In mezzo alle polemiche e ai tragici eventi legati all’Afghanistan, il primo faccia a faccia tra il presidente americano, Joe Biden, e il premier israeliano, Naftali Bennett, si è consumato qualche giorno fa alla Casa Bianca senza suscitare particolare interesse tra l’opinione pubblica internazionale. I due leader, in effetti, non hanno apparentemente fatto molto di più che ribadire l’alleanza indissolubile tra i loro paesi, ma il cambiamento di tono rispetto all’era Netanyahu e, soprattutto, gli obiettivi del primo ministro israeliano riguardo la questione iraniana meritano uno sguardo oltre la superficie sui rapporti tra le due amministrazioni installatesi nei mesi scorsi.

 

Fin dalla creazione del governo di coalizione israeliano, le intenzioni dei suoi due esponenti più importanti – Bennett e il ministro degli Esteri, Yair Lapid – sono state di ricostruire il rapporto con il Partito Democratico americano, in modo da evitare al loro fragile esecutivo qualsiasi effetto destabilizzante causato da frizioni con il principale alleato dello stato ebraico. Bennett allora, senza negare i diversi punti di vista, aveva promesso un impegno a tenere eventuali polemiche con Biden lontane dalla luce dei riflettori.

In cima alla lista delle questioni da discutere a Washington di Bennett c’era dunque il ritorno degli Stati Uniti nell’accordo sul nucleare dell’Iran (JCPOA), reso possibile dalle discussioni in corso a singhiozzo a Vienna. Senza mezzi termini, il premier di Israele ha confermato il desiderio di vedere naufragare definitivamente l’accordo, anche se l’amministrazione Biden continua a ritenere l’opzione diplomatica come la più adatta nell’approccio alla Repubblica Islamica.

Le due posizioni sono apparse comunque molto lontane praticamente solo riguardo l’eventualità di un’operazione militare per fermare il programma nucleare iraniano. Il capo del governo israeliano ha insistito nel rivendicare il diritto di ricorrere alla forza e ha finito per accontentarsi della rassicurazione di Biden circa l’impegno americano a valutare “altre opzioni” se la diplomazia dovesse fallire. Dopo il disastro dell’esperienza afghana, è improbabile che Biden possa dare il via libera a una pericolosissima aggressione militare contro l’Iran e, senza il consenso USA, è da escludere quasi del tutto un’operazione di questo genere da parte di Israele.

Restano invece sul tavolo, come ha confermato l’entourage di Bennett, le operazioni di “sabotaggio”, come quella dello scorso aprile contro l’impianto nucleare di Natanz. Questi raid non servono in realtà da deterrente contro un programma nucleare militare iraniano che semplicemente non esiste. Piuttosto, le provocazioni israeliane generano una risposta a Teheran spesso sotto forma di accelerazione dei programmi nucleari civili al di fuori dei vincoli del JCPOA. Ciò produce a sua volta critiche a livello internazionale, rendendo più difficoltosi i negoziati per il ristabilimento dell’accordo di Vienna.

Per il momento, le distanze tra USA e Israele sul nucleare iraniano dovrebbero restare tali, con Biden che rimarrà quanto meno in attesa dell’assestamento del nuovo governo della Repubblica Islamica per valutare la percorribilità della strada diplomatica. La rigidità delle posizioni USA, che chiedono un allargamento delle trattative a questioni inaccettabili per Teheran, come l’influenza iraniana in Medio Oriente e i rapporti con gli alleati, rischiano tuttavia di affondare il processo in corso. In questo caso, le pressioni israeliane potrebbero avere un qualche effetto a Washington e contribuire così a far saltare il banco a Vienna.

Biden ha d’altronde mostrato già qualche apertura alle posizioni di Tel Aviv e le reazioni ostentatamente entusiastiche della delegazione israeliana al termine del vertice alla Casa Bianca ne sono in qualche modo una conferma. Pochi giorni dopo, inoltre, Biden ha nominato l’ex ambasciatore USA in Israele, Dan Shapiro, a consigliere dell’inviato speciale per l’Iran, Robert Malley. L’aggiunta di Shapiro al team incaricato di coordinare le politiche iraniane dell’amministrazione democratica è stata letta da molti come una concessione a Israele e una conferma che i punti di vista dello stato ebraico attorno alla questione del nucleare di Teheran saranno tenuti in considerazione.

I timori per una possibile influenza distruttiva di Israele sulla Casa Bianca in relazione all’Iran sono alimentati inoltre dallo stallo dei negoziati di Vienna, anche se le responsabilità non sono da ricercare a Teheran. Martedì, in ogni caso, il neo-ministro degli Esteri iraniano, Hossein Amir-Abdollahian, ha avvertito in un’intervista televisiva che i colloqui sul JCPOA potrebbero riprendere solo nel mese di novembre, dopo cioè un periodo necessario al nuovo governo del presidente, Ebrahim Raisi, per formulare politiche compiute sulla questione.

Strettamente legato all’Iran è anche l’altro fattore cruciale per Bennett in rapporto all’amministrazione Biden, vale a dire la permanenza dei militari americani in Siria e in Iraq. I segnali di un disimpegno USA da quest’area erano già circolati nei mesi scorsi e sono stati rilanciati in questi giorni con l’epilogo del conflitto in Afghanistan. In questo caso Bennett sembra poter dormire sonni tranquilli, non essendoci elementi concreti dell’intenzione di Biden di ritirare il contingente USA. Le preoccupazioni israeliane non riguardano ad ogni modo l’emergere di particolari minacce in caso di un’uscita di scena americana da Iraq o Siria. Piuttosto, Tel Aviv punta sul fatto che la presenza USA – di fatto illegale per quando riguarda la Siria – alimenta tensioni con l’Iran e qualsiasi schermaglia rischia di far precipitare i rapporti tra Washington e Teheran, che è precisamente l’obiettivo di Israele.

Se è possibile riassumere in una frase il senso del vertice tra Biden e Bennett si potrebbe sostenere che l’intenzione del premier israeliano è di fare pressioni sulla Casa Bianca per cambiare rotta circa l’Iran con un approccio che salvaguardi i buoni rapporti, al contrario della linea dura di Netanyahu, non a caso ignorato di fatto dal presidente americano nei pochi mesi in cui i loro incarichi si sono sovrapposti.

Un altro motivo di relativo contrasto tra i due alleati è rappresentato dalla Palestina. Bennett non intende in nessun modo assecondare gli auspici dell’amministrazione Biden per un ritorno al tavolo delle trattative con i palestinesi, né fare marcia indietro sulle politiche di espansione degli insediamenti, promossi enormemente dal suo predecessore. È comunque probabile che il presidente americano abbia chiesto al premier quanto meno di prendere qualche iniziativa per dare l’illusione di voler tornare alla situazione di qualche anno fa, ovvero di ristabilire un dialogo e una certa collaborazione con l’Autorità Palestinese.

Dopo il faccia a faccia di Washington, il ministro della Difesa israeliano, Benny Gantz, ha così incontrato a Ramallah il presidente palestinese Mahmoud Abbas (Abu Mazen). Un vertice israelo-palestinese a questo livello mancava da molti anni, ma è estremamente improbabile che l’evento porti a sviluppi concreti nel prossimo futuro. Gantz ha offerto alcune misure simboliche, tra cui un prestito da 155 milioni di dollari a un’Autorità Palestinese in profonda crisi, anche se sono in seguito circolate voci su disaccordi all’interno del gabinetto israeliano circa l’iniziativa del ministro della Difesa.

Comunque sia, l’incontro ha confermato la facoltà israeliana di avere mano libera sulla questione palestinese, con gli Stati Uniti che tutt’al più premono per rimettere in piedi la farsa del processo di pace e della collaborazione tra lo stato ebraico e l’Autorità Palestinese dopo le disastrose decisioni dell’amministrazione Trump.

Che l’avvicendamento alla Casa Bianca e l’uscita di scena di Netanyahu non abbiano fatto nulla a favore della causa palestinese è un dato oggettivo. Anche il colloquio tra Gantz e il sempre più impopolare Abbas ha alla fine servito solo gli interessi israeliani, visto che a Ramallah si è discusso quasi esclusivamente di questioni legate alla “sicurezza”, cioè dell’impegno a rafforzare l’Autorità Palestinese per mantenere l’ordine in Cisgiordania e, possibilmente, indebolire Hamas e la Jihad Islamica.

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