirimente la sovranità del singolo. Non è un caso che Mons. Mogavero, presidente della Commissione Affari Giuridici della CEI, non protesti e anzi chieda che questa legge non sia neppure chiamata testamento.

La vita, lui dice, non è una cosa da lasciare in eredità. Non è patrimonio economico, casa o roba. E ha ragione. Non c’è modo di misurarla o di contenerla in confini neutri. Non è la valutazione di un medico e un certificato clinico che basterà a dare valore a ciò che per ognuno di noi potrebbe non averne alcuno. Il caso Englaro ha testimoniato la fatica del rispetto per un modo di vedere la vita che possiamo non capire, anche non sopportare. Una sfida etica di liberalismo dei valori che la politica italiana perderà insieme alla memoria. Eluana sarà dimenticata. Un errore giudiziario, un incidente di percorso. Una superbia di laicismo assecondata dai tribunali. Un peccato che il Parlamento ha già condannato.

di Mariavittoria Orsolato

Nonostante lo scorso sabato Roma sia stata invasa da quello che in molti hanno già etichettato come il “popolo viola”, l’apertura di tutti i telegiornali nazionali è stata dedicata all’arresto di due latitanti appartenenti a Cosa Nostra - Gaetano Fidanzati e Giovanni “U Picciutteddu” Nicchi - e al solito compiaciuto chiosare di Padron’Silvio, che in una delle sue migliori performance è riuscito a dire che l’operazione della Catturandi è stata “una risposta a chi mi calunnia”. Certo, gli organizzatori e i simpatizzanti del "No B Day" non si aspettavano la copertura mediatica che normalmente merita un evento in grado di mobilitare centinaia di migliaia di persone, ma a molti l’annuncio della cattura di quelli che sono stati definiti “superlatitanti” ha fatto storcere il naso. Non tanto per l’operazione in sé, quanto per la tempistica magistrale con cui le due notizie si sono sovrapposte nelle principali testate giornalistiche italiane.

A confermare le posizioni di quanti hanno interpretato questa coincidenza come un’incongruità ci ha pensato Giocchino Genchi - il superconsulente antimafia - che durante un convegno tenutosi a Cevegnano del Friuli il 6 dicembre, ha affermato come l’operazione nei confronti dei due picciotti sia stata una “cattura ad orologeria arrivata puntualmente dopo le dichiarazioni di Spatuzza e in concomitanza con il No Berlusconi Day”.

Per spiegare le sue ragioni, Genchi racconta di come Fidanzati sia un 75enne gravemente malato la cui latitanza era dovuta alla scarcerazione per seria patologia, mentre Nicchi - presentato come numero 3 di Cosa Nostra e delfino del boss palermitano Lo Piccolo - è probabile che stesse andando a costituirsi perché ormai braccato dagli uomini dei quello stesso Salvatore Lo Piccolo (arrestato il 5 novembre 2007), che in realtà più che volerlo come erede lo voleva morto.

Sebbene le affermazioni di Genchi possano sembrare una svalutazione dell’operato delle forze dell’ordine, l’analista siciliano tiene a precisare come i risultati delle varie squadre mobili siano solo frutto della buona volontà di agenti che mettono letteralmente i soldi di tasca propria, e non di un Governo che davanti ai microfoni si vanta del proprio operato ma nelle manovre taglia fondi e risorse. Anzi, a quanto afferma Genchi, le sue dichiarazioni nascono proprio da una serie di telefonate ricevute la sera del 5 dicembre: “I veri poliziotti che hanno fatto quella cattura si sono vergognati e se ne sono andati e mi hanno telefonato, mi hanno detto qui stanno facendo uno schifo”.

Sui blog - perché finora sono gli unici organi che hanno ospitato la notizia - si è immediatamente acceso un dibattito sull’essere pro o contro Genchi, ma nella foga di commentare in molti paiono aver perso il nocciolo della questione, ovvero che i due latitanti arrestati non erano in realtà quelle teste di serie che i media mainstream ci hanno dipinto. Basta digitare i nomi dei due corleonesi su Google per farsene una breve ma esaustiva idea e verificare così le pesanti affermazioni di Genchi: il sito Mafieitaliane.blogspot.com indica ad esempio come “U picciutteddu” Nicchi fosse effettivamente osteggiato da Lo Piccolo a causa delle sue prevaricazioni sul territorio di famiglia. A sua volta, Wikipedia testimonia poi come dal 2003 Gaetano Fidanzati faccia davvero dentro-fuori dalle carceri a causa della sua malattia.

E’ certo vero che i due erano inseriti nella lista dei 30 latitanti più pericolosi d’Italia, ma a voler essere sinceri è anche vero che Nicchi e Fidanzati erano sicuramente i più raggiungibili, o perlomeno i più vulnerabili. Da qui le legittime perplessità sull’enorme rilevanza che i giornali ed i telegiornali hanno dato alla notizia degli arresti. Se a questo aggiungiamo il fatto che il sito de Il Giornale ha dato conto dell’arresto dei due latitanti ben 4 ore prima delle principali agenzie di stampa, non sarà difficile comprendere il grado di spettacolarizzazione che si è volutamente donato alle vicende.

Sabato 5 dicembre alle 12.18, la versione online della testata di Feltri apriva infatti titolando “Mafia, presi i boss Nicchi e Fidanzati. Berlusconi: risposta alle calunnie”, mentre agenzie come l’Ansa o l’Agi, pur notoriamente veloci, non sono riuscite a saperne nulla fino alle 16.30 circa. Le congetture vengono così servite su un piatto d’argento e, dato che il caso Boffo ha segnalato l’inadeguatezza delle fonti giornalistiche de Il Giornale, viene spontaneo pensare che l’esclusivo scoop sia il risultato di una velina piuttosto che di una soffiata.

Una cosa è comunque certa: l’informazione nostrana, compresa quella ritenuta storicamente “a sinistra” come il Tg3, è caduta nel trappolone che un Padron’Silvio sempre più annichilito dalle rivelazioni dei pentiti, ha architettato nella doppia speranza di apparire un po’ meno colluso di quanto non sia e di eclissare la risonanza di quel popolo viola che lo vorrebbe vedere finalmente processato.

 

di Giovanni Cecini

Rutelli vincitore e Fini sconfitto. Il primo sindaco di Roma, mentre il secondo soddisfatto per una prova di piena maturità politica. Era il dicembre di sedici anni fa e i due “giovani” politici dell’Italia post Tangentopoli si davano battaglia nella prima vera tornata elettorale della cosiddetta Seconda Repubblica, quella che con un sistema prevalentemente maggioritario ricompensava non più un ammassamento centripeto, ma la migliore tra le due coalizioni nette e distinte. Una novità nella novità. Il battesimo lungo le acque del Tevere era significativo, anche perché mai fino ad allora gli elettori avevano votato per via diretta il loro primo cittadino, dopo esperienze poco trasparenti di sindaci capitolini giudicati intrallazzini e amminestratori.

Ha del paradosso quindi sentire oggi i due esponenti, che nel frattempo di vita politica ne hanno consumata molta, ricoprendo incarichi importanti o incassando alterne e dolorose sconfitte, trovarsi così vicini nel tentativo di affossare quel sistema bipolare tanto agognato da entrambi, in un tempo dimenticato quando Berlusconi era presidente solo del Milan. Oggi il nemico non sembra essere più dall’altra parte dello steccato, ma viene incarnato per ciascuno di loro proprio dal Cavaliere, che - ancora con uno snobbismo da non-politico di mestiere - guarda con superiorità tutti coloro che nella vita non hanno fatto altro che cercare consensi tra gli elettori.

Panta rei, tutto cambia e muta pelle. Berlusconi e Fini ciascuno deve molto all’altro, se sono rimasti l’unica alleanza costante in quindici anni di elezioni maggioritarie. La candidatura capitolina dell’ex missino fu allora il primo posizionamento del Biscione, ancora prima della sua “discesa in campo”; i missini colsero la palla al balzo per affrancarsi come possibile partito di governo. Lo sdoganamento della destra iniziò in quella occasione, in forma autonoma, e da quei giorni il camerata Gianfranco ha molto remato per allontanarsi dal passato ingombrante, tanto da scavalcare non solo la sepolta Forza Italia, ma ritrovarsi corteggiato dall’ex rivale rossoverde, convertito al cattolicesimo e a un’idea meno riformista della società.

La politica italiana offre molte sorprese e oggi più di ieri sembra presentarne, se proprio Rutelli rinnega la sua appartenenza ai progressisti, oggi incarnati da un confuso Pd, per forza di cose alla ricerca di una chiarificazione con la galassia di movimenti e partiti che si schierano alla sua sinistra. Probabilmente il bipolarismo non morirà oggi e non saranno Rutelli e Fini a leggerne il discorso funebre, tuttavia la situazione fa riflettere. Quando il Pdl dovrà cercare un nuovo leader, uscito di scena Berlusconi, la guerra intestina già dichiarata al suo interno rischia di divenire un nuovo affondamento della balena bianca, con la differenza che l’identità democristiana già ne è fuori e potrebbe a quindici anni di distanza prendersi la rivincita, con relativi interessi.

Il destino è quindi in una nuova Dc al cui vertice vi sarebbero Casini, Fini e Rutelli, che possano bilanciare da una parte le turbolenze leghiste e dall’altra le derive comunisto-giustizialiste? Anche se non ci sono scommettitori pronti a darlo per vincente, è uno scenario ipotizzabile, almeno quanto possibile una fuga “in esilio” del prurimputato Silvio sulla falsa riga dell’amico Bettino. Se andasse veramente così, la Seconda Repubblica verrebbe ricordata come la parentesi di Berlusconi, al cui termine avremmo ciò che abbiamo abbandonato della Prima: maggioranze bloccate su asse centrista. Il ruolo di opposizione rimarrebbe a un Carroccio sempre più a vocazione macro-regionale e un Pd, magari con un inutile 30%, ma alla ricerca di un’identità propria.

Non è una grande prospettiva, ma se Bersani, Di Pietro e Vendola non sapranno offrire nulla di nuovo e di convincente, continueranno a perdere, come avvenne ad Occhetto nel 1994, e lasciare le luci della ribalta ai nuovi centristi vicini ai valori e ai voleri del Vaticano. Magari, se proprio vogliamo fantasticare, una Terza Repubblica con Fini al Quirinale e il duo Casini-Rutelli nel redivivo amore-odio tipo Forlani-Andreotti. Per molti un pericoloso incubo, per molti un modo come un altro per liberarsi di Berlusconi e continuare negli antichi giri di valzer di sapore democristiano. A questo punto tornerebbe di moda un’eccellente battuta di spirito, di moda negli anni Trenta: «Chi salirà al governo una volta morto Mussolini?» La risposta non poteva che essere: «Giolitti!»

di Fabrizio Casari

Un milione di persone? Cinquecentomila? Sono tante. Tantissime. Ancor di più se si considera che arrivano spontaneamente, con un passa parola degno dei nostri tempi, su Internet. Sono i social-network, i blog e i siti internet a fornire e a gestire l’idea di un raduno di popolo. In un’Italia sommersa dall’informazione di regime, dove il controllo totale del Presidente del Consiglio sui mass-media si avverte in tutta la sua virulenza, la comunicazione dal basso, quella piena di entusiasmo e povera di risorse, per un giorno ribalta il mercato della circolazione delle idee.

Ad organizzare questo pezzo di popolo non ci sono partiti, sindacati, gli specialisti dell’organizzazione, coloro insomma in qualche modo deputati a convocare. Nella chiarezza che la forza di questo governo risiede innanzitutto nella debolezza cronica dell’opposizione ufficiale, qualcuno si è rimboccato le maniche, come in un’emergenza nazionale. Sono arrivati a Roma con treni, pullman, aerei e navi, macchine e moto: tutto quello che trasporta andava bene per esserci. L’opposizione di oggi si autoconvoca, si autodisciplina, si dà un colore e un tono, un obiettivo massimo di gran lunga simile a quello minimo: dire forte e chiaro che di questo governo non ne possono più. Non propone campagne, non chiede riforme, non vuole scambi, non ammette inciuci. Ha nella Costituzione della Repubblica il suo riferimento valoriale, il suo programma politico; ha in coloro che la calpestano o che la ignorano i suoi avversari.

Le facce. Sono facce normali e straordinariamente serene quelle di chi marcia. Una manifestazione di popolo autentica, fatta da chi è comunista, da chi un tempo lo é stato e da chi non lo è mai stato, da chi è democratico e da chi non si è mai nemmeno autodefinito. Ma la domanda di tutti è una e una sola: dov’è finita la sinistra? A manifestare ci sono, certo, la Federazione della Sinistra e l’Italia dei Valori. Ci sono perché vogliono e perché devono, se in qualche modo aspirano a rappresentare quanti, anche senza di loro, sarebbero stati in piazza lo stesso. Non c’è invece, tanto per cambiare, il Partito Democratico: e questo merita una riflessione.

Se un milione di persone si mobilitano contro il governo senza - anzi nonostante - il principale partito d’opposizione (così almeno si autodefinisce il PD) non è perché non avvertano la necessità di saldare l’opposizione di piazza e quella parlamentare. Quel milione di persone che ieri manifestava a Roma, non voleva né cercava una distanza programmatica dal PD; è il PD che invece ha deciso che a quella manifestazione non si doveva partecipare. E' il PD che ha stabilito, unilateralmente, una distanza da quella piazza.

Perché? Perché Bersani ed il suo gruppo dirigente hanno ritenuto di restarne fuori? Eppure in buona sostanza quel milione di persone rappresentano una parte importante del blocco sociale di opposizione culturale e politica a Berlusconi ed al berlusconismo. Rifiutarsi di aderire balbettando poco credibili distinguo tra il promuovere e l’aderire, quindi dividersi al proprio interno tra chi va e chi non va, per poi ritrovarsi schiacciati tra un governo e la sua opposizione, ugualmente indifferenti alla sua presenza o alla sua assenza, rappresenta infatti, per l’ennesima volta, la raffigurazione di un’armata Brancaleone che procede in ordine sparso, di un partito che, così, non serve a niente ed a nessuno. Peraltro, succede che molti dei suoi militanti ed elettori in piazza ci siano, cosicché gli errori di valutazione si sommano.

C’è nei vertici del PD un errore di valutazione figlio di una cultura profondamente sbagliata nell’interpretare lo scenario politico del Paese. Se si ritiene - come vuole Violante - che Berlusconi debba difendersi non solo nei processi ma dai processi e che la politica debba normalizzare il conflitto tra la giustizia e il potere e se, nello stesso tempo, si pensa che scendere in piazza contro il governo non sia una strada perseguibile, come si crede possa cadere Berlusconi? Sostiene, il PD, che Berlusconi non cade con la piazza. Una perla di saggezza, un pensiero acuto. Come se qualcuno avesse pensato che Berlusconi possa dimettersi se non obbligato. Per dimettersi bisogna avere una cultura delle istituzioni, un senso del dovere, tutte qualità che Berlusconi non possiede. Ma se invece non andiamo in piazza si dimette?

Sembra di capire che il PD ritenga lo scenario del golpe di Palazzo l’unica strada percorribile. Che sia cioè l’alleanza tra Fini, Casini, Montezemolo e il raggiungimento del livello di non ritorno nei rapporti all’interno del PDL - come nel ’94 con la rottura tra il Cavaliere e Bossi - l’unico cammino percorribile per la crisi di governo e l’uscita di Berlusconi da Palazzo Chigi. Allora, a proposito di velleitarismo, sappiano i vertici del PD che Berlusconi non cadrà forse per le manifestazioni di piazza, ma nemmeno per Fini, Casini e Montezemolo, che sono fortissimi nei salotti e scarsi nelle urne.

L'opposizione fa bene ad ascoltare ogni spiffero nella porta del governo, a tendere le orecchie per leggerne le contraddizioni interne. Ma basta questo? Un'opposizione che non dialoga con il blocco sociale e culturale che vorrebbe rappresentare si candida all'autoreferenzialità politica. Un'opposizione che non sa presidiare i luoghi per eccellenza della democrazia, si candida ad un ruolo subalterno e tutto centrato sul tecnicismo parlamentare; tecnicismo inutile, poi, visti i numeri alla Camera e al Senato.

Il Parlamento e la piazza sono due momenti inscindibili l'uno dall'altro e non saremo certo noi a negare la centralità delle Istituzioni. Ma senza la piazza c’é il silenzio, il bisbigliare delle manovrine da cortile. Con la piazza si manda un messaggio preciso e potente ai disegni autoritari, molto diverso dal messaggio che si lancerebbe chiudendoci in casa. L’opposizione vera di questo paese, quella che non compone origami e si ciba di complotti prendendo schiaffi in Italia e in Europa, che non riduce la politica ad un coacervo di lotte intestine e di giochini di società, quella cioè che chiede un altro destino per questo martoriato, pur non incolpevole Paese, sceglie la piazza. Chi pensasse di essere assente oggi nelle piazze ed essere presente domani nelle urne, compierebbe un errore madornale. Gemello di quello che ha dato vita ad un partito che non c'é.


Altrenotizie.org - testata giornalistica registrata presso il Tribunale civile di Roma. Autorizzazione n.476 del 13/12/2006.
Direttore responsabile: Fabrizio Casari - f.casari@altrenotizie.org
Web Master Alessandro Iacuelli
Progetto e realizzazione testata Sergio Carravetta - chef@lagrille.net
Tutti gli articoli sono sotto licenza Creative Commons, pertanto posso essere riportati a condizione di citare l'autore e la fonte.
Privacy Policy | Cookie Policy