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di Rosa Ana De Santis
A maggioranza, con un capolavoro d'ipocrisia e falsità, il Senato ha chiesto lo stop all’introduzione della RU-486 sul mercato, in attesa di un parere tecnico di congruità tra il farmaco e la legge 194. I rischi paventati, quando fin dal primo momento alcune reazioni politiche all’aborto chimico furono scomposte e aggressive, sono diventati impedimenti di fatto. Irragionevoli le motivazioni addotte e pericolosa l’esondazione di potere istituzionale sull’esercizio della libertà individuale. Vergognosa invece la genuflessione dei cosiddetti rappresentanti del popolo ai piedi dei vescovi, che nella vendita e nell'utilizzo del farmaco vedono la reincarnazione definitiva del suo diavolo peggiore: quello della libertà delle donne di disporre del proprio corpo.
Il parere tecnico, rivendicato impropriamente e fuori tempo massimo dal solito gruppetto di proibizionisti, è evidentemente di competenza dei tecnici ed è già stato dato dall’AIFA, organo deputato proprio a questo. Quanto al ruolo del Ministero della Salute, tanto invocato, sull’esame della congruità della pillola RU-486 con la legge 194, che ha liberalizzato l’aborto nel 1978, non è, come vogliono far credere, qualcosa ancora da dimostrare, semmai proprio tutto il contrario. La legge 194 è infatti la condizione preliminare e fondante per l’introduzione di opzioni alternative all’aborto chirurgico. Confondere le premesse con le conclusioni è un modo sporco di ragionare, facilmente smascherabile, una manovra per intorbidire le acque che tradisce quale sia il vero spauracchio dei moralizzatori: colpire proprio il diritto all’interruzione di gravidanza e il corpo della legge 194.
Gli oppositori più accaniti, tra cui l’on. Gasparri, capogruppo Pdl al Senato, Eugenia Roccella, sottosegretario alla Salute, e quelli più timidi, fintamente neutrali come Dorina Bianchi, che ha rimesso il suo mandato a Tomassini, hanno utilizzato diverse strade per picconare un diritto già sancito dalla legge per le donne. Si è parlato di ritorno all’aborto domestico, quando invece il farmaco sarebbe stato somministrato in ospedale e sotto stretta sorveglianza. Si è parlato di danni alla salute delle donne e di un farmaco affatto indolore, come se qualcuno avesse omesso che ogni rimedio chimico allopatico ha controindicazioni ed effetti collaterali di cui la paziente deve essere ben informato e consapevole. Si è parlato di un nuovo modo di abortire molto più rischioso, come se la pillola RU486 - tra l’altro - fosse un obbligo imposto alle donne e non un’opzione alternativa al metodo chirurgico.
Soprattutto, e questo è il vero centro della polemica politica, si è visto nell’assunzione della pillola la banalizzazione di una scelta morale delicata e complessa quale quella dell’aborto. Ed è tutto qui il passo falso dei cari teodem e dei finti liberali. Basta leggere la legge 194 per rendersi conto che il corollario delle premesse, il comportamento indicato ai sanitari e agli psicologi, l’iter faticoso di riflessione che è imposto dallo Stato alle donne è proprio mirato a scongiurare la facilità e la comodità ad abortire, a non utilizzare mai l’interruzione volontaria di gravidanza come rimedio contraccettivo, a sentire la gravità della scelta. La legge 194 così come é ora é ben piantata, anche troppo, sul controllo e sulla sorveglianza delle donne nell’esercizio della loro libertà.
Rimane poi sempre vero che la maturità morale di una donna, come tutti, non è misurabile con l’incremento delle restrizioni legislative, ma con un’educazione progressiva e permanente per le giovanissime. Magari al posto dell’ora di religione, ad esempio. La scelta di una donna per la pillola piuttosto che per l’aborto chirurgico è una scelta che investe il campo della tecnica, del rimedio considerato più idoneo alla propria accettazione psico-fisica, non è mai una scelta morale. La scelta avviene prima, nel momento in cui si decide di abortire, non nel come. Con la Ru486 non è in questione l’aborto, ma il modo in cui abortire. Far saltare questa differenza significa proprio mettere le mani sulla 194.
Come mai nessuna commissione d’indagine conoscitiva si è aperta sulla commercializzazione frettolosa e a tappeto del vaccino per l’H1N1, di cui sappiamo poco o nulla e che ci è stato vivamente consigliato sui nostri figli? Forse perché c’è forte odore di soldi e perché si tratta di farmaci e commercio, punto? Anche nel caso della RU-486, della chimica e dei suoi effetti non importa a nessuno. Le ragioni di tanto clamore sono falsamente tecniche e sono invece tutte morali, tanto è vero che si torna a parlare della 194 che è proprio la legge che impedisce ogni deriva abortista tanto temuta. L’obiettivo è riscrivere e mettere le mani su quel testo, unico esile baluardo della libertà femminile nel nostro Paese.
Noi non siamo la Francia, né la Gran Bretagna, né la Spagna, né la Germania. L’Italia non è in Europa. E l’alleanza di potere e fede cattolica, unita al dominio dello Stato sul singolo, è un modo tutto italiano di predicare la libertà individuale, senza avere alcuna considerazione seria del suo inestimabile valore.
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di Rosa Ana De Santis
Da ieri mattina i ricercatori dell’Ispra (Istituto per la protezione e la ricerca ambientale) sono sul tetto della loro sede di Via Casalotti, a Roma. Hanno preso questa decisione al termine di un’assemblea indetta da Usi RdB Ricerca e non scenderanno finchè non sarà chiusa positivamente la loro vertenza. Ai 200 precari storici non confermati a giugno scorso, se ne aggiungono altri 250 a rischio, oltre all’azzeramento dei fondi della ricerca sul mare.
Salari da fame, esasperazione, azzeramento della ricerca marina sono solo le ultime ferite inferte ai cervelli migliori di questo Paese. La segreteria nazionale dell’Istituto spera ora in qualche intervento dall’alto che superi la palude del commissariamento attuale. Il silenzio dell’Esecutivo, del Ministro Sacconi e Prestigiacomo soprattutto, è ormai intollerabile.
La protesta dei ricercatori arriva, per una felice coincidenza, a poca distanza dalle parole del Presidente della Repubblica sul valore della ricerca e sull’urgenza di sanare la differenza tra le parole della politica e gli investimenti economici. E se si guarda alla storia recente dell’Ispra, si scopre che l’unico intervento concreto sulla ricerca è stato rappresentato da pesantissimi tagli, da nessuna programmazione per il futuro e soprattutto dalla perdita di ricercatori di altissimo pregio i cui studi e le cui pubblicazioni scientifiche sono spariti dai tavoli delle decisioni. Arriva la solidarietà delle forze di opposizione che vedono nei tagli dei posti di lavoro una manovra spropositata che rischia, tra l’altro, di paralizzare l’attività dell’intero Istituto e di non lasciare alcun progetto vivo per il futuro prossimo.
Si dovrebbe procedere - queste le richieste dei lavoratori mobilitati - con un tavolo interistituzionale che, congiuntamente con i sindacati, scongiuri il rischio di far saltare ancora posti di lavoro e, soprattutto, si dovrebbe formalizzare un piano organico che tuteli le competenze scientifiche e dia le linee sulle attività, anche quelle di monitoraggio ambientale. L’anomalia dell’Ispra, quella che finora hanno pagato soltanto i ricercatori, è che l’accorpamento dei tre enti di ricerca ambientale pre- esistenti (Apat- Agenzia per la Protezione dell'Ambiente e i servizi Tecnici, Icram-Istituto Centrale per la Ricerca scientifica e tecnologica Applicata al Mare, Infs- Istituto Nazionale per la Fauna Selvatica), avrebbe dovuto comportare la razionalizzazione delle spese e la pianificazione delle attività attraverso, ad esempio, la formalizzazione di uno statuto sulle finalità dell’Ente.
Non solo questo non è accaduto, e sarebbe interessante capirne i motivi, ma il commissariamento oltre a congelare ogni possibile sviluppo, ha privato l’Istituto proprio delle risorse eccellenti a disposizione. Un percorso bizzarro, che inquina po’ le grandi parate istituzionali sul valore sacro della ricerca e sulla ferita dei cervelli in fuga su cui lacrima tanto il Ministro Gelmini.
Con tutti i ricercatori lasciati a casa non si consuma solo l’ennesima pagina nera per i lavoratori in tempo di crisi, ma chiudono o rischiano di chiudere progetti che servono alla vita di questo Paese. I progetti sul Mose, le bonifiche di zone portuali da ordigni bellici, la bonifica di siti inquinati, i monitoraggi ambientali di piattaforme off shore, la pesca sostenibile e l’acquacultura, solo per citare alcuni esempi.
L’opzione di eliminare gli stipendi e con essi il futuro della scienza è l’opzione più veloce con cui rimediare ai bilanci in emorragia per cattive politiche. Il conto però si paga sempre dal basso. Lo abbiamo visto pochi giorni fa con le aggressioni subite dagli operai in sciopero dell’ex- Eutelia. Lo abbiamo visto con i cinque operai Innse assediati nella gru per giorni e giorni. Lo abbiamo visto con l’immunità diffusa che ha coperto i vertici del buco nero Alitalia, mentre le buste paga dei più poveri diventavano sempre più magre o sparivano.
Si sale sul tetto per non essere più fantasmi, per essere più visibili. Ma un cambio di rotta è poco credibile. Il governo è lo stesso che ha cancellato dalla Finanziaria 80 milioni destinati all’assunzione a tempo indeterminato di 4200 ricercatori universitari. E’ tempo di crisi, i soldi servono per ddl e provvedimenti cuciti su misura per uno e il futuro, di tutti, è un lusso che non possiamo permetterci.
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di Nicola Lillo
L’insidia arriva dalla borgata di Brancaccio, alla periferia di Palermo. Qui sono nati e cresciuti Gaspare Spatuzza, Salvatore Grigoli, Pietro Romeo, tutti con decine di omicidi sulle spalle. I pm di Firenze hanno trasmesso alla procura di Palermo i verbali dei loro interrogatori. Parlano dei contatti politici con Berlusconi e Dell’Utri nella stagione delle stragi. Raccontano le confidenze dei loro capi, i fratelli Graviano, che, latitanti, si erano trasferiti da Brancaccio a Milano per, lasciano intendere, coltivare i dettagli della trattativa con la nuova forza politica, Forza Italia. Nel 2004 Filippo Graviano confidò a Spatuzza: “Se non arriva niente da dove deve arrivare, è bene che cominciamo a parlare con i magistrati”. Spatuzza lo sta facendo.
Giuseppe Graviano dal carcere esprime “rispetto” per il suo ex killer ora pentito. Si mette quindi male per il Premier. I reati che potrebbero essere contestati non sono tra quelli compresi nel nuovo ddl sul “processo breve”, o meglio “estinto”, “morto”. Questa ennesima legge “ad personam”, in caso di approvazione, sarà efficace per il processo Mills, ma non certo per le imputazioni delle indagini di mafia che potrebbero arrivare da Firenze o Caltanissetta. Nonostante tutto si stanno verificando complicazioni proprio in seno al processo Mills.
Infatti il calendario per l'approvazione del “processo breve” non si presenta roseo per via degli incastri tra il ddl e la Finanziaria. È probabile che alla Camera non ci sarà l’approvazione prima di metà di febbraio. Non si può escludere una nuova soluzione. Secondo alcune indiscrezioni Berlusconi avrebbe illustrato al Guardasigilli l'ipotesi di ricorrere a un decreto legge. Alfano avrebbe risposto esponendo i suoi dubbi. Un retroscena che la presidenza del Consiglio smentisce repentinamente con una nota. L’”utilizzatore finale” si trova in una situazione complessa. Deve guardare a più fronti. Da una parte l’accelerazione del ddl per il “processo morto”, che gli consentirebbe l’impunità per i reati per cui è attualmente indagato. E qui sarebbe fatta. Dall’altro lato i problemi legati alla mafia.
Soluzioni? Secondo indiscrezioni, non si esclude che un nuovo "lodo Alfano" in salsa costituzionale possa essere presentato in una delle due camere del Parlamento, già entro giovedì. È molto probabile che il nuovo lodo sarà avanzato da un parlamentare, perché questa volta il Governo non vorrà assumersi la responsabilità e al tempo stesso vorrà favorire la convergenza delle opposizioni, in particolare dell'Udc. Il testo si adatterà alle indicazioni della Corte Costituzionale. Gasparri, capogruppo al Senato, si mostra già scettico: "Di quelli non mi fido. Pur di bocciarlo magari diranno che l'abbiamo approvato nel giorno sbagliato o che abbiamo commesso degli errori nella punteggiatura". Il problema non è di ortografia, grammatica, meteorologia, o di giorni fasti, dedicati nell’antica Roma alle attività pubbliche, o nefasti, dove erano proibite.
Il problema (o meglio, la nostra fortuna) si chiama Costituzione della Repubblica. E' chiaro, come previsto da Costituzione, che un testo ritenuto incostituzionale dalla Consulta non possa essere riproposto sotto forma di legge ordinaria (come, nonostante le previsioni costituzionali, fu fatto proprio col lodo Alfano in seguito all’incostituzionalità del Lodo Schifani, che trattava lo stesso argomento, l’immunità delle più alte cariche dello Stato). Nella sentenza della Corte, riferita al Lodo Alfano, si legge infatti che una delle cause di incostituzionalità è proprio l’articolo 138, sul rango di legge costituzionale. La proposta, dunque, avanzata di riproporre la norma sotto forma di legge costituzionale è in linea con le dichiarazioni della Consulta. Bene.
Una legge costituzionale deve essere approvata con procedimento aggravato. Doppia lettura Camera-Senato e approvazione a maggioranze qualificate. Se il progetto è approvato a maggioranza dei due terzi dei componenti di ciascuna camera, non è consentito richiedere il referendum, e la legge viene senz’altro promulgata e pubblicata. Se invece l’approvazione è a maggioranza assoluta dei componenti di ciascuna camera è possibile, entro tre mesi richiedere un referendum costituzionale, in base all’esito del quale ci sarà la promulgazione e pubblicazione o il suo abbandono. Anche qui è plausibile, se non ovvio, che il governo segua le procedure costituzionali.
È chiaro come sia necessaria una grossa maggioranza per approvare senza referendum la legge. Berlusconi avrà bisogno anche dell’”opposizione” (cosa che non risulta così impossibile). Necessità che altrimenti porterebbe a un referendum non desiderato dal premier.Ma anche in caso di eventuale approvazione,con o senza referendum, è bene notare come la Corte Costituzionale, con la sentenza 1146 del 1988, abbia affermato la propria competenza a giudicare anche le leggi costituzionali in riferimento ai “principi supremi dell’ordinamento costituzionale”. Dunque, ritornerebbe il problema eguaglianza, sancito dall’articolo 3. Quel principio che proprio non va a giù a Berlusconi. Orwell docet: tutti sono uguali, ma qualcuno è più uguale degli altri. Chi?
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di Mariavittoria Orsolato
Pesano sempre di più le rivelazioni che il pentito Gaspare Spatuzza comincia a fornire sulla famigerata trattativa tra mafia e Stato. In estate aveva rivelato nuovi particolari sulla strage di via D’Amelio e ora dice chiaro e tondo che Berlusconi e il suo amico Marcello Dell’Utri hanno avuto un ruolo chiave nella transizione politica dalla prima alla seconda Repubblica: “In un primo momento hanno fatto fare le stragi a Cosa nostra, e poi si volevano accreditare all’esterno come coloro che erano stati in grado di farle cessare”.
Parole che risalgono al 18 giugno scorso ma che arrivano ora come un fulmine a ciel sereno e per molti significano la conferma di diversi fatti incongrui e repentini, che hanno avuto luogo a cavallo degli anni 1992 e 1994. Alla fine del 1993 - è cosa nota - Berlusconi aveva debiti per circa 7.000 miliardi di lire e, sebbene continui a vaneggiare sul fatto di essersi fatto da solo, i soldi qualcuno glieli doveva aver pure prestati. Secondo “L’odore dei soldi”, il libro scandalo di Travaglio e Veltri del 2001, l’origine delle fortune finanziarie del biscione sta proprio in Sicilia e nei contatti che l’amico Marcello ha gelosamente cullato, in attesa degli inevitabili tempi bui che avrebbero coinvolto lui e l’indispensabile Silvio.
Spatuzza sembra individuare nei contatti del duo milanese i suoi capi, i fratelli Giuseppe e Filippo Graviano: “Ritengo di poter escludere categoricamente - spiega l’ex uomo d’onore - conoscendoli assai bene, che i Graviano si siano mossi nei confronti di Berlusconi e Dell’Utri attraverso altre persone. Non prendo in considerazione la possibilità che Graviano abbia stretto un patto politico con costoro senza averne personalmente parlato”. Dell’Utri per i due boss era un “paesano” e la sua amicizia con il popolare imprenditore brianzolo avrebbe potuto portare quei risultati che i socialisti di compagine craxiana avevano promesso ma non mantenuto: i punti erano quelli citati nel famoso papello custodito (e forse anche redatto) dal sindaco palermitano Vito Ciancimino, ovvero abolizione del 41bis, revisione delle sentenze del maxi-processo, riforma della legge sui pentiti e chiusura delle super-carceri.
Che il patto sia andato in porto non ci è dato sapere, ma è un’evidenza storica che il partito della discesa in campo di Berlusconi ebbe una gestazione fulminea: in soli 4 mesi Dell’Utri costruì Forza Italia e la portò a governare il Paese. Secondo un altro collaboratore di giustizia ritenuto attendibile - quell’Antonino Giuffrè che già lo aveva inchiodato nel processo che lo ha poi visto condannato in primo grado a 9 anni per concorso esterno in associazione mafiosa - Marcello dell’Utri organizzò infatti il nuovo partito, in adempimento ad un patto stretto a distanza con Bernardo Provenzano.
Convinti che l’asse Milano-Palermo non fosse solo una serie di sfortunate coincidenze, i magistrati di Caltanisetta e Firenze hanno deciso di riaprire indagini già archiviate e di ripercorrere la pista - aperta fra gli altri proprio da Falcone e Borsellino - secondo cui Cosa Nostra ha cercato ed ha trovato una nuova forza politica in grado di accogliere e perpetrare le proprie istanze: nel caso in cui le accuse di Spatuzza venissero confermate, il Presidente del Consiglio verrebbe incriminato per concorso esterno in associazione mafiosa, mentre per l’amico Marcello l’accusa già confermata di connivenza con Cosa Nostra si trasformerebbe in concorso in strage aggravato da finalità mafiose e terrorismo.
Sulla credibilità del collaboratore di giustizia si è gia scatenata la polemica. Se per Dell’Utri le parole di Spatuzza sono “tutte grandi cazzate di cui, per fortuna, riesco ancora a ridere”, per Luigi Li Gotti - senatore dell'Italia dei Valori, componente della commissione antimafia nonché ex avvocato di alcuni pentiti di mafia - le affermazioni dell’ex uomo d’onore sono attendibili: “I siciliani definiscono chi inventa un tragediatore e non lo stimano. Chi racconta le cose giuste, anche se fanno male, é comunque un uomo da rispettare”, parlando in relazione al confronto che Spatuzza e il più giovane dei Graviano hanno avuto lo scorso 14 settembre, e che ha visto i due destreggiarsi a suon di buone maniere, circostanza decisamente insolita per un rendez-vous tra ex picciotti.
I tempi dei processi si attendono come al solito molto lunghi, perciò tirare le somme ora di quello che potrebbe essere il più grande vaso di Pandora mai scoperchiato nella penisola potrebbe essere (anzi è) sicuramente azzardato. Leggere però quelli che ormai sono fatti agli atti della magistratura non guasta: oggi sappiamo che già nel gennaio del 1994 Giuseppe Graviano esultava di fronte alla prospettiva di aver trovato un importante aggancio politico in Berlusconi, dicendo di essersi messo “il Paese nelle mani”. Il 18 gennaio 1994 nasce Forza Italia, le stragi finiscono e Cosa Nostra diventa stranamente silenziosa.
Sarebbe facile, alla luce delle ultime rivelazioni e ripercorrendo quanto avvenuto negli ultimi quindici anni, giungere a conclusioni che qualcuno, dalle colonne dei giornali, si affretterebbe a definire “complottosmi”, “dietrologie” o persino “fantapolitica”; ma il timore che la fantascienza superi di gran lunga la realtà si fa, ahinoi, sempre più concreto.
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di Mariavittoria Orsolato
Fino al 1994 il sistema idrico in Italia è stato gestito dagli acquedotti comunali; le bollette sono basse, e le perdite d’acqua sono alte, ma soldi da investire non ci sono. Poi arriva la Legge Galli che stabilisce come i comuni, se vogliono, possono trovare i soldi formando una società per azioni insieme a un socio privato: nella tariffa ci va dentro tutto, dalle spese per la depurazione, alle fognature, agli investimenti.
Ieri, con 320 si e 270 è passato alla Camera il famigerato decreto Ronchi, cosiddetto “dl salva infrazioni”, che oltre ad imporre le attuazioni degli obblighi comunitari, contiene anche le discusse norme che danno di fatto il via libera alla “privatizzazione” dell’acqua pubblica. Il Governo, nella sua smania di delegittimare il Parlamento e quella che dovrebbe essere la sua funzione di dibattito, ha avuto la brillante idea di blindare il decreto all’interno del meccanismo della fiducia e così, salvo imprevisti procedurali dell’ultima ora, il prossimo 24 novembre diverrà legge di Stato.
L’articolo contestato è il numero 15 e statuisce la liberalizzazione dei servizi pubblici locali: dal 1 gennaio 2011 tutte le gestioni nate da affidamenti “in house” - ovvero l'ipotesi prospettata dalla Legge Galli in cui l'appalto viene affidato a soggetti che siano parte della amministrazione stessa, quelle che volgarmente chiamiamo municipalizzate - dovranno necessariamente interrompersi per lasciare spazio a gare ad evidenza pubblica indette dalle amministrazioni locali. Le società partecipate possono mantenere contratti stipulati senza gara formale fino alla scadenza, nel caso in cui le amministrazioni cedano loro almeno il 40% del capitale. Diverso il discorso per quanto riguarda le società quotate che hanno tre anni in più per adeguarsi, a patto che abbiano almeno il 40% di quota di partecipazione pubblica al 30 giugno 2013, quota che scende al 30% al 2015.
Delle quote societarie agli italiani interessa però ben poco. Il problema sollevato da questo ennesimo sciagurato provvedimento dell’Esecutivo ruota tutto attorno al costo che l’operazione rappresenterà per le nostre tasche: se è vero che oggi il nostro Paese applica le tariffe tra le più basse d’Europa - in media 1,29 euro al metro cubo ovvero 19,7 euro al mese a famiglia - la nuova regola potrebbe portare ad aumenti che vanno dal 40% al 60%, facendo lievitare i costi in bolletta di circa 10 euro in più ogni mese, anche se allo stato attuale è impossibile quantificare quante e quali stangate dovranno subire i cittadini. Piazza Affari ieri ha reso bene l’idea: poco dopo l’annuncio dell’approvazione alla Camera, i listini delle società di gestione idrica già presenti sul mercato hanno avuto delle impennate spaventose.
Il problema della nuova norma non sta però solo nei costi. Per quanto ci ostiniamo a considerarci come uno dei paesi più sviluppati, la nostra penisola soffre ancora di realtà borderline con il terzo mondo: ad oggi, come fa notare Ettore Livini su Repubblica, sono ancora 2,5 milioni le persone che vivono senz’acqua, 9 milioni senza fogne e 20 senza depuratori. Ricorderete tutti i servizi estivi sulle popolazioni del sud messe in ginocchio dalla siccità e costrette a un approvvigionamento idrico “sudamericano” fatto di autobotti e prezzi esorbitanti.
Il 15 ottobre del 2006 Report trasmetteva l’inchiesta “L’acqua alla gola” in cui si metteva in evidenza la massima del mezzogiorno che stabilisce che dove lo stato non c’è, subentra la mafia: le immagini mostravano un quartiere di Palermo, il tristemente noto Zen, in cui gli abitanti (per quanto in maggioranza abusivi) vivevano sprovvisti dell’allaccio a luce e acqua, ed erano costretti ad auto organizzarsi in sgangherati gruppi d’acquisto per accedere a taniche d’acqua dai costi spropositati, in media 2 euro al giorno per 60 euro al mese.
Dato l’appeal speculativo di una risorsa naturale e soprattutto fondamentale come l’acqua, il timore condiviso da molti è rappresentato dalle probabili infiltrazioni della malavita organizzata nella gestione e nella distribuzione di questo bene di prima necessità. Le cronache recenti testimoniano la facilità con cui mafia, n’drangheta e camorra si siano inserite nell’ambito della privatizzazione della conduzione del ciclo dei rifiuti, ma nel decreto Ronchi nulla impedisce a sedicenti aziende private affiliate ai clan, di proporsi come candidate ai bandi che indiranno le amministrazioni locali.
Se a questo già disastrato quadro si aggiunge che la nostra rete idrica e fognaria ha uno stato di conservazione simile agli acquedotti romani - ovvero è piena di falle e necessita una continua manutenzione quantificabile in circa 2 miliardi euro l’anno - ben si capirà come il Governo trovi più semplice affibbiare questo oneroso compito ai privati. Questi ultimi però, in naturale connessione al loro statuto giuridico e ai loro ineludibili interessi, saranno ben poco attirati a migliorare una struttura che (come per i binari di Trenitalia) rimane statale al 100%: investendo sulla rete i privati migliorerebbero sì il servizio, ma sarebbero costretti a fare delle spese su qualcosa che non sarà mai loro proprietà e ne saranno perciò scoraggiati.
Non è perciò un caso il fatto che si sia inserito un così epocale cambiamento all’interno di un decreto più generale riguardante tutti i servizi pubblici: silenziosamente, un’altra fetta della nostra ormai scarna sovranità popolare se ne va e poco importa a questo Governo che la moneta di scambio sia la fonte e il sostentamento di ogni forma di vita.