di Sara Michelucci

Stranieri non solo in patria, ma anche sul posto di lavoro. Identità dimenticate, ritrovate solo dopo la morte. Il responsabile delle risorse umane, nuovo lavoro di Erin Riklis, tratto dal romanzo di Abraham B. Yehoshua, racconta il viaggio a tratti epico del responsabile delle risorse umane, Mark Ivanir, di un’azienda di pane israeliana per riportare in patria il cadavere di una sua dipendente rumena.

Il tutto ha inizio dopo un attentato nel cuore di Gerusalemme. Tra le vittime c’è una giovane donna, Yulia, che non ha documenti con sé. Il suo cadavere resta così per un’intera settimana in obitorio senza che nessuno chieda di lei. Finché la notizia non arriva alla stampa che apre un’inchiesta sull’accaduto mettendo alla berlina la società per cui Yulia lavorava. L'azienda è colpevole di non essersi accorta dell’assenza di una delle sue lavoratrici, accusata da un giornale locale per cui lavora un giornalista piuttosto arrivista, di crudele mancanza di umanità. L’immagine della ditta dovrà essere ‘ripulita’, così toccherà al responsabile delle risorse umane rimediare al danno.

Nel viaggio verso la Romania, sarà accompagnato dall’odiato giornalista e da episodi comici e tristi. L’incontro con l’ex marito di Yulia e con il ribelle figlio adolescente, fino all’arrivo nel villaggio dove vive l’anziana madre della donna, saranno per il responsabile delle risorse umane lo spunto per ritrovare se stesso e il vero senso della vita. Gli affetti veri, quelli per sua figlia e per l’ex moglie, ritorneranno così a galla e andranno a stagliarsi su un gradino più alto rispetto al lavoro e agli impegni, com’è giusto che sia.

Il viaggio verso il paese natale di Yulia sarà una vera e propria epopea in uno scenario post sovietico. La salma verrà posta su uno sgangherato furgoncino, che ben presto li lascerà a piedi, guidato da un autista ubriaco e con la patente scaduta. Una bufera di neve costringerà il gruppo a chiedere riparo in una vecchia postazione dell’Armata Rossa che presidia un bunker. Mark passerà due giorni in preda alla febbre e al delirio, in una catarsi che gli farà capire il vero senso delle cose.

Il viaggio proseguirà su un hamvee di fabbricazione sovietica, fino alla meta. Ma Yulia non appartiene più a quella terra e il mezzo militare con la bara della giovane tornerà verso Gerusalemme, metafora della condizione del migrante, scisso tra due realtà. Un cinema “sociale” quello di Riklis, che fa il paio, seppur seguendo realtà differenti, con quello di Mike Leigh o più ancora di Ken Loach, dove l’elemento umano spicca su tutto il resto.

Il regista de Il giardino di limoni mette in scena uno strampalato road movie fatto di elementi tragicomici come quando si cerca di togliere il ghiaccio dalla bara di Yulia sul portapacchi del furgoncino o la figura bizzarra della console israeliana a Bucarest con tanto di pelliccia e di amante dedito al bicchiere. Un happy end dolce-amaro, in cui si capirà davvero il significato del termine risorsa umana.

Il responsabile delle risorse umane (Germania, Francia, Israele 2010)
Regia: Eran Riklis
Sceneggiatura: Noah Stollman
Soggetto: ispirato all'omonimo libro di Abraham Yehoshua
Attori: Mark Ivanir, Gila Almagor, Julian Negulesco, Irina Petrescu, Guri Alfi
Produzione: 2-Team Productions, EZ Films, Pie Films
Distribuzione: Sacher Distribuzione

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

di Sara Michelucci

Cigno nero e cigno bianco, il bene e il male, la castità e la sensualità. Estremi, facce di una stessa medaglia che si alternano e che probabilmente ognuno di noi ha un po’ dentro di sé. Il cigno nero, nuovo lavoro di Danny Aronofsky, racconta la scissione, la divisione tra due mondi, apparentemente distanti, ma invece totalmente intrecciati tra loro.

Natalie Portman (premiata con l’Oscar 2011 come migliore attrice protagonista) interpreta Nina, giovane ballerina del New York City Ballet, con una madre decisamente ingombrante che scarica le sue frustrazioni di ballerina mancata sulla figlia, e una personalità complessa, che a tutti i costi vuole il ruolo da protagonista ne Il Lago dei cigni. Il sogno è quello di interpretare il doppio personaggio di Cigno Bianco, puro e fragile, e il Cigno Nero, seducente nel suo essere malefico.

Il lato oscuro di Nina dovrà venire fuori per riuscire ad interpretare al meglio questa “regina nera” e il suo corpo, in un’allegoria continua, si trasformerà raggiungendo nuove vette. In questa “lotta” con se stessa, spinta anche dal coreografo Thomas Leroy (il bravo Vincent Cassel), non potrà mancare la rappresentazione esterna delle sue paure e della sua insicurezza: la neo arrivata Lily (Mila Kunis), che rappresenta la sua maggiore rivale.

Bella, provocante e molto sensuale, sarà per Nina, magrissima e ancora legata a un’infanzia prigioniera, un vero alter ego. Non le resterà che disfarsi del passato e calarsi fino in fondo nel ruolo del mortale Cigno nero per raggiungere quella perfezione cercata ad ogni costo.L’allegoria, l’allucinazione, lo sdoppiarsi di sogno e realtà saranno gli strumenti principali scelti dal regista per rappresentare la lotta interiore e quella per conquistare il palcoscenico, della tragica Nina.

Aronofsky mette nuovamente in scena un personaggio molto complesso, come aveva fatto con il bel The Wrestler, interpretato da un gonfio e livido Mickey Rourke e vincitore del Leone d’Oro al 65° Festival di Venezia, nonché nominato a due Oscar nel 2009. Un personaggio che si trova davanti alla competizione pura per poter esistere davvero. Salire sul palco, oppure su un ring, non cambia poi molto, l’importante è mettersi in gioco, anche se per l’ultima volta.

Il cigno nero (Usa 2010)

Regia: Darren Aronofsky
sceneggiatura: Darren Aronofsky, Mark Heyman, John McLaughlin
attori: Natalie Portman, Vincent Cassel, Mila Kunis, Winona Ryder, Barbara Hershey, Kristina Anapau, Benjamin Millepied, Ksenia Solo, Janet Montgomery, Sebastian Stan, Toby Hemingway, fotografia: Matthew Libatique
montaggio: Andrew Weisblum
musiche: Clint Mansell
produzione: Cross Creek Pictures, Phoenix Pictures, Protozoa Pictures
distribuzione: 20th Century Fox

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

  

di Sara Michelucci

Montaggio incalzante, musica accattivante e l’uso di una doppia telecamera. Danny Boyle torna al cinema con un film decisamente forte, 127 ore, basato sulla vera storia di Aron Ralston (interpretato da James Franco), alpinista statunitense che nel maggio del 2003 rimase intrappolato sulle montagne dello Utah, costretto ad amputarsi un braccio per potersi liberare dal masso che per quasi 5 giorni lo ha trattenuto in una gola del Blue John Canyon. Il film scritto a quattro mani dal regista di The Millionaire e da Simon Beaufoy, trae ispirazione dal libro di Ralston, Between a Rock and a Hard Place.

Qual è il confine dell’avventura? Sembra chiedere Boyle. Ovvero quanto possiamo spingerci oltre il buon senso, senza rischiare di perdere la vita e tutto quello che abbiamo? Il protagonista, che all’epoca aveva 28 anni, è un amante del trekking, del biking e dell’avventura in generale. Come fa di solito decide di partire per un nuovo viaggio, senza dire niente a nessuno. Una gita solitaria, inframmezzata dal breve incontro con due ragazze, anche loro in visita nello Utah, e da un tuffo in un meraviglioso lago sotto le rocce. Tutto sembra andare per il verso giusto, con un paesaggio mozzafiato a fare da contorno e un senso di libertà che fa bene all’anima.

Ma il pericolo è proprio dietro l’angolo e Ralston precipita insieme a un grosso masso in una crepa del canyon, con il braccio incastrato dalla roccia. Provato dalla fame e dalla sete, e anche dalla paura di non poter rivedere più i suoi cari e di essersi lasciato sfuggire la sua ragazza, perché mosso da troppo egoismo, Ralston si metterà in discussione e in quella forzata “prigionia” sarà accompagnato da flashback che gli faranno capire l’importanza  di certi legami, mischiati a immagini oniriche e allucinazioni, dove il confine tra realtà e sogno si perde. A livello registico il film è decisamente interessante e mette in luce ancora una volta la bravura di Boyle.

L’avvicendamento della telecamera con quella a mano del protagonista crea quasi uno sdoppiamento della regia che offre allo spettatore un’alternanza di punti di vista. La videocamera digitale sarà in quei 5 giorni l’unico interlocutore di Aron, a cui lascerà alcuni messaggi e che racconterà attraverso le immagini parte di quella terribile esperienza. Arrivato alla disperazione lo spirito di sopravvivenza porterà Aron ad amputarsi il braccio, per ritrovare la libertà. La fotografia riesce a cogliere appieno i colori e gli “umori” del tempo, e il passaggio dal giorno alla notte scandisce le ore, ma anche la vita stessa del protagonista, in un crescendo di emozioni, dove la voglia di vivere vince su tutto il resto.

127 ore (Gran Bretagna - Usa 2010)
Regia: Danny Boyle
Sceneggiatura: Danny Boyle, Simon Beaufoy
Attori: James Franco, Kate Mara, Amber Tamblyn, Treat Williams, Sean Bott, Koleman Stinger, John Lawrence, Kate Burton
Fotografia: Enrique Chediak, Anthony Dod Mantle
Montaggio: Jon Harris
Musiche: A.R. Rahman
Produzione: Cloud Eight Films, Pathé
Distribuzione: 20th Century Fox

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

di Sara Michelucci

Remake del famoso western di Henry Hathaway, con il quale John Wayne ottenne l'unico premio Oscar della sua carriera, Il Grinta diretto dai fratelli Ethan e Joel Coen dà nuova linfa ad un genere che sembrava appartenere al passato o ai grandi nomi del cinema americano.

È una storia di vendetta quella che raccontano i Coen, tematica frequentemente visitata in molti film western. Dopo che il padre è stato ucciso da un pistolero di nome Tom Chaney (interpretato dal bravissimo Josh Brolin), la 14enne Mattie Ross intraprende un viaggio per cercare e uccidere l’assassino. Ma da sola non può farcela, così assolda il più duro degli Us Marshal, Reuben J. “Rooster” Cogburn (Jeff Bridges), con un solo occhio, un caratteraccio e piuttosto “dedito” alla bottiglia. Cogburn accetta con riluttanza che Mattie lo accompagni nella caccia a Chaney, ma alla fine dovrà arrendersi alla grinta e alla caparbietà della giovane ragazza.

Ma non sono soli e il loro viaggio vedrà la presenza del Texas Ranger di nome LaBoeuf (Matt Damon), il quale insegue una taglia su Chaney. Lo stile dei Coen risalta subito, mischiando l’ironia pungente con atmosfere e scenari tipici del genere, dove i grandi paesaggi riempiono gli occhi e il cuore.

E già con Non è un paese per vecchi il duo registico aveva dato un primo assaggio di questa atmosfera da Far West, annunciando la volontà di dare alla luce un film western nel Ventunesimo secolo. E si parte da un classico del grande schermo, per dare vita alle avventure di una serie di antieroi che mettono in evidenza prima le proprie debolezze e mancanze e poi le proprie capacità di raggiungere l’obiettivo, anche a suon di pistolate.

A volte la figura dell’eroe vendicativo è impiantata su quella dell’uomo comune che, dopo aver subito una grave ingiustizia, diventa un’anima dannata placata solo dalla morte del suo nemico. L’unica legge che conta nel West è quella personale visto che lo Stato è ancora un concetto astratto. L’ansia di giustizia porta alla configurazione di un eroe particolare, di antieroe o un post-eroe, come lo definisce lo studioso Gino Frezza, una figura archetipica dell’angelo dannato del quale resta lucida coscienza dell’irrimediabile tensione fra ordine e caos.

Nei film dei fratelli Coen si va anche oltre e sono le debolezze dell’uomo comune, ma più spesso dell’uomo fallito, ad essere messe al centro dell’attenzione. Da Il grande Lebowski, storia di un ex hippie, disoccupato e cronicamente pigro, che senza troppi problemi si barcamena tra una partita di bowling, una canna e dosi massicce di White Russian, a A Serious Man, dove un ordinario professore del Minnesota, che vive una vita familiare e professionale totalmente deludente, tenta di risolvere i suoi problemi chiedendo consiglio a tre rabbini; il cinema di questi due autori è denso di personaggi problematici, ma decisamente divertenti e con cui si trova subito affinità.

Anche ne Il Grinta, questi eroi contemporanei, nonostante raggiungano un obiettivo comune, sono alla fine destinati a restare da soli. Perché, in fondo, “il tempo ci sfugge”, e non possiamo farci molto, se non tentare di vivere a pieno le emozioni più forti.

Il Grinta (Usa 2010)
Regia: Ethan Coen, Joel Coen
Interpreti: Jeff Bridges, Hailee Steinfeld, Josh Brolin, Matt Damon, Barry Pepper, Paul Rae, Domhnall Gleeson, Elizabeth Marvel, Ed Corbin, Dakin Matthews, Joe Stevens, Mary Anzalone,
Tratto da: ‘Il Grinta’ di Charles Portis
Distribuzione: Universal Pictures International Italy
Produzione: Scott Rudin Productions, Paramount Pictures, Skydance Productions, Mike Zoss Productions

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

di Sara Michelucci

Ancora le donne al centro del secondo film diretto da Gianni Di Gregorio. Se in Pranzo di Ferragosto l’universo femminile che ruota attorno al mite e un po’ “represso” protagonista, ha superato da un pezzo la settantina, questa volta, nella pellicola Gianni e le donne, il sessantenne Gianni, interpretato dallo stesso Di Gregorio, è circondato da un più ampio e variegato "cast" femminile.

Animo bonario, molti rimpianti e poche ambizioni, Gianni deve districarsi tra una figlia amata, ma piuttosto irrequieta, una mamma novantenne esagerata nei modi e nello spendere (che richiama quella di Pranzo di Ferragosto, stile nobildonna decaduta) e una moglie che ha mille impegni e che per questo è spesso assente. Con una bottiglia che lo accompagna, Gianni scopre, grazie ad uno sfacciato amico avvocato, un mondo tutto nuovo, fatto di sinuose badanti, vicine eleganti, primi amori. Così a Gianni pare di vivere una seconda giovinezza, se non una prima vera e propria; ma la cruda realtà di uomo in avanti con gli anni lo riporterà con i piedi ben saldi a terra.

Gianni e le donne è una commedia raffinata, che si discosta da quella realtà politica e sociale che, sopratutto negli ultimi tempi, vede un machismo piuttosto triste sopraffare l’uomo elegante e che ci sa davvero fare con le donne. Di autobiografico, anche in questo film, c’è davvero molto. La presenza materna è decisamente ingombrante, ma allo stesso tempo tenera. E poi Trastevere, il quartiere dove il regista ha sempre vissuto e forse, come ha detto in alcune interviste, da dove non è quasi mai uscito, conoscendo ormai ogni angolo e ogni personaggio di quello spaccato di mondo all’interno della Capitale.

Nato a Roma nel 1949, Di Gregorio, oltre ad essere un bravo attore e regista, è stato co-sceneggiatore del film Gomorra di Matteo Garrone e sceneggiatore di Sembra morto ma è solo svenuto. Un cinema, quello di Di Gregorio, semplice nella forma ma profondo e articolato nel contenuto, che serve a parlare di se stessi, mettendo in scena vizi e virtù, debolezze e manie dell’uomo di mezza età, che vorrebbe osare di più ma che forse sta bene così come è.

L’autoironia, poi, è uno strumento vincente per mettere in scena la condizione di un uomo comune e un po’ maldestro, incastrato tra la monotonia di una vita sempre uguale e la voglia, seppure sopita, di rivoluzionarla. Fa piacere allora, che un bel film italiano come questo sia stato scelto per la Berlinare e certo le ottime recensioni internazionali l’hanno aiutato. Sono infatti 13 i Paesi che hanno già acquistato il film. Insomma il cielo sopra Berlino è decisamente azzurro. E si spera anche quello italiano.

Gianni e le donne (Italia 2011)
Regia: Gianni Di Gregorio
Sceneggiatura: Gianni Di Gregorio
Interpreti: Gianni Di Gregorio, Valeria Bendoni, Alfonso Santagata, Elisabetta Piccolomini, Valeria Cavalli, Aylin Prandi, Kristina Cepraga, Michelangelo Ciminale, Teresa Di Gregorio, Lilia Silvi, Gabriella Sborgi
Distribuzione: 01 Distribution

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 


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