Alla scadenza della mezzanotte di martedì, il primo ministro israeliano Netanyahu ha rimesso il suo mandato esplorativo nelle mani del presidente, Reuven Rivlin, il quale ha subito assegnato l’incarico al leader del partito centrista Yesh Atid (“C’è un Futuro”), Yair Lapid, per cercare di sciogliere una crisi politica che si trascina praticamente da più di due anni. Netanyahu aveva l’opzione teorica di chiedere un prolungamento del mandato per provare a mettere assieme una maggioranza di governo, dopo le ennesime inconcludenti elezioni del 23 marzo scorso. Al contrario, il premier ha preferito passare la mano, almeno per il momento, e concentrare i suoi sforzi sul tentativo di boicottare le già difficili trattative dei partiti di opposizione per creare un esecutivo in grado di dare finalmente la spallata al più longevo capo di governo dello stato ebraico.

 

Poco prima di incontrare il presidente Rivlin, Netanyahu ha rilasciato una dichiarazione piuttosto chiara circa le sue intenzioni. Il primo ministro ha infatti puntato il dito contro il suo ex capo di gabinetto e ora leader del partito di estrema destra Yamina, Naftali Bennett, accusandolo di essere il responsabile del fallimento dei negoziati di governo, perché rifiutatosi ripetutamente di scaricare gli altri leader dell’opposizione per salire sul carro del Likud e dei suoi alleati della destra religiosa.

Netanyahu, in definitiva, ha deciso di fare un passo indietro e aprire il fuoco contro i suoi rivali, facendo leva sulle profonde divisioni che caratterizzano le formazioni che stanno cercando di trovare un accordo alternativo di governo. D’altra parte, il fronte anti-Netanyahu appare in pratica concorde solo su una questione, vale a dire la liquidazione del primo ministro. Per il resto, lo spettro ideologico dei movimenti che dovrebbero dar luce a un possibile esecutivo va dalla destra estrema di Yamina, passando per il partito Nuova Speranza dell’ex ministro di Netanyahu, Gideon Saar, per Yesh Atid e di ciò che resta dei laburisti, fino alla sinistra di Meretz e, addirittura, ai partiti arabi.

L’intenzione di Netanyahu è così di associare Bennett, ma anche Saar, alla “sinistra”, in modo da screditare entrambi i rivali di destra. Il risultato sperato del premier è di convincere Bennett a rinunciare all’accordo con gli altri leader del fronte anti-Netanyahu e forzare il quinto voto anticipato in poco più di due anni. Alla luce degli scenari venutisi a creare, una nuova elezione appare al momento l’esito preferito di Netanyahu, interessato ormai esclusivamente al proprio futuro politico e non solo. Con un altro voto anticipato, Netanyahu conserverebbe la carica di primo ministro ad interim, evitando i guai legali che lo attendono. Inoltre, avrebbe a disposizione un’altra occasione per provare a vincere le elezioni e conquistare finalmente una maggioranza in Parlamento (“Knesset”), soprattutto in una sfida con i rivali di destra “macchiati” da un quasi-accordo con il centro-sinistra israeliano e i partiti arabi.

Nel concreto, la strategia di Netanyahu di spaccare l’opposizione, proprio mentre il presidente Rivlin ha assegnato un mandato esplorativo a Lapid, è emersa nelle scorse ore. Il Likud ha cioè presentato alcune proposte di legge che Bennett, così come un altro ex alleato di Netanyahu, l’ex ministro degli Esteri Avigdor Lieberman del partito Yisrael Beytenu, avevano promosso nel recente passato. Le bozze di legge sul tavolo hanno a che fare con temi cari all’ultra-destra israeliana, come la pena di morte per i “terroristi”, la limitazione dei poteri della Corte Suprema o questioni legate alla legalizzazione degli insediamenti nei territori palestinesi.

L’obiettivo è appunto quello di dividere la destra dal centro-sinistra e dalla sinistra, così da complicare i negoziati per un governo alternativo, e allo stesso tempo di intercettare gli elettori di Bennett, Saar e Lieberman, frustrati da un eventuale mancato appoggio da parte di questi ultimi alle proposte avanzate dal Likud.

Con l’incarico di trovare una maggioranza in tasca, Lapid proverà a dare seguito alle promesse fatte nelle scorse settimane a praticamente tutto il panorama politico israeliano. Lapid, il cui partito aveva ottenuto il numero più alto di seggi dopo il Likud nelle elezioni di marzo, ha già offerto a Bennet di ricoprire per primo la carica di primo ministro nel quadro di un accordo che prevede l’avvicendamento alla guida del governo.

La fine dell’era Netanyahu non è però ancora visibile all’orizzonte. Gli ostacoli a una coalizione di governo così multiforme restano enormi e, infatti, i malumori dentro i partiti di destra stanno venendo alla luce. Mercoledì, uno dei sette neo-deputati del partito Yamina ha annunciato di non essere disposto ad appoggiare un governo che includa Yesh Atid e la sinistra, perché questa opzione era stata esclusa da Bennett in campagna elettorale. Bennett, in ogni caso, aveva già comunicato alla delegazione del suo partito alla Knesset che chiunque dovesse opporsi a un governo di questo genere verrà espulso e sarà privato del proprio seggio.

Sullo sfondo delle trattative di governo resta il processo in corso contro Netanyahu per corruzione, proseguito questa settimana con la deposizione di alcuni testimoni. Come già accennato, Netanyahu intende conservare in tutti i modi il suo incarico per evitare di finire in carcere in caso di condanna o, se fosse in grado di costruire una nuova maggioranza e guidare un nuovo gabinetto, per approvare una legge che garantisca l’immunità al primo ministro.

Mentre regna l’incertezza politica, infine, non è da escludere un evento che faccia precipitare la situazione e permetta a Netanyahu di dichiarare lo stato di emergenza, in modo da prolungare la sua permanenza al potere. Il governo israeliano continua infatti a opporsi fermamente al rilancio dell’accordo sul nucleare iraniano e, oltre a fare pressioni su Washington, è nel pieno di una campagna di provocazioni contro la Repubblica Islamica e i suoi alleati nella regione, verosimilmente per provocare una reazione e beneficiare del caos che ne seguirebbe.

In parte in questo quadro va inserita la notizia circolata mercoledì mattina di un nuovo gravissimo attacco missilistico condotto da Israele in Siria, dove Tel Aviv si auto-attribuisce il diritto di colpire obiettivi “iraniani”. La pericolosità dell’ultima iniziativa israeliana è testimoniata dal fatto che i missili sarebbero caduti non lontani da una base russa, nei pressi delle località costiere di Latakia e Tartus. Secondo la stampa siriana, l’ennesimo blitz di Israele avrebbe distrutto un “deposito civile di materie plastiche” e causato la morte di almeno un civile.

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