di Saverio Monno

Il Parlamento sarà anche diventato il luogo del "dialogo", ma l'informazione - e una rete Rai in partricolare, visto che il resto é di loro proprietà -sembra essere, ancora una volta, il test decisivo per la tolleranza del governo di destra verso ciò che li disturba. Come era già accaduto nel 2001, con il Satyricon di Luttazzi, le dichiarazioni del giornalista Marco Travaglio, intervenuto lo scorso sabato sera alla trasmissione Che tempo che fa, scatenano un putiferio. Il cronista torinese, abbandonatosi ad alcune considerazioni sullo stato dell’informazione in Italia e sulle pesanti ingerenze della politica nel mondo dei media, non lesina una strigliata al neoeletto presidente del Senato. “Schifani ha avuto frequentazioni con persone poi condannate per mafia - sostiene Travaglio -ma non si scrive che Schifani ha avuto amicizie con dei mafiosi, perché non lo vuole né la destra né la sinistra…” Poi aggiunge: “Una volta avevamo De Gasperi, Einaudi, De Nicola, Merzagora, Parri, Pertini, Nenni, Fanfani; uno passa tutta la trafila e poi vede Schifani! Mi domando chi sarà quello dopo, la muffa probabilmente, il lombrico. Dalla muffa si ricava la penicillina tra l’altro, era un esempio sbagliato.”

di Mario Braconi

La cronaca recente obbliga a prendere atto delle costanti ingerenze clericali nella vita politica italiana: e così, allibiti, irritati e anche un po’ depressi, ci ritroviamo a scorrere le prime pagine dei giornali che, in un tono neutrale (o complice?) invariabilmente rilanciano le esternazioni del Papa o di questo o quel prelato. Pur essendo ormai abituati (benché non assuefatti) all’ingrato spettacolo di del piccolo re d’oltre Tevere che vomita i suoi anatemi in un paese cloroformizzato, abbiamo ancora la forza di rilevare che l’intervento che Ratzinger ha rivolto ai rappresentanti del Movimento per la Vita, pur inquadrandosi nella lunga sequenza di attentati clericali alla laicità dello Stato, è caratterizzato da un importante elemento di discontinuità: per la prima volta l’attuale Papa ha citato come obiettivo polemico una legge italiana, la 194, che da trent’anni esatti regolamenta l’interruzione di gravidanza.

di Maura Cossutta

Nei giorni scorsi è uscita la notizia dell’appello choc di una donna al Presidente della Repubblica, decisa ad abortire perché il suo reddito familiare, lei commessa e il marito precario, arriva a mille e duecento euro al mese. Una denuncia cruda di un conflitto solitario che è anche dramma collettivo di ogni donna di fronte alla scelta di essere o non essere madri, che ha guadagnato giustamente le prime pagine dei giornali, ma su cui - assai meno giustamente - si è subito tuffato il Movimento per la vita per ribadire l’attacco alla legge 194. E’ uscita poi, sempre nei giorni scorsi, un’altra notizia, della nuova Relazione sull’attuazione della legge 194 presentata dal ministro Livia Turco al Parlamento, che però pari attenzione non ha meritato. Su questa occorre allora tornare, anche perché, alla vigilia ormai prossima dell’insediamento del nuovo governo delle destre, riparlare di aborto non è scontato. E’ anzi già un atto di opposizione consapevole. Infatti, se è vero che la lista Ferrara ha dimostrato come troppo a sproposito si regala ai neofiti il credito dell’intelligenza e se è vero che nella campagna elettorale hanno prevalso la sicurezza e le tasse, sull’aborto Berlusconi qualcosa certo si inventerà, perché i voti concessi dall’elettorato cattolico alla fine chiederanno conto.

di Giovanni Gnazzi

Centomila voti. La differenza tra il giorno e la notte, a Roma, è stata di centomila voti. Tale é stata infatti la distanza tra Alemanno e Rutelli, pari a quella tra una classe politica e una città che in lei non si riconosce più. L’ondata di destra, certo; l’effetto domino delle politiche, forse. Ma il voto maggiore per Alemanno pare essere venuto dalla periferia di Roma; le aree cioè dove il disagio, la povertà, l’emarginazione, si respirano a pieni polmoni. Non è un caso - purtroppo - che i quartieri popolari, bacino d’utenza storico del voto della sinistra, siano diventati da diversi anni il serbatoio di voti della destra. Una triste nemesi che indica la fine del ruolo sociale della sinistra capitolina, un tempo capace di parlare al suo popolo e oggi, invece, capace solo di frequentare i salotti del centro storico e dei quartieri-bene. Certo la sicurezza, tema agitato come un manganello dall’impero mediatico della destra, è stato l’elemento sul quale il voto è stato netto, ma non è il solo.

di Saverio Monno

Week-end particolarmente propizio per Silvio Berlusconi. Al termine di una settimana di “afflizioni”, il premier in pectore riesce a chetare gli appetiti degli alleati e a chiudere il toto-ministri. Il summit milanese, nella sede della Lega in via Bellerio, permette al Cavaliere di incassare l’agognato sì del carroccio. Al vertice, in agenda da giorni, e preceduto da un’interminabile serie di incontri e riunioni, in cui gli alleati non perdevano occasione per tirare il doppiopetto al Cavaliere, prendono parte, oltre a Berlusconi e Bossi, l’immancabile frotta di galantuomini. Tra questi Aldo Brancher (arrestato per tangenti e condannato a 2 anni e 8 mesi, per falso in bilancio e violazione della legge sul finanziamento ai partiti), Roberto Maroni (4 mesi e 20 giorni per resistenza e oltraggio a pubblico ufficiale) e Roberto Calderoli (indagato per ricettazione nell’inchiesta sulla Bpl di Giampiero Fiorani). A conclusione del meeting, davanti ai cronisti, i soliti segnali distensivi, a celare le giornate trascorse a muovere e rimuovere le tessere di un mosaico che non prendeva alcuna forma. “E’ un incontro che soddisfa entrambe le parti - sorride Berlusconi - stiamo andando avanti come avevamo cominciato”. In realtà le cose sono iniziate in modo diverso.


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