di Michele Paris

Tra i rari articoli dedicati nelle ultime settimane dai giornali americani alla scoraggiante campagna elettorale nel nostro paese, spicca quello proposto qualche giorno fa dal New York Times a firma Rachel Donadio, dedicato all’ultima crociata dell’ex sessantottino, ex comunista, ex socialista, ex ministro berlusconiano, nonché presunto ex confidente della CIA ed ora adepto neo-con Giuliano Ferrara, per il diritto alla vita. Ben lontano dall’incoronare il direttore de Il Foglio come una delle voci più originali della scena politica italiana, come qualche quotidiano del nostro paese ha scritto (La Stampa), il profilo delineato dall’autorevole testata newyorchese, pur sottolineando le relative diversità delle posizioni sostenute da Ferrara rispetto ai due principali candidati premier, sembra piuttosto farne il simbolo del degrado di una politica ormai diventata “incomprensibile” e “assurda” per quanti la osservano da fuori, e non solo.

di Sara Nicoli

Lo si considera ancora, erroneamente, uno dei poteri “forti” di questo Paese. Una struttura solida, politicamente e socialmente motivata, in grado di far rispettare quelle regole di fondo nel mondo del lavoro di cui le innumerevoli caste italiane tendono a dimenticarsi con estrema facilità. A discapito dei lavoratori. Il sindacato, insomma, fino a ieri era ancora capace di raccogliere, sotto una stessa bandiera di lotta, quel numero sufficiente di iscritti per ribaltare il tavolo di una trattativa in favore dei lavoratori. O, quantomeno, a rendere sopportabili le ferite di una cassa integrazione inevitabile per il solo fatto di essere elemento aggregante; insieme ai compagni, al sindacato, nella lotta per il bene comune. Oggi, nel riposizionarsi continuo delle stratificazioni sociali, il sindacato (inteso come entità sociale e politica, non come sigla o unione di sigle) si trova a distanze siderali dai lavoratori e dalle loro esigenze primarie. E’ un corpo a sé, distante e scollato dalla realtà.

di Fabrizio Casari

Si può declinare in molti modi la paura, ma tale resta. Non può essere trasformata in prudenza o in accorta strategia, nemmeno con la potentissima batteria mediatica a disposizione: paura è, paura resta. Ed è la paura di perdere quella che attanaglia Berlusconi che fugge, letteralmente fugge, dal confronto televisivo con Walter Veltroni, il principale - non unico - avversario di questa competizione elettorale. Di Veltroni, Berlusconi ha paura. Perché dal 1994 ad oggi, per la prima volta, il cavaliere della destra ha di fronte un personaggio che, quale che sia il giudizio politico che su di lui si vuole avere, è uomo di grande capacità comunicativa. Conosce l’arte della persuasione e le tecniche della comunicazione politica, sa tenere bene il contraddittorio e non ripete formule ideologiche; rappresenta, nel bene e nel male, la novità politica che rende la compagine di destra il “già visto” che in molti, peraltro, si augurano di non dover rivedere. E l’aria che si respira, da qualche giorno, pare indicare una possibile sorpresa per tutti coloro che ritenevano il risultato già scontato a favore di Berlusconi. Un confronto televisivo che indicasse Veltroni più credibile, accellererebbe definitivamente la concreta realizzabilità di questo scenario.

di Maura Cossutta

Formigoni ha detto no. E subito dopo si è accodato Totò Cuffaro, l’ex governatore della Sicilia, cogliendo al volo l’occasione per farsi ricordare per qualcos’altro oltre ai famosi cannoli. Non passa quindi l’accordo tra Stato e Regioni sulla legge 194, nonostante il parere favorevole di tutte le altre Regioni, compreso quello dell’Associazione Nazionale Comuni Italiani, ANCI. E nonostante le numerose riunioni tecniche per discutere il merito del provvedimento, nonostante soprattutto le rassicurazioni esplicitamente date al ministro Livia Turco da parte dell’assessore alla sanità della Lombardia. L’assessore è stato smentito e Formigoni è intervenuto personalmente per agire all’ultimo minuto il diritto di veto, bloccando così ogni ipotesi di accordo, essendo questa la condizione per essere emanato quella di raggiungere l’unanimità. Mentre Formigoni parlava, altri avevano intanto già dettato la linea, dalle pagine del quotidiano L’Avvenire e con le dichiarazioni del “Movimento per la vita”.

di Saverio Monno

Sin dagli esordi il Partito Democratico ha profondamente sconvolto il sistema politico italiano. Già solo l’annuncio dell’imminente confluenza dei più grandi partiti della maggioranza (DS e Margherita), in una nuova e “più coesa” forza politica, ingenerò i primi contraccolpi nei precari equilibri dell’Unione di Romano Prodi. Poi, la successiva realizzazione di quei progetti, finì per costringere la maggioranza ad un dualismo di vertice, sempre più ingombrante, tra lo stesso Prodi, presidente del PD, e Walter Veltroni che, nel frattempo, di quella nuova forza politica, era divenuto il segretario. Se però, la nascita del partito è ascrivibile al 14 ottobre del 2007, il vero terremoto sarebbe arrivato solo qualche tempo dopo. Nonostante le molteplici dichiarazioni di stima e di ammirazione per l’operato di Prodi, arrivava puntuale, infatti, la randellata. Il sindaco di Roma, pecca di protagonismo e, intervenuto ad Orvieto, bacchetta una maggioranza litigiosa e ballerina, annunciando della sua intenzione di correre da solo. “Quale che sia il sistema elettorale”, alla prossima chiamata alle urne, “il Pd si presenterà con le liste del Partito democratico. Spero che FI trovi il coraggio di fare altrettanto.” Con queste parole, lo scorso 19 Gennaio, il segretario del PD avviava al patibolo l’Unione, che di lì a poco sarebbe stata giustiziata in senato dalla sua corrente più conservatrice, e sfidava Berlusconi a singolar tenzone.


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