di Roberta Folatti

Il nuovo film di Sofia Coppola si accende quando il suo protagonista ritrova una luce nello sguardo. Da spettatrice credo di aver individuato il momento preciso in cui questo avviene, e la vita di Johnny Bravo, attore hollywoodiano coccolato dal successo, riacquista una prospettiva, un orizzonte. Anche fisici, perché per molto tempo si era trovata rinchiusa nella dimensione angusta di una stanza di hotel o di un set cinematografico.

Il momento di cui parlo coinvolge certamente la figlia undicenne di Bravo e potrebbe coincidere con una scena in particolare, quella in cui i due giocano in piscina, riscoprendo una complicità perduta o forse mai veramente conquistata. Il piacere di stare con Cleo, ragazzina intelligente e sensibile come la maggior parte dei figli di genitori separati, risveglia in quest’uomo un po’ arrugginito umanamente, circondato dal vuoto pneumatico di una vita da “star”, la voglia di autenticità.

Abituato a donne compiacenti, per le quali la fama rappresenta una fonte di attrazione a prescindere, Bravo ha perso il gusto della scoperta, delle cose rincorse e raggiunte, degli affetti disinteressati. Ma gli basta trascorrere qualche giorno con sua figlia, a contatto con la spontaneità di una ragazzina di quell’età, con il suo bisogno di protezione frustrato dalle troppe assenze dei genitori, per rendersi conto di cosa è essenziale e per far maturare la sua decisione finale.

Sofia Coppola per questo film, di cui ha scritto anche la sceneggiatura, dice di essersi ispirata in parte ad esperienze personali. E chi meglio di lei può aver osservato la gente di cinema alle prese con i momenti di vuoto e di solitudine, o essersi immedesimata in Cloe, al seguito del padre famoso? Il ritratto dell’Italia dei Telegatti è piuttosto impietoso ma la vacuità e la sconnessione di quel mondo dalla vita reale non sono caratteristiche solo nostrane. La regista americana riesce a descrivere con efficacia la bolla d’irrealtà in cui si rinchiude (o si fa rinchiudere) il protagonista, la progressiva apatia, la mancanza di reazioni di fronte agli stimoli.

Per la verità tutti stimoli piuttosto fasulli, patacche di sensualità come i balletti stile lap-dance che le due bionde gli eseguono davanti, lasciandolo totalmente passivo, quasi esangue. In un contrasto voluto, e sottolineato dalla durata dello spezzone, con l’aggraziata danza sul ghiaccio di Cloe, che strappa a Bravo il primo sorriso convinto…

Somewhere (Usa, 2010)
Regia: Sofia Coppola
Sceneggiatura: Sofia Coppola
Fotografia: Harris Savides
Musiche: Phoenix
Cast: Stephen Dorff, Elle Fanning, Chris Pontius, Michelle Monaghan, Laura Ramsey
Distribuzione: Medusa

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

di Roberta Folatti

London river è un’opera sofferta, dolorosa ma al tempo stesso molto vicina a ciascuno di noi. Ci rende simili, da qualunque punto del globo proveniamo, fragili e indifesi di fronte alla violenza cieca. Un destino incomprensibile complotta alle spalle dei due protagonisti, una donna inglese e un uomo di origini africane che si ritrovano uniti nella ricerca dei loro figli scomparsi. La storia è narrata con grande umanità, con una comprensione che giustifica anche le debolezze.

Chi non si sarebbe comportato come la signora Sommers, chi non avrebbe avuto gli stessi moti di stupore e sconcerto proseguendo la ricerca di una figlia che appare sempre più sconosciuta? Le sue convinzioni vacillano, costringendola a confrontarsi con una realtà molto più complessa di quella alla quale è abituata.

La donna vive sola su un’isola inglese, coltivando ortaggi e accudendo i suoi asini. Ha perso il marito nella guerra delle Falkland ma il suo lavoro, a contatto con la terra, la rasserena, riappacificandola col mondo. Da qualche tempo sua figlia si è trasferita a Londra per motivi di studio; con lei non ha un rapporto di grande confidenza, si limita a volerle bene e a rispettare la sua libertà. Il film è ambientato nel luglio 2005, quando una serie di attentati di matrice islamica sconvolse Londra causando decine di morti.

La ricerca della signora Sommers comincia proprio in coincidenza con questo tragico avvenimento e con il fatto che non riesce a mettersi in contatto telefonico con la figlia. C’è anche un padre africano che è arrivato dalla Francia a cercare suo figlio, un figlio che conosce ancora meno perché non lo vede da quando aveva 6 anni. Le strade dei due genitori, ogni giorno più angosciati, inaspettatamente s’incrociano quando si viene a sapere che i due ragazzi avevano una relazione.
 
Da principio la signora Sommers - un’intensa, umanissima, toccante Brenda Blethyn (l’attrice è convinta che questa sia la sua migliore interpretazione) - fatica ad accettare che la figlia si sia messa con un musulmano: in famiglia sono di religione protestante, ma tutti gli indizi lasciati dai due giovani fanno intuire che si tratti di un’intesa profonda. Ousmane, il padre del ragazzo, è un uomo ieratico, in Francia si occupa di curare gli olmi, alberi minati dall’inquinamento e dalle modificazioni climatiche, le sue reazioni sono sempre filtrate da una sorta di fatalismo che ha qualcosa di sacrale.

Dopo l’iniziale, ostinata diffidenza, la signora Sommers in qualche modo si affida alla paziente determinazione dell’uomo, capace di assorbire la sua ansia, a tratti intollerabile, rendendole la permanenza a Londra meno solitaria e angosciante.

Non è giusto raccontare di più, perché il film del regista di origine algerina Rachid Bouchareb è una pellicola che si svela a poco a poco; non è un giallo, ma la tensione della ricerca si accumula e contagia lo spettatore. Non ci sono veri colpi di scena alla maniera dei thriller, ugualmente i pezzi del puzzle sono sparsi in giro, seminati nel quartiere arabo di Londra. E la dolorosa ricomposizione, che alterna speranze a scoramenti, risulta estremamente coinvolgente.

London river (Algeria, Francia, Gran Bretagna, 2009)
Regia: Rachid Bouchareb
Sceneggiatura: Olivier Lorelle, Zoé Galeron, Rachid Bouchareb
Fotografia: Jerome Almeras
Montaggio: Yannick Kergoat
Cast: Sami Bouajila, Brenda Blethyn, Sotigui Kouyaté
Distribuzione: BIM

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

di Roberta Folatti

Contiene anche un messaggio anticonsumista e un po’ retrò l’ultimo “Toy story”, il film di animazione della Disney che ha per protagonista un gruppo coeso di giocattoli. Siamo all’avventura finale, al termine della quale i pupazzi del ragazzo, ormai adolescente e in procinto di partire per il college, troveranno pace in soffitta. O almeno questa sembra essere la logica conclusione…

Ma la fatalità è sempre in agguato e basta lo scambio accidentale di un sacco per compromettere il futuro dei vecchi giocattoli che rischiano di finire triturati in una discarica, o peggio ancora prigionieri in un asilo-lager.

Le opere firmate Pixar sono sempre magnifiche, curate in ogni dettaglio, con punte di creatività che lasciano stupiti. Gli autori sono stati bambini e un po’ sono rimasti tali, altrimenti non potrebbero inventarsi situazioni, descrivere particolari così indissolubilmente legati all’infanzia.

Tutti ci siamo identificati con i nostri giocattoli, molti crescendo li hanno dimenticati (a volte rinnegati) spostando altrove l’investimento emotivo. Qualcuno - come si rivelerà essere il protagonista “umano” di Toy story III. La grande fuga - ha mantenuto aperto uno spiraglio d’immaginazione, quella che permette di animare oggetti inanimati attraverso una modalità tipicamente infantile.

Guardando “Toy story” seduti accanto a una platea di bambini, attenti e al tempo stesso incantati, ci si lascia trasportare in un universo dove ogni cosa prende vita, dove ci sono i buoni e i cattivi (alcuni redimibili, altri no), dove ognuno è disposto ad un gesto eroico per il bene del gruppo, dove ogni cosa è possibile e, quando tutto sembra perduto, un evento inaspettato ribalta la situazione. Come in ogni fiaba che si rispetti…

Nella terza ed ultima parte del cartone animato firmato Pixar, il cowboy leader dei vecchi giocattoli, seguendo altruisticamente i compagni nelle loro alterne fortune e rinunciando al privilegio di partire per il college con il “padrone” adolescente, riuscirà a trovare una sistemazione soddisfacente per tutti. Un luogo dove c’è una bambina che non si fa condizionare dalle mode e accetta di dare spazio anche a chi non è più sulla breccia.

Punteggiato di tocchi d’ironia raffinata - un esempio su tutti, la sfilata di Ken davanti alla Barbie - “Toy story III” sa dosare con sapienza spunti comici e parentesi commoventi, deliziando il pubblico di bambini di tutte le età.

Toy story III. La grande fuga (Usa, 2010)
Regia: Lee Unkrich
Sceneggiatura: Michael Arendt
Musiche: Randy Newman
Distribuzione: Walt Disney

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

di Roberta Folatti

Come opera prima è senz’altro coraggiosa. Nicolo Donato, regista italo-danese, ha scelto di ambientare il suo film all’interno del mondo neonazista e di farci scoppiare una “bomba”. Perché una storia gay, che nasce e si sviluppa tra gente che gli omosessuali è abituata a picchiarli a sangue, è paragonabile a una grossa deflagrazione. Soprattutto se uno dei due amanti è un fedelissimo del capo e l’altro è la nuova promessa del movimento, quello che ha saputo distinguersi per intelligenza e capacità imprenditiva nel gruppo di teste poco pensanti.

La messa a fuoco dei componenti dell’associazione, che venera Hitler e demonizza i musulmani (e gli immigrati in genere), risulta abbastanza impietosa. E la reazione del protagonista Lars al primo impatto con questa gente rende bene l’idea; con sfrontatezza li definisce degli sfigati, della razza che se la prende con i più deboli per sentirsi potente. Sono a tutti gli effetti degli emarginati, un movimento simile finisce per attirare giovani disoccupati, di bassa estrazione sociale e scarsa cultura, in cerca di qualcosa che connoti fortemente le proprie labili identità.

Dopo il rifiuto iniziale, ci casca anche Lars, malgardo abbia una personalità più strutturata. Il fatto è che sta attraversando un periodo difficile: congedato dall’esercito per sospetta omosessualità mentre si avviava a far carriera, in famiglia ha delle grosse incomprensioni e vive i tentativi di aiutarlo dei genitori come intollerabili intromissioni. Da principio si sente accolto e valorizzato all’interno del gruppo neonazista, in cui riesce facilmente a primeggiare, e poi c’è Jimmy, col quale stabilisce un rapporto esclusivo.

Tra i due uomini scoppia l’amore e, dal modo in cui il regista filma le scene di sesso, si capisce che si tratta di sentimento più che di mera attrazione fisica. Il racconto di come questa intesa, consolidandosi, diventi una vera e propria bomba ad orologeria nell’ambiente che i due frequentano, è ben orchestrato da Donato, in un crescendo di tensione che sfocia nel pestaggio dei due amanti, nella decisione di fuggire e nell’inaspettato sviluppo finale. Con i membri del gruppo, e soprattutto il fratello di Jimmy (il delatore), che continuano a ripetere i loro riti stanchi, prigionieri della paura di non farcela senza la protezione invasiva del movimento. Ma Lars e Jimmy, comunque andrà a finire, ne sono fuori…

Brotherhood – Fratellanza (Danimarca, 2009)
Regia: Nicolo Donato
Sceneggiatura: Nicolo Donato, Rasmus Birch
Fotografia: Laust Trier Mørk
Montaggio: Bodil Kjærhauge
Cast: David Dencik, Morten Holst, Nicolas Bro, Thure Lindhardt
Distribuzione: Lucky Red

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

di Roberta Folatti

Raquel è una donna che non ha una vita propria. Tutto è filtrato da ciò che fa per la famiglia presso la quale é a servizio da oltre vent’anni. Lei ha accudito e cresciuto i figli della coppia benestante che le dà lavoro (insieme a vitto e alloggio), lei si sente un po’ la loro madre e s’infiamma per le loro attenzioni. Il suo preferito è il maggiore dei maschi mentre con la primogenita, ormai adolescente, ha rapporti tesi.
Raquel si annulla per la famiglia Valdes, che la ricambia con una correttezza senza sbavature, con una disponibilità più che democratica, ma forse non fa abbastanza per cercare di capirla. Del resto lei è chiusa a riccio, scorbutica, e reagisce quasi con stizza alle aperture della sua datrice di lavoro.

Il film cileno “La Tata”, tradotto in italiano con un discutibile Affetti e dispetti, ha ricevuto riconoscimenti in diversi festival internazionali (tra gli altri “Miglior film straniero” e “Miglior attrice” al Sundance 2009), e li vale tutti. Mescola, con divertita ironia, dramma e lati grotteschi, delinenando con spiccata sensibilità la figura di questa quarantenne, sciatta e disabituata alle relazioni, sulla via della dipendenza da farmaci a causa dei frequentissimi mal di testa che nascondono gelosie, piccole e grandi frustrazioni.

La sua totale mancanza di autonomia, d’interessi e relazioni esterni alla famiglia la conduce, lentamente ma inesorabilmente, verso uno stato di depressione che si manifesta in gesti illogici, continui dispetti che non sono altro che un grido di aiuto. I suoi datori di lavoro sopportano con pazienza ma continuano a non capire. Tentano di affiancarle un'altra domestica che la sollevi dalle molte incombenze quotidiane ma questo peggiora le cose, acuisce le sue insicurezze, ingigantisce il tarlo della gelosia. Fino a che non arriva Lucy, solare, empatica, forte, sempre positiva e bendisposta nei confronti degli altri. Il confronto con questa giovane donna sarà la chiave del cambiamento per Raquel.

La storia raccontata così sembra banale, priva degli ingredienti necessari a farne un film coinvolgente, ma Sebastian Silva, con piccoli tocchi, senza furbizia, semmai con grande sapienza, rende memorabile la figura di questa donna opaca, regalandoci e regalandole un finale aperto, sorridente, colmo di impercettibili promesse.

Affetti e dispetti (Cile, Messico, 2009)
Regia: Sebastian Silva
Sceneggiatura: Pedro Peirano
Montaggio: Danielle Fillios
Scenografia: Pablo Gonzales
Cast: Catalina Saavedra, Andrea García-Huidobro, Alejandro Goic
Distribuzione: Bolero Film

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 


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