Le ultime stragi commesse da Israele sembrano avere convinto alcuni governi, che continuano a intrattenere normali rapporti commerciali con lo stato ebraico, a ripensare le proprie politiche e a fare almeno qualche timido passo a favore della causa palestinese. Il governo turco, in particolare, ha deciso finalmente nella giornata di martedì di congelare le esportazioni di una serie di beni verso Israele, facendo registrare il primo provvedimento concreto in risposta al genocidio in atto. Erdogan ha usato in questi mesi toni molto duri nei confronti di Netanyahu, ma a convincerlo ad agire per infliggere un qualche costo al governo di quest’ultimo e all’economia israeliana è stata alla fine la pesante sconfitta della settimana scorsa nelle elezioni amministrative turche.

 

Il ministero del Commercio di Ankara ha annunciato lo stop all’export di 54 categorie di prodotti acquistati da Israele. L’elenco include anche beni cruciali come ferro, acciaio, cemento, mattoni, carburante per aerei, macchinari industriali e svariati prodotti chimici. I soli materiali destinati alle costruzioni rappresentano circa l’11% del totale delle esportazioni turche in Israele. Secondo fonti imprenditoriali israeliane, addirittura la metà delle importazioni dello stato ebraico di cemento, acciaio e marmo proviene dalla Turchia.

Le esportazioni turche verso Israele erano calate dopo il 7 ottobre dello scorso anno, per poi risalire dall’inizio del 2024 nonostante l’aggravamento della crisi umanitaria nella striscia di Gaza. Nel 2023 la Turchia ha esportato beni in Israele per un totale di 5,43 miliardi di dollari, contro 7,03 miliardi l’anno precedente. Il traffico commerciale in direzione inversa, sempre nel 2023, è stato invece pari a 2,3 miliardi.

La ragione immediata che ha spinto il governo del presidente Erdogan ad agire è ufficialmente il rifiuto da parte israeliana dell’autorizzazione a paracadutare aiuti umanitari nella striscia. Tel Aviv ha consentito invece finora queste limitate iniziative di assistenza a Stati Uniti, Giordania e Regno Unito. Ciò che ha fatto realmente scattare il cambiamento di rotta ad Ankara sembra essere però un duplice fattore, ovvero le crescenti proteste popolari in Turchia contro un governo che aveva finora preservato i rapporti commerciali con Israele e i risultati delle elezioni di settimana scorsa, vinte dall’opposizione.

Il calo del partito della Giustizia e dello Sviluppo (AKP) di Erdogan anche in molte delle sue roccaforti è dovuto in buona parte proprio alle frustrazioni popolari verso un governo che ha denunciato senza mezzi termini i crimini di Israele, ma che con lo stato ebraico ha continuato a fare affari. Questa dinamica è apparsa chiara soprattutto dal trasferimento di una parte consistente di consensi dall’AKP al Nuovo Partito del Benessere (YRP), anch’esso di ispirazione islamista e impegnato in una campagna elettorale incentrata sulle critiche al governo per la sua inerzia sulla questione palestinese.

La doppiezza di Erdogan su questo tema cruciale dipendeva anche da una valutazione pragmatica collegata alla situazione economica turca in grave deterioramento. Per questo motivo, la decisione di fermare parte delle esportazioni verso Israele rischia di creare un serio problema alla Turchia, viste le implicazioni economiche del provvedimento. Il governo Netanyahu ha infatti risposto minacciando a sua volta iniziative volte a penalizzare l’economica turca. Il ministro degli Esteri, Israel Katz, martedì ha avvertito che Tel Aviv intende chiedere agli Stati Uniti di attivarsi per congelare gli investimenti in Turchia e agli “amici” di Israele al Congresso americano di adottare sanzioni contro Ankara.

La presa di posizione di Erdogan era comunque nell’aria. Lunedì era stata anticipata dall’annuncio del presidente di volere ridurre “passo dopo passo” gli scambi commerciali con Israele a seguito del già ricordato divieto ai cargo militari turchi di lanciare aiuti umanitari su Gaza. Ancora la settimana scorsa, tuttavia, la stampa israeliana aveva scritto dell’intenzione di Erdogan di continuare il percorso di riconciliazione con Tel Aviv, contando sul fatto che il prossimo appuntamento con le urne in Turchia è previsto solo tra quattro anni. Il governo di Ankara ha fatto sapere in ogni caso che le restrizioni resteranno in vigore fino a che non ci sarà una tregua a Gaza e non verrà autorizzato l’ingresso nella striscia di tutti gli aiuti necessari.

Il recente assassinio deliberato di sette operatori appartenenti a un’organizzazione umanitaria internazionale e il bombardamento della rappresentanza diplomatica iraniana a Damasco hanno fatto intravedere finalmente un cambio di atteggiamento nei confronti di Israele. Il flusso di armi resta però virtualmente intatto, anche se in queste settimane in alcuni paesi è aumentata sensibilmente la pressione sui rispettivi governi per fermare le forniture che alimentano il genocidio, come ad esempio nel Regno Unito.

Alcune iniziative di Netanyahu sembrano inoltre essere la conseguenza della crescente impazienza a livello internazionale per i massacri quotidiani di palestinesi. Israele ha annunciato questa settimana il ritiro di quasi tutte le forze di terra dalla località di Khan Younis nella striscia, mentre è stato riaperto per la prima volta dal 7 ottobre scorso il valico di Erez e a un numero di mezzi umanitari mai così alto negli ultimi mesi è stato concesso di entrare a Gaza.

Le ansie di Washington per le ripercussioni in termini elettorali della strage di palestinesi e per il rischio di un allargamento del conflitto hanno con ogni probabilità influito sulle recenti decisioni israeliane. Netanyahu ha però anche confermato che l’invasione di terra a Rafah, dove trovano rifugio circa 1,5 milioni di profughi palestinesi, resta nei piani delle forze sioniste e, anzi, il governo e i vertici militari avrebbero fissato la data dell’inizio dell’operazione.

Le vere intenzioni israeliane restano difficili da decifrare. Sei mesi di guerra non hanno prodotto un solo successo strategico, ma hanno precipitato lo stato ebraico in una crisi politica interna e di legittimità a livello internazionale senza precedenti. L’unica via d’uscita resta un cessate il fuoco permanente, ma per Netanyahu questa opzione è anche la più problematica. La prosecuzione della guerra non porterà al raggiungimento di nessuno degli obiettivi stabiliti dopo il blitz di Hamas del 7 ottobre, ma lo stop alle armi segnerebbe quasi certamente la fine politica del primo ministro israeliano.

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