di Michele Paris

L’aggravarsi della crisi nella penisola di Corea e il crescente rischio di un conflitto nucleare sembrano avere approfondito le divisioni tra gli Stati Uniti di Donald Trump e i governi europei. Mentre Washington si apprestava a preparare una durissima proposta di risoluzione alle Nazioni Unite contro la Corea del Nord, la cancelliera tedesca Angela Merkel ha lanciato infatti un’ipotesi di negoziato sull’esempio di quello che nel 2015 portò allo sblocco dello stallo sul programma nucleare dell’Iran.

La Merkel ha avanzato l’idea nel corso di un’intervista pubblicata nel fine settimana dal Frankfurter Allgemeine Sonntagszeitung, elaborando una posizione decisamente più moderata rispetto a quella americana che già aveva esposto a inizio mese durante l’unico dibattito elettorale in diretta televisiva con il leader socialdemocratico, Martin Schulz.

Il formato delle trattative di Vienna sull’Iran, secondo la Merkel, potrebbe essere adottato anche “per risolvere il conflitto nordcoreano”. A esso, “l’Europa e soprattutto la Germania dovrebbero essere pronte a prendervi parte in maniera attiva”, ha spiegato il capo del governo tedesco.

Il modello suggerito dalla Merkel prevedeva negoziati tra i rappresentanti della Repubblica Islamica da una parte e dei cinque membri permanenti del Consiglio di Sicurezza ONU (USA, Russia, Cina, Francia, Gran Bretagna) più quelli della Germania dall’altra. L’intesa definitiva, raggiunta a Vienna nel luglio del 2015, è stata descritta dalla Merkel come “un momento importante per la diplomazia”, tanto da essere potenzialmente replicato per la Corea del Nord.

Le parole della cancelliera ribadiscono la volontà del governo di Berlino di proporre sempre più la Germania come potenza in grado di intervenire attivamente nelle questioni internazionali e, come già ricordato, indicano ancora una volta i tracciati divergenti con l’amministrazione Trump, già evidenti fin dall’ingresso alla Casa Bianca del presidente repubblicano.

Gli Stati Uniti devono avere accolto con un certo fastidio l’intervento della Merkel sulla Corea del Nord. L’intervista è arrivata d’altra parte alla vigilia della convocazione del Consiglio di Sicurezza al Palazzo di Vetro, nel quale la risoluzione americana ha dovuto fare già i conti con la ferma opposizione di Russia e Cina a implementare quello che sarebbe un blocco commerciale ed energetico totale nei confronti del regime di Kim Jong-un.

Non solo, il riferimento della Merkel all’accordo sul nucleare iraniano è doppiamente irritante per Washington, visto che Trump e buona parte del suo staff denunciano da tempo i termini sottoscritti a Vienna e, anzi, minacciano di ritirare gli USA dall’intesa alla prima occasione possibile.

La presa di posizione della cancelliera tedesca rischia così di allargare ulteriormente il solco tra gli Stati Uniti e l’Europa. Praticamente tutti i governi del vecchio continuano ad avvertire Washington che un passo indietro sul nucleare di Teheran sarebbe uno sbaglio enorme, in primo luogo perché molte aziende europee hanno ormai gettato le basi per il ritorno sul mercato iraniano.

Trump sembra intenzionato comunque a non certificare nuovamente l’adempienza dell’Iran ai termini dell’accordo di Vienna quando sarà chiamato a farlo per la terza volta a metà ottobre. L’Agenzia Internazionale per l’Energia Atomica (AIEA) continua in realtà a confermare il comportamento conforme all’intesa da parte di Teheran, ma l’amministrazione repubblicana ha di fatto anticipato che ricorrerà a qualsiasi giustificazione per far naufragare l’accordo.

Una mossa in questa direzione sarebbe basata su scelte di natura puramente strategica, essendo l’Iran uno dei principali ostacoli agli interessi USA in Medio Oriente e al tentativo di impedire l’integrazione euroasiatica in atto, di cui la Repubblica Islamica è appunto uno snodo cruciale.

Inevitabilmente, quindi, il precipitare della crisi nella penisola di Corea dopo il sesto test nucleare del 3 settembre scorso ha finito per sovrapporsi alle tensioni esplose tra le due sponde dell’Atlantico dopo l’arrivo al potere di Donald Trump con la sua agenda ultra-nazionalista.

Sulla questione coreana, i governi europei hanno finora assecondato le dure condanne del regime di Kim provenienti da Washington, ma le rispettive reazioni hanno evidenziato approcci innegabilmente diversi. Se gli USA hanno affermato che il tempo del dialogo è ormai passato e non hanno mai escluso l’opzione militare, inclusa quella nucleare, giungendo anzi talvolta ad ipotizzarla seriamente, l’Europa si è fermata alle sanzioni punitive come strumento per giungere a una qualche soluzione diplomatica.

La stessa Merkel avrebbe già preso iniziative in questo senso, avendo discusso nei giorni scorsi della Corea del Nord con il presidente cinese, Xi Jinping, il primo ministro giapponese, Shinzo Abe, e, secondo il Frankfurter Allgemeine Sonntagszeitung, anche con Vladimir Putin.

Il governo tedesco non è comunque l’unico a voler escludere l’uso della forza. L’ambasciatore francese all’ONU, François Delattre, ad esempio, ha detto settimana scorsa all’americana CBS che le sanzioni, “più pesanti risulteranno, più ci renderanno forti nel promuovere una soluzione politica” alla crisi coreana.

Leggermente più sfumata è invece la posizione britannica, dal momento che essa si incrocia con i dilemmi strategici di Londra legati alla “Brexit”. Il rappresentante del governo May alle Nazioni Unite, Matthew Rycroft, ha anch’egli collegato eventuali nuove sanzioni contro il regime di Kim alla necessità di lanciare un’iniziativa diplomatica.

Tuttavia, come ha scritto domenica il Guardian, Downing Street non vuole rompere con l’amministrazione Trump, sulla quale conta per mandare in porto un accordo di libero scambio di importanza fondamentale dopo l’uscita dall’Unione Europea. Nonostante queste apprensioni, anche Londra si oppone sia a un’iniziativa militare contro la Corea del Nord sia all’uscita degli USA dall’intesa sul nucleare iraniano.

Al Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite, ad ogni modo, nella giornata di lunedì si è votato su una risoluzione americana ammorbidita, vista l’impossibilità di ottenere l’appoggio di Mosca e Pechino su una versione precedente. In essa, Washington chiedeva tra l’altro l’embargo sulle forniture di greggio alla Corea del Nord, lo stop alle esportazioni di manufatti tessili e sanzioni dirette contro Kim Jong-un.

Russia e Cina non sono evidentemente disposte a forzare il tracollo dell’economia nordcoreana. Da parte dei membri europei del Consiglio di Sicurezza invece, il timore è che un impasse all’ONU possa spingere l’amministrazione Trump ad abbandonare la ricerca del consenso internazionale e ad agire in maniera unilaterale.

di Michele Paris

Dopo un lungo silenzio, in questi giorni la premio Nobel per la pace Aung San Suu Kyi ha parlato finalmente della repressione in corso nello stato occidentale di Rakhine, in Myanmar, condotto dalle forze governative contro la minoranza musulmana Rohingya. L’icona della democrazia nella ex Birmania non ha però condannato le operazioni che stanno costringendo alla fuga nel vicino Bangladesh decine di migliaia di persone, ma le ha giustificate in nome della lotta al terrorismo nel paese asiatico di cui essa stessa è la leader di fatto assieme ai vertici militari.

San Suu Kyi ha avuto un colloquio telefonico con il presidente turco Erdogan nella giornata di martedì, durante il quale ha fornito spiegazioni a quest’ultimo sui fatti dello stato di Rakhine. Erdogan si è unito al coro di condanne internazionali contro il governo del Myanmar, provenienti in particolare dai paesi musulmani, giungendo a ipotizzare il pericolo di “genocidio” nei confronti di una minoranza da tempo perseguitata. Per San Suu Kyi, al contrario, la crisi sarebbe alimentata dalla diffusione di “fake news” e da una “campagna di disinformazione” globale.

Quella a cui si sta assistendo è solo l’ultima ondata di violenze interetniche nello stato di Rakhine, scaturita il 25 agosto scorso dopo che un gruppo ribelle Rohingya aveva attaccato alcune postazioni delle forze di sicurezza birmane. La risposta è stata come di consueto durissima, con i militari che hanno tra l’altro dato fuoco a villaggi abitati a maggioranza da musulmani, costringendoli alla fuga.

A oggi, le Nazioni Unite stimano che circa 125 mila persone di etnia Rohingya abbiano trovato rifugio in Bangladesh per sfuggire a violenze, a esecuzioni sommarie, e alla distruzione delle loro abitazioni. La posizione ufficiale del governo del Myanmar è invece che l’intervento delle forze armate sia necessario per reprimere gruppi ribelli che minacciano sia la sicurezza degli abitanti di fede buddista dello stato sia l’unità del paese.

I Rohingya in Myanmar sono più di un milione e vengono considerati immigrati illegali “bengalesi” senza diritti, nonostante il loro stanziamento nel paese a maggioranza buddista sia iniziato svariati secoli fa. L’attitudine del governo e del resto della popolazione della ex Birmania nei confronti dei Rohingya è generalmente ostile e negli ultimi anni si sono verificati numerosi scontri ed episodi di violenza, spesso scoppiati in seguito a resoconti ingigantiti di attacchi o aggressioni commesse da musulmani contro buddisti.

I musulmani Rohingya che hanno lasciato i loro villaggi si ritrovano in condizioni drammatiche. Il governo del Bangladesh, anche se continua ad accogliere i profughi dietro pressioni internazionali, minaccia spesso di rimpatriarli e non ha i mezzi né la volontà di creare condizioni adatte a un’accoglienza quanto meno dignitosa.

La situazione in Myanmar ha raggiunto una gravità tale che il segretario generale dell’ONU, Antonio Guterres, questa settimana ha insolitamente fatto appello al governo centrale a cessare le discriminazioni nei confronti della minoranza musulmana, a suo dire a rischio di “pulizia etnica”. A rendere ancora più drammatico il quadro, come ha spiegato il direttore esecutivo di UNICEF, Anthony Lake, l’80% dei Rohingya fuggiti e bisognosi di aiuti sono donne e bambini.

L’interesse della stampa e della comunità internazionale per la nuova crisi nello stato di Rakhine si è concentrato in particolare sul comportamento di Aung San Suu Kyi. Non solo la “consigliera di stato” e ministro degli Esteri del Myanmar non ha finora mai pronunciato una sola parola a favore dei Rohingya, ma la repressione nei confronti della minoranza musulmana si è intensificata dopo l’approdo al governo del suo partito, la Lega Nazionale per la Democrazia (NLD).

Il sostanziale allineamento di San Suu Kyi alle posizioni dei militari, i quali conservano ampi poteri anche dopo il ritorno formale al multipartitismo, testimonia quindi a sufficienza della sua attitudine “democratica”, così come della natura tutt’altro che disinteressata delle campagne occidentali, e soprattutto americane, degli anni scorsi per promuovere la figlia del fondatore della moderna Birmania.

È in ogni caso vero che in Myanmar le questioni legate alla sicurezza interna restano di totale competenza dei militari, i quali hanno anche una sorta di potere di veto sull’operato e la sopravvivenza stessa del governo civile. San Suu Kyi e i vertici del suo partito condividono tuttavia il nazionalismo buddista che caratterizza le forze armate e, ancor più, non intendono mettere a rischio gli equilibri politici che hanno consentito loro di condividere il potere dopo decenni di esclusione e repressione.

Il sostegno garantito da Washington alla NLD era collegato ai tentativi di sottrarre un paese strategico come il Myanmar all’influenza cinese, cresciuta a dismisura nel corso degli anni della dittatura militare durante i quali esso era virtualmente isolato dalla comunità internazionale.

Dopo la revoca degli arresti domiciliari di San Suu Kyi e le elezioni vinte dalla NLD nel 2015, gli Stati Uniti hanno di fatto interrotto le critiche al Myanmar per lo stato precario dei diritti umani, malgrado persistenti problemi come quello dei Rohingya, premiando un nuovo governo che si era subito mostrato disposto ad aprire il paese all’influenza e al capitale occidentale.

Negli ultimi tempi, però, la penetrazione occidentale in Myanmar ha fatto segnare un netto rallentamento per varie ragioni e il governo di questo paese è tornato a guardare in buona parte alla Cina per la realizzazione dei progetti di sviluppo e di crescita economica promessi e mai attuati da Washington.

Come quasi sempre accade con le crisi internazionali, specialmente se umanitarie, alle vicende di popoli repressi o perseguitati si incrociano questioni politiche, strategiche ed economiche più ampie e, con ogni probabilità, non fa eccezione nemmeno la sorte dei Rohingya. Mentre è innegabile che quelle in atto siano violenze gravissime commesse dalle forze di sicurezza governative, i fatti registrati tra lo stato birmano di Rakhine e il Bangladesh rischiano di essere strumentalizzati dalle potenze internazionali.

Significative a questo proposito sono le critiche che anche nei circoli ufficiali in Occidente vengono rivolte sempre più a Aung San Suu Kyi. Il governo americano ha in realtà finora mantenuto un atteggiamento molto cauto sulla crisi, ma la stampa “mainstream” occidentale ha fatto ricorso a toni piuttosto aggressivi verso il premio Nobel, indicando quindi un possibile cambiamento di rotta nei suoi confronti.

Il Washington Post ha ad esempio pubblicato mercoledì un vero e proprio attacco alla leader birmana, titolandolo “il vergognoso silenzio di Aung San Suu Kyi”. Il britannico Guardian ha parlato a sua volta di “negazione di prove ben documentate” sui massacri dei Rohingya e “impedimenti agli aiuti umanitari” da parte di quest’ultima.

A dare un’idea delle ragioni che stanno generando ansia in Occidente è stata ad esempio una dichiarazione di mercoledì del consigliere per la sicurezza nazionale del Myanmar, Thaung Tun, il quale ha fatto sapere che il suo governo sta negoziando con Cina e Russia – definite “paesi amici” – per bloccare eventuali risoluzioni sulla crisi dei Rohingya al Consiglio di Sicurezza dell’ONU.

La situazione sul campo nello stato di Rakhine è per certi versi altrettanto complessa degli scenari strategici che si intrecciano alla vicenda. Il governo centrale non consente infatti l’accesso alle aree dove vive la minoranza musulmana a giornalisti stranieri e indipendenti, né sembra volere accettare un’indagine internazionale.

Malgrado ciò o forse proprio per questo, alcune notizie che circolano contribuiscono ad alimentare più di un dubbio su alcuni aspetti della crisi. La pretesa del Myanmar di combattere il terrorismo appare decisamente esagerata, essendo la formazione di gruppi ribelli in larga misura di natura difensiva. Tuttavia, non è da escludere del tutto che dietro a queste formazioni ci possano essere quanto meno forze interessate a mettere in atto un’agenda di più ampio respiro.

La testata on-line Asia Times ha pubblicato nei giorni scorsi alcuni articoli che descrivevano la nascita e le attività del principale gruppo ribelle attivo a favore della minoranza musulmana, l’Esercito di Salvezza dell’Arakan Rohingya (ARSA). Il suo leader, Ataullah abu Ammar Junjuni, sembra corrispondere al ritratto del jihadista, essendo nato in Pakistan da una comunità Rohingya ed educato in Arabia Saudita, dove ha operato come “imam wahhabita” prima di giungere nella ex Birmania.

La Reuters già nel 2016 aveva scritto che gli “insorti” musulmani in Myanmar avevano legami finanziari con il Pakistan e l’Arabia Saudita, mentre l’anno prima il quotidiano pakistano Dawn aveva spiegato come l’influenza del fondamentalismo islamico avesse solide radici nelle comunità Rohingya del paese centro-asiatico.

Se la repressione in corso in Myanmar ha probabilmente ancora pochi legami con questi aspetti, è comunque possibile che almeno in prospettiva vi siano forze che intendano sfruttare le divisioni etniche per promuovere i propri interessi strategici, visti soprattutto i precedenti legati all’utilizzo delle forze integraliste anche da parte occidentale.

Il Myanmar rappresenta d’altronde una componente importantissima della strategia di crescita e di integrazione economica euro-asiatica della Cina, interessata, tra l’altro, a fare di questo paese un punto di transito delle rotte energetiche e commerciali provenienti dal Medio Oriente, in modo da evitare le potenzialmente pericolose vie marittime sud-orientali.

In questa prospettiva, non è difficile comprendere come determinati attori internazionali abbiano tutto l’interesse ad alimentare il caos nella ex Birmania, ostacolandone la stabilizzazione attraverso il sostegno a un movimento ribelle sorto per ragioni difensive e interamente legittime.

di Mario Lombardo

La riforma del lavoro in Francia, minacciata in campagna elettorale dal presidente Emmanuel Macron e presentata ufficialmente qualche giorno fa dal primo ministro Édouard Philippe, mira in maniera esplicita a garantire alle aziende private mano libera nel licenziare i propri dipendenti e a fissare regole di lavoro più flessibili e a loro totale vantaggio.

Soprattutto, la misura che verrà approvata per decreto dal governo nel mese di settembre è vista sempre più come un test cruciale per la classe dirigente francese, chiamata a dare un esempio a livello internazionale della capacità di liberalizzare in maniera drastica il mercato del lavoro e di reprimere la vasta opposizione popolare che numerosi sondaggi stanno da tempo registrando.

Il testo della nuova “loi travail” francese si compone di 36 provvedimenti che promettono in gran parte di liquidare il contenuto del codice del lavoro. La stampa d’oltralpe e internazionale si è concentrata però su una manciata di misure più significative e potenzialmente in grado di stravolgere i rapporti tra lavoratori e padroni.

Alcune misure, inoltre, rispecchiano quelle messe da parte lo scorso anno dal governo del Partito Socialista e dal presidente François Hollande, la cui riforma del lavoro era stata accolta da massicce manifestazioni di protesta in tutto il paese.

La nuova legge, secondo Macron e il suo governo, dovrebbe finalmente scuotere il mercato del lavoro e contribuire ad abbassare il livello di disoccupazione, ben al di sopra di quello registrato nei paesi considerati come i principali rivali del capitalismo francese, ovvero Germania e Gran Bretagna.

Uno dei punti chiave della riforma è la “decentralizzazione” a livello aziendale dei negoziati per i contratti di lavoro, in aperta violazione quindi di quelli collettivi nazionali. Secondo l’interpretazione ufficiale, questa norma consentirà alle singole compagnie di trattare con i rappresentanti dei propri dipendenti condizioni di lavoro più adatte alle circostanze dettate dal mercato. In realtà, in questo modo i dipendenti risulteranno divisi ed esposti al ricatto dei vertici aziendali, con la collaborazione dei sindacati, essendo privati della forza dell’intera categoria di lavoratori a cui appartengono a livello nazionale.

Le aziende potranno poi licenziare molto più facilmente rispetto a oggi. Mentre fino ad ora eventuali licenziamenti di massa possono essere bloccati se l’azienda in questione ha attività o filiali all’estero che fanno registrare profitti, la riforma Macron fisserà come riferimento le sole operazioni in territorio francese.

Legato a questo provvedimento ce n’è un altro che riduce i risarcimenti dovuti ai lavoratori in caso di licenziamenti ingiustificati. Non solo, anche i tempi a disposizione dei lavoratori per presentare ricorso contro i licenziamenti si restringono, passando da due anni a uno solo.

Esplicitamente a favore delle aziende medio-grandi è infine la cancellazione di alcune regole previste una volta superati i 50 dipendenti. La deregolamentazione stabilita dalla riforma elimina varie prescrizioni che i datori di lavoro denunciano come un ostacolo alla produttività e ai profitti, come la nomina di rappresentanti dei lavoratori e la creazione di consigli e comitati che verranno invece accorpati in un unico organo.

Il presidente Macron e il governo, guidato dall’ex Socialista ed ex gollista Philippe, sono ben consapevoli che la nuova riforma del lavoro francese è vista con ostilità dalla maggioranza della popolazione. Precisamente per questa ragione è stata scelta la strada del decreto esecutivo, con il parlamento che sarà soltanto chiamato ad approvarla senza trattative e lunghi dibattiti.

Il pacchetto di misure appena presentato a Parigi è stato poi negoziato in segreto negli ultimi mesi tra il governo, gli imprenditori e, in maniera cruciale, i sindacati. Questi ultimi risulteranno probabilmente decisivi nel mandare in porto la riforma, anche se, viste le resistenze tra i lavoratori, i loro leader stanno in questi giorni manifestando riserve più o meno significative.

La CGT, vicina al Partito Comunista, sembra opporsi del tutto alla legge e ha indetto una manifestazione di protesta per il 12 settembre prossimo. La moderata CFDT e la teoricamente più combattiva FO hanno invece anch’esse espresso critiche al governo, ma hanno annunciato che i loro membri non parteciperanno alla protesta della CGT.

A livello politico, spicca l’ipocrisia di un Partito Socialista lacerato dalle divisioni interne. Ufficialmente, il PS si oppone alla riforma, ma un suo governo aveva avanzato le stesse proposte di Macron lo scorso anno. Anche i Socialisti, poi, non prenderanno parte né alle manifestazioni sindacali né a quelle pianificate dall’ex candidato alla presidenza, Jean-Luc Mélenchon, del movimento “Francia ribelle”.

Macron, da parte sua, ha ammesso che la riforma del lavoro non incontra i favori dei francesi. In un’intervista rilasciata recentemente al giornale Le Point, il presidente ha riconosciuto di dover “convivere con l’impazienza dei francesi nei prossimi mesi”, ma ha nondimeno promesso di portare a termine la “trasformazione” del mercato del lavoro del suo paese.

Molti giornali europei e americani negli ultimi giorni hanno dedicato editoriali e analisi alla “missione” o “battaglia” che attende Macron e il suo governo. Invariabilmente, la raccomandazione è quella di mettere in atto qualsiasi sforzo per riformare un sistema insostenibile che strangolerebbe la crescita economica e i profitti delle aziende. Soprattutto, un successo contro i lavoratori in Francia rappresenterebbe un evento decisivo, visti i precedenti storici come quello del 1968, che spianerebbe la strada a riforme simili in altri paesi con un mercato del lavoro ritenuto ancora troppo “rigido”.

L’intenzione del governo francese è inoltre quella di procedere nella maniera più spedita possibile, non solo con le modifiche al mercato del lavoro, ma con un piano di contro-riforme che dovrebbe cambiare radicalmente anche la natura del welfare d’oltralpe. Tra le altre misure allo studio, la più rivelatrice dell’attitudine del governo Macron è la riduzione del carico fiscale delle aziende private.

In un’intervista al Financial Times, la ministra del Lavoro, Muriel Pénicaud, ha fissato in 18 mesi la scadenza dell’ambizioso progetto di “riforma” del governo di Parigi. La ex manager di Danone ha parlato della necessità di muoversi in fretta per sfruttare “l’energia dell’esecutivo”, ma la speranza è piuttosto quella che un’azione rapida, eventualmente con metodi anti-democratici che bypassino il parlamento, possa limitare al massimo l’opposizione popolare.

Il riferimento di Macron nel muoversi in questa direzione è in primo luogo la cosiddetta “Agenda 2010”, implementata più di un decennio fa dal governo Social Democratico tedesco dell’allora cancelliere Gerhard Schröder. Questa riforma, attuata in buona parte con la legge “Hartz IV”, rivoluzionò il sistema sociale in Germania, consentendo tra l’altro la creazione di un mercato del lavoro dominato sempre più dal precariato e dalla compressione dei salari.

Vista la maggioranza parlamentare detenuta dal partito del presidente – “La République En Marche” – è molto probabile che la riforma del lavoro non incontrerà particolari ostacoli legislativi nelle prossime settimane. Inoltre, il governo e le forze di polizia avranno a disposizione i poteri straordinari garantiti dallo stato di emergenza tuttora in vigore per far fronte alle proteste che con ogni probabilità caratterizzeranno l’autunno francese. La legge sarà infine sottoposta anche a un esame della Corte Costituzionale a partire dal 28 settembre.

La legittimità di Macron e del governo nel procedere contro i lavoratori francesi è comunque testimoniata già da ora dal tracollo dell’indice di gradimento del presidente. Un recentissimo sondaggio commissionato a YouGov ha rivelato come solo il 30% dei francesi sia soddisfatto della performance di Macron, mentre il 54% risulti scontento e il 28% addirittura “molto scontento”.

A partire da quello che era stato salutato come un trionfo nelle elezioni presidenziali di maggio, Macron ha visto scendere in fretta il proprio livello di popolarità, rivelando la natura artificiosa e reazionaria della sua proposta politica. Se l’ex ministro Socialista aveva vinto in modo relativamente facile elezioni dominate dal disgusto verso la classe dirigente tradizionale, sono bastate poche settimane al potere per mostrare il suo vero volto e la popolarità che riscuote effettivamente nel paese.

A contribuire in maniera determinante al crescente discredito di Macron è proprio la “loi travail”, già avversata, sempre secondo un recente sondaggio, da quasi il 60% dei francesi ancor prima che tutto il suo contenuto reazionario sia conosciuto più approfonditamente da milioni di lavoratori che ne subiranno le conseguenze.

di Michele Paris

Il sesto test nucleare effettuato nel fine settimana dalla Corea del Nord ha se possibile innalzato ulteriormente il livello delle tensioni in Asia nord-orientale, con le principali potenze coinvolte nella crisi sempre più a corto di soluzioni per affrontare in maniera efficace la “minaccia” del regime di Kim Jong-un.

La più potente esplosione mai registrata nel corso di un test nordcoreano è stata seguita dal solito coro di condanne, guidato dall’amministrazione Trump e amplificato nella giornata di lunedì dalla notizia, diffusa dalla stampa sudcoreana su indicazione del ministero della Difesa di Seoul, che Pyongyang starebbe preparando anche nuovi lanci di missili balistici intercontinentali.

La stampa ufficiale e la maggior parte degli osservatori continua a escludere che Washington possa agire militarmente contro la Corea del Nord. Il probabile rapido allargamento di un eventuale conflitto alla Cina e, forse, alla Russia, assieme alle conseguenze di un contrattacco nordcoreano sul vicino meridionale, renderebbe poco consigliabile un’azione militare.

La Casa Bianca, tuttavia, continua a dichiarare esplicitamente che l’opzione militare resta “sul tavolo”, inclusa quella nucleare, come ha confermato una dichiarazione emessa dopo il colloquio telefonico di domenica tra Trump e il primo ministro giapponese, Shinzo Abe. Lo stesso Trump, a una domanda sulla sua intenzione di colpire la Corea del Nord con un attacco preventivo, non ha escluso questa ipotesi, rispondendo semplicemente: “vedremo”.

Nel corso della riunione di emergenza delle Nazioni Unite lunedì, l’ambasciatrice americana, Nikky Haley, ha attribuito al regime nordcoreano lo scivolamento verso un possibile conflitto. Nessuna minaccia esplicita di attacco militare è stata formulata al Palazzo di Vetro, ma la rappresentante dell’amministrazione Trump ha chiesto l’applicazione delle “sanzioni più stringenti” mai imposte ad alcun paese.

Il punto probabilmente cruciale per comprendere le dinamiche della crisi in atto nella penisola di Corea e le motivazioni del regime di Kim è legato da una parte agli sforzi di quest’ultimo di garantirsi la sopravvivenza in un ambiente a dir poco ostile e, dall’altra, all’insistenza americana nel mantenere un atteggiamento irriducibilmente ostile e contrario a qualsiasi minima apertura che possa condurre a trattative diplomatiche.

Le difficoltà dell’Occidente nell’offrire un’analisi razionale della situazione coreana derivano in primo luogo dal presupposto che gli Stati Uniti e i loro alleati in Asia orientale siano poco più che spettatori innocenti di un’escalation di minacce e militarizzazione da parte di un regime che, per qualche ragione che sfugge a ogni logica, minaccerebbe con armi nucleari una serie di paesi percepiti come nemici.

Se è innegabile che la strategia di Kim finisce per aggravare la situazione e fornisce la giustificazione stessa delle pressioni che la Corea del Nord continua a subire, per non parlare di un possibile attacco militare, è altrettanto evidente che questo comportamento risulta in fin dei conti difensivo.

Il rafforzamento del proprio arsenale nucleare in tempi brevi è diventato cioè un obiettivo primario della Corea del Nord, la cui leadership è sempre più convinta di avere a che fare con una minaccia concreta alla sua stessa esistenza. Vista la natura del regime, è impossibile perciò non vedere un nesso tra i ripetuti test missilistici e nucleari e l’escalation di minacce da parte americana.

L’esplosione di domenica di quella che potrebbe essere stata una bomba all’idrogeno è arrivata ad esempio dopo una serie di nuove esercitazioni militari che hanno coinvolto USA, Sudcorea e Giappone e che, tra l’altro, hanno visto lo svolgimento di operazioni pianificate appositamente per deporre i vertici dello stato nordcoreano.

Se si considera l’intero contesto, nonché i decenni di isolamento e di minacce patite dalla Corea del Nord, è difficile negare il carattere essenzialmente difensivo delle iniziative del regime, per quanto brutale esso possa risultare. Tanto più che sulla questione coreana pesa l’esempio vivissimo delle azioni americane nei confronti di dittatori o presunti tali che, in un modo o nell’altro, avevano abbandonato i loro arsenali di “armi di distruzione di massa” solo per vedere rovesciati i propri regimi e finire sostanzialmente assassinati.

Come ha spiegato l’analista indipendente Andrew Leung al network russo RT, quello che desidera la Corea del Nord “non è la guerra, poiché una guerra rappresenterebbe la caduta del regime”, bensì la garanzia della conservazione e della stabilità di quest’ultimo. Per quanto assurdo possa apparire, le azioni intraprese in questi mesi da Pyongyang sono dirette a convincere Washington, Seoul e Tokyo a sedersi al tavolo delle trattative per gettare le basi di un accordo comprensivo in grado di stabilizzare la situazione in Asia nord-orientale.

L’ostacolo principale a una soluzione di questo genere non è costituito dai test nordcoreani, quanto piuttosto dalla determinazione con cui gli Stati Uniti intendono spingere verso il punto critico la crisi nella penisola, in modo da poter giustificare iniziative militari e diplomatiche sempre più aggressive nei confronti non tanto di Pyongyang, quanto di Pechino e Mosca.

In altre parole, la risoluzione della crisi nordcoreana appare al momento quasi impossibile poiché essa, paradossalmente, non si gioca tanto sullo scontro tra Washington e Pyongyang ma su quello tra gli Stati Uniti e la Cina. Pechino, infatti, continua a essere al centro delle critiche americane dopo ogni “provocazione” nordcoreana.

Addirittura, dopo il test di domenica, l’amministrazione Trump ha annunciato la preparazione di un pacchetto di sanzioni che potrebbe determinare lo stop di tutti gli scambi commerciali con la Corea del Nord. Anche se la Cina non è stata nominata esplicitamente, è universalmente noto che il regime di Kim intrattiene rapporti commerciali quasi esclusivamente con Pechino.

Questi possibili sviluppi minacciano di rendere ancora più incandescente la situazione in Asia nord-orientale, in quanto i preparativi di un conflitto militare potrebbero fondersi definitivamente con la guerra commerciale contro la Cina che Trump prospetta fin dai tempi della campagna elettorale.

A questo proposito, la condotta degli Stati Uniti appare ancora più pericolosa e destabilizzante, come conferma il fatto che la condanna del test nucleare di Pyongyang si è accompagnato a critiche aperte nei confronti del governo sudcoreano. Trump ha attaccato Seoul perché responsabile di insistere nel manifestare una qualche disponibilità al dialogo con un regime che comprende invece solo la minaccia dell’uso della forza, mentre in precedenza era tornato a puntare il dito verso l’alleato, accusato di beneficiare illegittimamente del trattato di libero scambio in vigore tra i due paesi.

Il peggioramento delle relazioni tra Washington e il governo di centro-sinistra del presidente sudcoreano, Moon Jae-in, è un elemento che complica la crisi in atto, anche se sul piano militare sembrano esserci poche differenze tra i due alleati. Lunedì, ad esempio, il ministero della Difesa di Seoul ha fatto sapere che, in risposta alle ultime iniziative del regime di Kim, è allo studio l’ipotesi di dispiegare in Corea del Sud ulteriori forze americane, tra cui il ritorno delle armi nucleari tattiche.

Il governo ha poi ordinato altre esercitazioni che intendono simulare apertamente un attacco contro la Corea del Nord, mentre il ministero dell’Ambiente ha annunciato il via libera alla controversa installazione in territorio sudcoreano del sistema anti-missilistico americano THAAD, da tempo criticato duramente dalla Cina perché considerato come una minaccia al proprio deterrente nucleare.

L’ultimo test di Kim, infine, rischia di incrinare ancor più i rapporti tra il regime e la Cina, mettendo oltretutto Pechino in una situazione estremamente delicata. Il governo cinese ha ancora una volta condannato con decisione il test nucleare, avvenuto nel corso del summit dei BRICS nella città di Xiamen, ben sapendo che esso sarà utilizzato dagli Stati Uniti per esercitare nuove pressioni nei propri confronti.

La Cina ha finora acconsentito più volte all’applicazione di sanzioni contro la Corea del Nord, così da non offrire agli Stati Uniti il pretesto per attaccare militarmente un paese la cui stabilità Pechino considera fondamentale per gli equilibri strategici in Asia nord-orientale. Washington, tuttavia, ha sempre risposto alla disponibilità cinese con un crescendo di minacce e ulteriori sanzioni mirate, confermando l’intenzione di utilizzare la crisi nordcoreana per mettere all’angolo Pechino.

Soprattutto, l’amministrazione Trump persiste nell’escludere qualsiasi ipotesi di poter accettare quella che a tutt’oggi appare come l’unica opzione che faccia intravedere una soluzione pacifica della crisi coreana e l’interruzione della spirale di minacce e provocazioni. La proposta era stata avanzata tempo fa proprio dalla Cina assieme alla Russia e prevede il congelamento del programma missilistico e nucleare nordcoreano in cambio dello stop alle esercitazioni militari tra Stati Uniti e Corea del Sud.

di Mario Lombardo

A pochi giorni dall’inizio del nono summit dei cosiddetti BRICS (Brasile, Russia, India, Cina, Sudafrica), i governi di Cina e India a inizio settimana hanno raggiunto un’intesa per allentare le tensioni su una disputa di confine che per oltre due mesi aveva messo di fronte contingenti militari dei due paesi dotati di armi nucleari.

La contesa era sorta dopo che Nuova Delhi aveva inviato proprie truppe nel territorio del Bhutan in risposta alla costruzione di una strada da parte cinese in una striscia di territorio – Doklam o, in cinese, Donglang – contesa tra Pechino e il piccolo stato himalayano, tradizionalmente considerato come una sorta di protettorato indiano.

Il governo ultra-nazionalista indiano aveva giudicato illegale l’iniziativa cinese, dal momento che i lavori stavano avvenendo nonostante tra la Cina e il Bhutan non siano state ancora risolte annose dispute di confine.

In realtà, l’intervento di Delhi aveva a che fare con la competizione tra le due potenze per esercitare la loro influenza sulla piccola monarchia buddista e, più in generale, con le tensioni causate dal riposizionamento strategico indiano in atto, in buona parte determinato dall’evolversi dello scontro tra Cina e Stati Uniti nel continente asiatico.

Per Delhi, inoltre, un eventuale rafforzamento militare cinese in quest’area avrebbe costituito, in caso di crisi, una seria minaccia allo stretto corridoio che collega gli stati indiani del subcontinente a quelli nord-orientali confinanti con Bangladesh e Myanmar.

Com’è evidente, l’avvicinarsi del vertice dei BRICS, al via domenica prossima nella città cinese di Xiamen, avrebbe reso imbarazzante sia per Pechino che per Delhi il protrarsi dello stallo in Bhutan. Da qui la decisione di entrambi i governi di fare un passo indietro e di ritirare i propri soldati.

L’esito dello scontro indo-cinese non ha tuttavia risolto nessuna delle questioni fondamentali che continuano a infiammare i rapporti tra i due paesi. A conferma di ciò, le dichiarazioni diffuse da Pechino e Delhi sull’accordo implementato lunedì sono apparse per certi versi contrastanti, con entrambi i governi che hanno cercato di caratterizzare l’epilogo del conflitto come una vittoria diplomatica.

Con l’appuntamento di Xiamen ormai imminente, Pechino ha in ogni caso cercato ancora una volta di lanciare messaggi relativamente distensivi verso l’India. Il ministro degli Esteri, Wang Yi, ha ad esempio invitato il proprio vicino a gestire le contese bilaterali “in uno spirito di rispetto reciproco”, alla luce soprattutto “dell’enorme potenziale per la cooperazione” tra i due paesi.

Il forum dei BRICS è considerato una piattaforma nella quale i paesi emergenti che ne fanno parte dovrebbero virtualmente creare un blocco politico ed economico alternativo a quello dominato dalle potenze occidentali. Malgrado il peso che questo organismo in larga misura informale ha assunto finora, le rivalità e i contrasti interni sono tutt’altro che assenti, come dimostrano in primo luogo proprio le tensioni indo-cinesi.

Da parte di Pechino, l’approccio alternativamente minaccioso e accomodante nei confronti di Delhi è dettato dagli sforzi messi in atto per cercare di ostacolare l’integrazione dell’India nei piani strategici di Washington in Asia meridionale, diretti appunto a contenere l’ascesa cinese.

Questa evoluzione degli obiettivi della classe dirigente indiana, la quale vede nell’alleanza con gli USA lo strumento per soddisfare le proprie ambizioni da grande potenza, è in atto da oltre un decennio ma ha subito una chiara accelerazione con l’attuale governo di estrema destra del primo ministro Narendra Modi.

In questo quadro, la rivalità tra Cina e India continua ad aggravarsi, facendo riesplodere, tra l’altro, vecchie dispute territoriali di confine latenti da tempo dopo che già nel 1962 avevano portato a una breve guerra, risoltasi a favore di Pechino.

Il governo Modi si è così allineato alle posizioni anti-cinesi degli Stati Uniti, dalla crisi nordcoreana alle dispute nel Mar Cinese Meridionale. Parallelamente, Delhi ha partecipato a esercitazioni militari con le forze americane, alle quali ha aperto anche le proprie basi e i propri porti nel quadro di un recente storico accordo bilaterale volto a consolidare la cooperazione strategica tra i due paesi.

Sempre di recente, nel mese di maggio Modi aveva poi boicottato il summit di Pechino nel quale la Cina intendeva lanciare ufficialmente il proprio ambizioso progetto di integrazione economica euro-asiatica (“Belt and Road Initiative”). Di riflesso, la Cina ha da tempo rafforzato la tradizionale alleanza con il Pakistan, alimentando ancor più le tensioni con l’India.

Nonostante le tendenze multipolari in atto nel pianeta, evidenti anche dalla formazione di organismi internazionali come quello dei BRICS, è inevitabile che il persistere e, anzi, l’aggravarsi dei contrasti tra alcuni paesi membri ne mettano in dubbio l’efficacia e le potenzialità.

In ultima analisi, la precarietà e le prospettive incerte del gruppo dei BRICS, così come dei progetti di crescita dei singoli paesi emergenti, dipendono dalle difficoltà nello svincolarsi dagli effetti della crisi del capitalismo internazionale, nel quale essi restano integrati, e delle manovre destabilizzanti degli Stati Uniti nel disperato tentativo di invertire il declino della loro posizione nel pianeta.


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