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di Michele Paris
Nel pieno del primo viaggio oltreoceano del presidente Trump, questa settimana la Casa Bianca ha presentato al Congresso la propria proposta per il bilancio federale degli Stati Uniti del prossimo anno che servirà da punto di partenza nelle complesse trattative per giungere nei prossimi mesi a una versione definitiva.
Il piano di spesa dell’amministrazione Trump è stato redatto dal “direttore del budget” della Casa Bianca, l’ex deputato repubblicano Mick Mulvaney, già considerato uno dei più irriducibili “falchi” sulle questioni fiscali durante il suo mandato alla Camera dei Rappresentanti di Washington.
Coerentemente con l’inclinazione del proprio autore e con gli orientamenti dello stesso Trump, la bozza di bilancio rappresenta poco meno che una dichiarazione di guerra ai poveri e ai lavoratori americani. Se tutte o parte delle iniziative in esso contenute dovessero essere implementate, molti programmi sociali diretti alle classi più deboli negli Stati Uniti, in larga misura eredità del riformismo progressista degli anni Trenta e Sessanta del secolo scorso, verrebbero in pratica svuotati o smantellati completamente.
La proposta di Trump è stata duramente criticata soprattutto da leader ed esponenti del Partito Democratico, ma l’ennesimo assalto a ciò che resta del welfare USA da parte della Casa Bianca è in realtà il culmine di un lungo processo, avanzato in parallelo all’acuirsi del capitalismo americano e portato avanti, talvolta con maggiore determinazione, anche dalle amministrazioni democratiche.
Il bilancio federale da 4.100 miliardi di dollari include tagli alla spesa pubblica pari alla cifra stratosferica di 3.600 miliardi entro i prossimi dieci anni. Al centro del delirio trumpiano vi è il concetto, condiviso da moltissimi all’interno della classe dirigente americana e non solo, che qualsiasi forma di welfare scoraggia l’attitudine al lavoro di coloro che ricevono qualche beneficio dal governo e che la società odierna non ha in pratica alcuna responsabilità nel provvedere ai bisogni essenziali dei propri elementi più deboli.
L’altra ragione che spinge alla riduzione drastica della spesa pubblica sarebbe l’esplosione del debito federale. Questa tesi è però smentita dal continuo crescere degli stanziamenti militari, che Trump promette di aumentare di un altro 10%, e dall’impegno ad abbassare le tasse per i ricchi e le grandi aziende.
Uno dei programmi maggiormente colpiti dalla proposta di bilancio di Donald Trump sarebbe Medicaid, ovvero la copertura sanitaria destinata a oltre 74 milioni di americani disabili o a basso reddito. Il taglio in questo caso ammonterebbe a 800 miliardi di dollari in dieci anni.
Inoltre, come già previsto dalla legge sulla sanità di Trump in discussione al Congresso (“AHCA”), Medicaid vedrebbe alterata la propria natura di programma finanziato senza limiti fissi e a seconda dei bisogni di quanti ne beneficiano. La nuova proposta prevede un sistema gestito dai singoli stati in base a uno stanziamento federale ben definito che costringerebbe gli amministratori a tagliare i servizi offerti o il numero di persone coperte.
Tra le misure più crudeli incluse nella bozza presentata da Trump c’è poi una nuova sforbiciata ai sussidi per l’acquisto di cibo (“food stamps”) dopo i significativi tagli già apportati o avallati dall’amministrazione Obama negli anni scorsi. Il numero di americani che hanno potuto permettersi un pasto grazie a questo programma era salito vertiginosamente dopo l’esplosione della crisi finanziaria del 2008-2009, fino a interessare a tutt’oggi qualcosa come 44 milioni di persone. Trump propone ora di togliere a questa voce di spesa un quarto dei fondi, cioè poco meno di 200 miliardi di dollari in dieci anni.
Altrettanto grave è il taglio da 72 miliardi di dollari ipotizzato per l’assistenza ai disabili. Questo provvedimento sarebbe dovuto al fatto che, come hanno spiegato apertamente la Casa Bianca e vari leader repubblicani, spesso i disabili assistiti sono perfettamente in grado di trovarsi un lavoro ma non lo fanno perché godono di un sussidio federale.L’impegno nell’accrescere la manodopera super-sfruttata e sottopagata a disposizione delle aziende private, sottraendola al welfare, è alla base anche di altre misure, come la riduzione di oltre 270 miliardi di dollari al fondo del programma “TANF”, creato dall’amministrazione Clinton nel 1997, che sostiene economicamente famiglie povere con figli a carico.
L’attitudine anti-scientifica e il disprezzo della cultura da parte dell’amministrazione Trump emergono poi inevitabilmente da altre proposte del bilancio. A perdere finanziamenti vitali potrebbero essere infatti vari istituti culturali e di ricerca, come quello sul cancro e per la promozione delle arti.
Come già anticipato, non tutte le voci di spesa federale vedranno un ridimensionamento. Il già colossale bilancio del Pentagono otterrebbe ad esempio da Trump più di 50 miliardi extra, pari al 10% del totale. Inoltre, il carico fiscale per i redditi più alti si abbasserebbe, sia tramite un taglio delle aliquote sia grazie all’abolizione della tassa extra del 3,8% sui “capital gains” che l’amministrazione Obama aveva introdotto per finanziare la riforma sanitaria del 2010.
Nonostante queste ultime proposte, l’intero piano della Casa Bianca dovrebbe magicamente ridurre il deficit federale di 5.600 miliardi di dollari nel prossimo decennio. La fantasiosa previsione è basata in particolare sull’illusione che la contro-rivoluzione neoliberista auspicata da Trump generi una crescita annua dell’economia americana pari al 3%, un livello escluso, oltre che dalla logica, da svariate stime indipendenti, tra cui quella della Federal Reserve.
Com’è consuetudine negli Stati Uniti, alla proposta di bilancio del presidente si affiancano in seguito quelle di Camera e Senato. Su queste tre bozze vengono poi condotti dei negoziati – tra la Casa Bianca e la maggioranza al Congresso e tra quest’ultima e i leader di minoranza – che dovrebbero portare all’approvazione di un piano di spesa definitivo.
Intanto, la proposta di Trump ha già aggravato la crisi politica a Washington, visto che l’enormità dei tagli previsti a programmi sociali molto popolari ha convinto numerosi membri del Congresso repubblicani a prendere le distanze dal presidente.
Come già accaduto nel dibattito sulla proposta di legge sanitaria di Trump, gli “ideali” ultra-liberisti della destra repubblicana che dovrebbero guidare le politiche del governo e del Congresso rischiano di avere un contraccolpo rovinoso sul gradimento del partito, oltre che sulla vita di decine di milioni di americani.
Per questa ragione, i leader repubblicani al Congresso hanno chiarito che quello presentato dalla Casa Bianca non sarà né il bilancio proposto dalla maggioranza né quello che verrà alla fine approvato. La cautela repubblicana non deve però illudere nessuno, poiché il bilancio alternativo a quello del presidente sarà al limite solo marginalmente meno reazionario di quest’ultimo.
Anzi, lo speaker della Camera, Paul Ryan, ha lasciato intendere che la sua proposta potrebbe includere modifiche anche per il ridimensionamento di Medicare, il programma di assistenza sanitaria destinato agli anziani che Trump si è impegnato a lasciare per il momento inalterato.Anche se non tutti gli aspetti della proposta del presidente saranno alla fine incorporati nel bilancio federale del prossimo anno, l’iniziativa della Casa Bianca servirà comunque a spostare da subito verso l’estrema destra il dibattito sul finanziamento del governo.
I democratici, da parte loro, non opporranno alla fine particolari resistenze, se non alle misure più radicali e per motivi principalmente elettorali. Infatti, nonostante le ferme critiche al bilancio del presidente di questi giorni, i leader dell’opposizione al Congresso hanno già fatto sapere di essere disposti a collaborare con un partito e una Casa Bianca forse mai così a destra in tutta la storia recente degli Stati Uniti.
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di Mario Lombardo
A due mesi esatti dall’ultimo attentato terroristico, avvenuto nei pressi del Parlamento di Londra, il Regno Unito ha dovuto registrare questa settimana un nuovo sanguinoso episodio di violenza dopo l’esplosione nella tarda serata di lunedì che ha colpito la Manchester Arena al termine di un concerto della cantante pop americana, Ariana Grande.
I decessi accertati sono finora 22, mentre i feriti sarebbero una sessantina. L’identità di tutte le vittime non è stata ancora verificata ma è probabile che molte di esse siano giovani e giovanissimi, visto il seguito soprattutto tra i teenager della cantante che si era appena esibita nella città britannica.
L’attentato è stato seguito come di consueto da un massiccio dispiegamento di forze di polizia, dalla virtuale paralisi della città per alcune ore e da alcuni inevitabili falsi allarmi. Circa tre ore dopo l’esplosione, la polizia ha fatto saltare una sospetta bomba in un parcheggio vicino alla Manchester Arena che si è alla fine rivelata essere un mucchio di vestiti abbandonati.
Martedì, invece, il centro commerciale Arndale è stato evacuato per alcune ore prima di essere riaperto in seguito all’arresto di un uomo che nulla avrebbe però a che fare con i fatti della sera precedente.
Il primo ministro britannico, Theresa May, ha parlato alla stampa nella mattinata di martedì, offrendo poco più della solita retorica che segue simili episodi di violenza. La May ha comunque confermato la natura terroristica dell’attentato, così come le prime notizie che avevano parlato di una sola persona responsabile dell’attacco.
La polizia ha fatto sapere di avere identificato il responsabile nel 22enne Salman Abedi, nativo di Manchester ma di origini libiche. Un commando delle forze di sicurezza ha fatto irruzione nell’abitazione di quest’ultimo, anche se non è chiaro come si sia risaliti alla sua identità in poche ore.
Se Abedi abbia agito da solo o abbia fatto parte di una rete terroristica è ancora oggetto di indagini. I giornali britannici hanno scritto però di un 23enne arrestato nella zona sud della città e di un blitz nel sobborgo di Whalley Range, a sud-ovest del centro di Manchester e con una forte minoranza asiatica. Dopo la perquisizione di un appartamento, nell’area sarebbe rimasta una massiccia presenza di uomini della polizia.
L’attacco suicida sembra confermare la matrice del fondamentalismo islamista. In rete erano quasi subito apparsi filmati di sostenitori dello Stato Islamico (ISIS) che celebravano l’attentato di Manchester e martedì sarebbe arrivata la rivendicazione da parte del “califfato” tramite un delirante messaggio pubblicato sulla piattaforma Telegram.
Maggiori dettagli sui fatti di lunedì emergeranno forse già nelle prossime ore, a cominciare magari dalla notizia, ricorrente dopo gli attentati terroristici in Europa degli ultimi anni, che il responsabile dell’attacco era noto ai servizi di sicurezza inglesi per i suoi legami con gli ambienti fondamentalisti.
Per il momento, è importante sottolineare come l’episodio di Manchester sia avvenuto da un lato nel pieno della campagna elettorale per il rinnovo del Parlamento di Londra e, dall’altro, in concomitanza con le fasi finali della visita del presidente americano Trump in Medio Oriente, segnata dal tentativo di alimentare le divisioni settarie nel mondo arabo e dal ristabilimento della monarchia saudita al centro delle trame degli Stati Uniti nella regione.Se dovesse essere effettivamente collegato al jihadismo, l’attentato di lunedì sarebbe l’ennesima drammatica conferma delle responsabilità dei governi occidentali, primi fra tutti quelli di Washington e Londra, nell’alimentare direttamente o indirettamente forze fondamentaliste che prosperano grazie all’appoggio di ambienti più o meno legati alla casa regnante saudita e ai suoi alleati nel Golfo Persico.
Mentre Trump, corteggiato dal governo May fin dal suo ingresso alla Casa Bianca per compensare i contraccolpi della “Brexit”, esaltava il regime dell’Arabia Saudita e denunciava l’Iran come il primo “esportatore di terrorismo” nel pianeta, a Manchester andava in scena l’ennesimo atto di violenza condotto con ogni probabilità da individui influenzati dalla sottocultura wahhabita che ha il proprio centro di gravità a Riyadh e non a Teheran.
Lo stesso governo britannico è peraltro da settimane al centro di polemiche per la vicinanza alla monarchia saudita. Ai primi di aprile, la premier May era stata protagonista di una visita cordiale a Riyadh e il suo governo e quello precedente di David Cameron solo negli ultimi due anni hanno approvato circa duecento licenze di esportazione di armamenti verso l’Arabia Saudita, per un valore di oltre 3,3 miliardi di sterline.
Per quanto riguarda il voto anticipato del prossimo 8 giugno, è certo che l’attentato verrà quanto meno strumentalizzato per mantenere al centro del dibattito politico le questioni della lotta al terrorismo e della sicurezza nazionale. Per determinate sezioni della classe dirigente britannica ciò risulta fondamentale in chiave elettorale, visto il “record” dei governi conservatori fatto di tagli senza precedenti alla spesa sociale e ai servizi pubblici.
Non solo: l’orrenda strage di Manchester offre al governo di Londra un’altra occasione per ostentare il pugno di ferro nei confronti del terrorismo in una fase della campagna elettorale segnata da un certo recupero nei sondaggi del Partito Laburista. Se quest’ultimo resta ben lontano dai conservatori, le ultime rilevazioni di opinione indicavano una riduzione dello svantaggio dopo la diffusione dei programmi ufficiali dei due partiti.
Quello del Labour di Jeremy Corbyn è stato presentato dalla stampa britannica come il programma più progressista degli ultimi decenni, mentre la piattaforma dei Tories, malgrado la retorica populista, contiene elementi che minacciano un’ulteriore intensificazione dell’austerity a discapito delle classi più disagiate.
Sulla questione della leadership e delle credenziali del prossimo primo ministro in merito alle questioni legate alla sicurezza nazionale, infine, lo stesso Corbyn è al centro di attacchi e polemiche da parte dei conservatori, così che l’attentato di lunedì potrebbe finire con l’offrire ai suoi oppositori una nuova opportunità per sottolinearne la presunta debolezza.
Uno dei punti centrali della campagna conservatrice era stato finora proprio l’insistenza sulla necessità di confermare la “solida” leadership di Theresa May di fronte alle minacce interne ed esterne, come aveva ad esempio sostenuto criticando Corbyn il ministro degli Esteri, Boris Johnson, a fine aprile.Proprio nei giorni precedenti i fatti di Manchester, poi, la stampa vicina ai conservatori aveva montato una nuova polemica contro Corbyn per i suoi passati legami con il Sinn Fein irlandese e il rifiuto di condannare senza riserve l’IRA, spia a loro dire dell’attitudine troppo morbida del numero uno Laburista nei confronti del terrorismo.
Questa campagna contro Corbyn ha avuto un esito imbarazzante proprio in seguito all’attentato di lunedì, con il tabloid The Sun di Rupert Murdoch che, con una decisione presa evidentemente prima dell’attacco terroristico, ha pubblicato in prima pagina un’immagine del leader Laburista in compagnia di Gerry Adams del Sinn Fein sotto la scritta “Blood on his hands” (“Le mani sporche di sangue”).
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di Michele Paris
Le prime due tappe della prima visita ufficiale all’estero da presidente degli Stati Uniti di Donald Trump hanno subito chiarito le intenzioni della nuova amministrazione di mettersi alle spalle le relative frizioni tra Obama e gli alleati americani in Medio Oriente, in modo da compattare il fronte anti-sciita nella regione e promuovere in maniera ancora più aggressiva gli interessi strategici di Washington.
Trump è stato accolto lunedì a Tel Aviv dal primo ministro israeliano, Benjamin Netanyahu, dopo essere sbarcato da quello che è apparso significativamente come il primo volo diretto in assoluto tra questa città e la capitale dell’Arabia Saudita, Riyadh, dove il presidente americano aveva trascorso i due giorni precedenti.
Quello che il New York Times ha definito uno sforzo per “consolidare l’emergente riallineamento” tra i paesi a maggioranza sunnita e Israele contro l’Iran è l’aspetto probabilmente più rilevante della trasferta oltreoceano di Trump. Già il suo discorso del fine settimana in Arabia Saudita aveva fugato ogni dubbio sulle intenzioni USA di tornare a utilizzare l’immaginaria minaccia iraniana come elemento di coesione per gli alleati americani.
L’impegno in questo senso di Trump si è manifestato però a discapito della coerenza, com’è tipico della politica estera di Washington, e ha comportato, in maniera ugualmente poco sorprendente, un totale ribaltamento della realtà mediorientale. Di fronte a una platea fatta in buona parte di autocrati responsabili direttamente o indirettamente del proliferare del fondamentalismo islamista e della distruzione di interi paesi, il presidente americano ha in definitiva sposato integralmente le posizioni saudite, dipingendo la Repubblica Islamica come il vero pericolo e l’elemento destabilizzante della regione.
Mentre decine di milioni di elettori in Iran salutavano la conferma di Hassan Rouhani alla guida del loro paese, a uno dei regimi più brutali e oscurantisti del pianeta veniva insomma riconosciuto da Trump lo status di baluardo contro il terrorismo islamista. Un riconoscimento suggellato da nuovi accordi di forniture militari per cifre esorbitanti, cioè pari a 110 miliardi di dollari, con un’opzione per altri 350 miliardi nei prossimi dieci anni.
Il rilancio dell’alleanza tra Stati Uniti e Arabia Saudita promette dunque di fondarsi sempre più sul sangue delle popolazioni mediorientali, visto che i piani di Washington e Riyadh prevedono con ogni probabilità l’intensificazione delle guerre criminali in Siria e Yemen, ma anche il possibile allargamento del conflitto all’Iran e la probabile imposizione di nuovi sacrifici al popolo palestinese.
Se mai fosse stato necessario, il riposizionamento dell’Arabia Saudita come punto di riferimento della strategia mediorientale da parte dell’amministrazione Trump conferma in definitiva lo stato di crisi in cui versano gli Stati Uniti, la cui apparenza di legittimità internazionale si fonda ormai sempre più sulla finzione, oltre che sulla forza brutale.
Gli effetti indesiderati di una simile strategia sono stati sottolineati nei giorni scorsi dalla stampa “liberal” americana, la quale ha spesso evidenziato come la già fragile illusione di una potenza dedita alla promozione della democrazia e dei diritti umani rischi di diventare insostenibile con un presidente che non si fa nessuno scrupolo formale nel sostenere pienamente dittature e autocrazie.
Se lo spettacolo raccapricciante di Trump in Arabia Saudita non fosse stato di per sé già sufficiente a chiarire i piani della Casa Bianca, i primi momenti della sua visita in Israele hanno fatto ancora più luce sull’evolversi della strategia americana in Medio Oriente.
Le prime parole di Netanyahu sono state in questo senso rivelatrici. Nel corso delle brevi dichiarazioni pubbliche dei due leader all’aeroporto di Tel Aviv, il primo ministro israeliano ha sottolineato la natura straordinaria del volo diretto di Trump da Riyadh, per poi auspicare che questo evento e la stessa prima visita del presidente USA in Medio Oriente rappresentino “la pietra miliare di un percorso verso la riconciliazione”.L’avvicinarsi delle posizioni di Israele e delle dittature del Golfo Persico, favorito della comune percezione della minaccia iraniana, è un processo in atto già da tempo, ma solo l’arrivo di Trump alla Casa Bianca sembra essere stato l’elemento catalizzatore, dopo le tensioni provocate tra gli Stati Uniti e i suoi due principali alleati mediorientali dalle modeste aperture dell’amministrazione Obama verso l’Iran.
In una conferenza stampa con il presidente israeliano, Reuven Rivlin, lunedì Trump è tornato ad attaccare l’Iran. Trascurando il fatto che Israele possiede un numero indefinito di armi nucleari non dichiarate, il presidente americano ha sostenuto che a Teheran “non deve essere permesso di dotarsi di testate atomiche”, nonostante non vi sia nessuna indicazione che questo paese intenda farlo.
L’insistenza sulla Repubblica Islamica, dopo le parole contro quest’ultima pronunciate a Riyadh, conferma il tentativo del presidente americano di connettere le preoccupazioni dei regimi sunniti, di Israele e degli stessi Stati Uniti per il comportamento attribuito all’Iran.
Il cinismo e il puro calcolo strategico su cui si basa il processo di riallineamento strategico tra gli alleati mediorientali degli USA che Trump intende promuovere nel corso della sua prima trasferta all’estero erano stati spiegati già settimana scorsa da una rivelazione del Wall Street Journal. I regimi sunniti del Golfo Persico avrebbero cioè proposto a Israele una normalizzazione dei rapporti in cambio di alcune concessioni da parte di Tel Aviv sulla questione palestinese e, più generale, del riavvio della farsa del processo di pace.
In sostanza, l’Arabia Saudita e i suoi alleati sono interessati a promuovere un qualche coordinamento strategico con Israele in funzione anti-iraniana/anti-sciita ma, viste le ripercussioni che ciò avrebbe sul fronte interno, hanno la necessità di mostrare di potere ottenere concessioni da Tel Aviv sulla situazione dei palestinesi.
Il quasi totale disinteressi dei regimi arabi sunniti per questi ultimi è però dimostrato dalle indiscrezioni pubblicate da vari giornali sul contenuto delle richieste fatte da Riyadh – con il consenso di Washington – al governo Netanyahu. Il Wall Street Journal ha parlato di un allentamento dell’assedio di Gaza e lo stop alla costruzione degli insediamenti in “alcune aree” della Cisgiordania occupata. Se ciò dovesse accadere, i regimi del Golfo sarebbero pronti a creare “linee di comunicazione” con Israele, nonché ad aprire negoziati per promuovere gli scambi commerciali e a consentire ai velivoli di questo paese di sorvolare i loro spazi aerei.
Il sito web The Electronic Intifada ha definito queste proposte “lontane anni luce” dai contenuti già “ultra-conciliatori” dell’iniziativa di pace saudita del 2002, quando Riyadh offrì a Israele la normalizzazione dei rapporti con i paesi arabi in cambio della fine dell’occupazione di tutti i territori occupati nel 1967, la creazione di uno stato palestinese con Gerusalemme capitale e una “soluzione giusta” al problema dei rifugiati.
Più dettagliata è apparsa la rivelazione del sito Middle East Eye, il quale ha scritto domenica che la stessa Autorità Palestinese ha pronta una proposta di “pace” che include la cessione a Israele del 6,5% dei territori occupati in Cisgiordania. Questa quota è decisamente superiore a quella attorno alla quale si era discusso nelle precedenti iniziative di pace (1,9%) ed eccede addirittura quanto proposto nel 2008 dall’allora premier israeliano Ehud Olmert (6,3%). In quell’occasione, l’offerta israeliana era stata respinta da Mahmoud Abbas (Abu Mazen).La nuova proposta dell’Autorità Palestinese sarà presentata a Trump nel corso del faccia a faccia del presidente americano con Abbas, previsto per martedì a Betlemme. Che il contenuto di essa sia stato rivelato da indiscrezioni giornalistiche la dice lunga sui timori dei leader palestinesi per le reazioni negative delle popolazioni arabe nei confronti di una bozza di accordo che sarebbe poco meno di una capitolazione a Israele.
Al possibile rilancio del “processo di pace” su queste basi ha dato non a caso il proprio sostanziale assenso lo stesso Netanyahu in occasione dell’incontro con Trump di lunedì. Qualsiasi intesa dovesse essere discussa, perciò, sarebbe solo una concessione ai paesi arabi, svuotata di significato e di qualsiasi beneficio per i palestinesi, ma utile solo al tentativo ultra-reazionario di compattamento del fronte anti-iraniano, anti-siriano e anti-Hezbollah promosso dagli Stati Uniti in Medio Oriente.
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di Mario Lombardo
Nella giornata di venerdì, 55 milioni di elettori in Iran saranno chiamati a votare per le prime presidenziali a partire dall’accordo sul programma nucleare della Repubblica Islamica, siglato nel 2015 con le principali potenze del pianeta. La sfida si giocherà di fatto tra due candidati, il presidente in carica Hassan Rouhani e il favorito dei conservatori Ebrahim Raisi, e il vincitore dovrà guidare il paese mediorientale in un clima di crescenti tensioni internazionali.
A lungo ritenuto sicuro di venire rieletto, negli ultimi giorni Rouhani ha visto salire le quotazioni del suo principale sfidante, non tanto per il sostegno dell’establishment religioso sciita incassato da quest’ultimo, quanto per il mancato materializzarsi delle promesse di miglioramento delle condizioni di vita delle classi più disagiate, nonostante l’oggettiva ripresa del quadro economico generale.
A correre per la presidenza saranno ufficialmente quattro candidati. Oltre ai due favoriti, sulle schede gli elettori troveranno anche Mostafa Agha Mirsalim, assimilabile allo schieramento conservatore, e Mostafa Hashemi-Taba, ritenuto invece vicino ai “riformisti”. La legge elettorale iraniana prevede un eventuale ballottaggio se nessuno dei candidati dovesse ottenere la maggioranza assoluta dei voti al primo turno.
Inizialmente, in circa 1.600 avevano presentato la propria candidatura, tra cui più di 100 donne, ma il Consiglio dei Guardiani della Costituzione, l’organo deputato alla selezione, ne ha approvati solo sei. Il vice-presidente, Eshaq Jahangiri, e il sindaco di Teheran, Mohammad Bagher Ghalibaf, questa settimana hanno però annunciato il ritiro dalla corsa e appoggiato rispettivamente Rouhani e Raisi.
Tra gli aspiranti c’era anche Mahmoud Ahmadinejad, nonostante l’ex presidente avesse appoggiato la candidatura del suo protetto, Hamid Baghaie, e fosse stato “consigliato” dalla guida suprema, ayatollah Ali Khamenei, di non provare a correre per la presidenza. Alla fine, sia Ahmadinejad che Baghaei sono stati esclusi dal Consiglio dei Guardiani.
Se per molti in Occidente le elezioni in Iran sono una specie di farsa, entro i limiti imposti dal sistema il voto per la scelta del presidente è in realtà una competizione incerta e aperta, come testimoniano anche i toni spesso molto accessi che hanno caratterizzato la campagna appena conclusa. In uno dei dibattiti televisivi che hanno preceduto il voto, Rouhani aveva ad esempio attaccato duramente Raisi per essere stato nel 1988 uno dei quattro giudici che avevano presieduto alle condanne a morte di massa di dissidenti iraniani.
L’accordo sul nucleare del 2015 e il suo impatto sulla realtà iraniana sono stati tra i temi più caldi di una campagna elettorale che ha comunque avuto l’economia al centro del dibattito. Visto l’appoggio garantito da Khamenei alle trattative con i paesi del P5+1 (USA, Russia, Cina, Francia, Gran Bretagna, Germania), nessuno dei candidati ha prospettato un sabotaggio dell’intesa raggiunta a Vienna. I conservatori hanno però sottolineato ripetutamente come pochi dei benefici materiali promessi da Rouhani e dal suo ministro degli Esteri, Mohammad Javad Zarif, si siano materializzati a seguito della firma dell’accordo.
La crescita economica è passata in effetti dal -6% nel 2013, anno in cui Rouhani ha conquistato la presidenza, al +7% del 2016, grazie soprattutto al ritorno del greggio iraniano sui mercati precedentemente chiusi dalle sanzioni internazionali. Numerose grandi compagnie europee e asiatiche sono poi tornate a Teheran per sondare la possibilità di fare affari in un paese dalle potenzialità enormi.
Ad agire da freno è tuttavia il timore di incorrere nei divieti imposti dalle sanzioni unilaterali degli Stati Uniti, in larga misura ancora in vigore e che penalizzano soprattutto il cruciale settore bancario. Il persistere di questi ostacoli ha offerto ai candidati conservatori una solida linea d’attacco contro Rouhani. Raisi, in particolare, ha criticato il presidente e la sua amministrazione per non essere stati sufficientemente fermi con il “nemico”, in modo da estrarre migliori condizioni dall’accordo sul nucleare, e allo stesso tempo ha sfruttato il malcontento di lavoratori e contadini promettendo un ritorno a politiche sociali generose dopo quattro anni di rigore.
L’attitudine populista di Raisi sembra avere fatto breccia nel margine di vantaggio attribuito a Rouhani. Risultati come l’allentamento di alcune sanzioni e il contenimento dell’inflazione hanno garantito al presidente l’approvazione degli ambienti borghesi iraniani e di quelli finanziari internazionali. Ma i mancati investimenti in progetti di sviluppo sociale, assieme all’aumento dei prezzi energetici e il taglio dei sussidi in denaro garantiti ai più poveri, iniziato già nel secondo mandato di Ahmadinejad, hanno inevitabilmente generato un senso di frustrazione tra le classi più deboli che potrebbe riflettersi sul risultato elettorale.
In questo quadro, durante la campagna elettorale Rouhani ha cercato di mobilitare i giovani e la classe media che rappresenta tradizionalmente il punto di riferimento dei moderati/riformisti iraniani. Il presidente ha spesso insistito sulla necessità di ampliare le libertà civili nel paese, criticando l’estremismo e la chiusura del fronte conservatore.Le chances di vittoria di Raisi sono inoltre legate ai favori della guida suprema di cui godrebbe e del quale è considerato uno dei probabili successori. La sua decisione di candidarsi ai primi di aprile aveva in realtà lasciato perplessi molti osservatori, ma, vista anche la sua mancanza di esperienza governativa, il passaggio attraverso la presidenza potrebbe rappresentare un trampolino di lancio verso la carica più alta della Repubblica Islamica.
Il 56enne Raisi è il “custode” del più importante ente caritativo iraniano (Astan Quds Razavi), a cui è affidato il principale mausoleo del paese, quello dell’Imam Reza, nella città di Mashhad. Inoltre, Raisi è un “seyed”, per gli sciiti un discendente del profeta Muhammad, come denota il turbante nero che indossa, e dopo la rivoluzione del 1979 aveva scalato rapidamente i ranghi del nuovo regime.
L’identità del prossimo presidente iraniano influirà sull’evolversi delle relazioni tra Teheran e l’Occidente, così come sulla situazione in Medio Oriente. Il clima alla vigilia del voto è d’altra parte caratterizzato dalle scosse prodotte dall’ingresso di Donald Trump alla Casa Bianca, la cui amministrazione ha subito mostrato di voler tornare a un approccio aggressivo nei confronti della Repubblica Islamica.
Se i problemi interni di Trump e la crisi nella penisola di Corea hanno fatto passare relativamente in secondo piano la questione iraniana, l’attitudine del nuovo governo americano ha già rinvigorito il fronte anti-iraniano, con esponenti dei regimi di paesi come Arabia Saudita e Israele protagonisti di aperte minacce nei confronti di Teheran.
Da Washington, peraltro, proprio questa settimana è stata prolungata la sospensione di alcune sanzioni economiche che gravano sull’Iran, come previsto dall’accordo sul nucleare di Vienna, visto il sostanziale rispetto da parte della Repubblica Islamica delle condizioni in esso contenute.
Com’è noto, però, Trump e i membri del suo gabinetto continuano a mostrare l’intenzione di tornare alla linea dura nei confronti dell’Iran, considerato il principale ostacolo al dispiegamento degli interessi americani in Medio Oriente e uno dei paesi fondamentali nel processo di integrazione euro-asiatica che Washington vede con estrema preoccupazione.
Gli Stati Uniti continuano per ora a tenere congelate le sanzioni internazionali contro l’Iran principalmente per non andare contro gli alleati europei, ormai intenzionati a reintegrare Teheran nei circuiti del capitalismo internazionale. Tuttavia, allo stesso tempo gli USA minacciano nuovi provvedimenti punitivi unilaterali, come quelli annunciati mercoledì, ufficialmente in risposta al legittimo programma missilistico iraniano.
In questa situazione, la conferma di Rouhani alla guida del paese rappresenterebbe la prosecuzione della politica estera iraniana all’insegna del tentativo di distensione con l’Occidente. Dietro al presidente in carica ci sono infatti forze e interessi economici che intendono beneficiare sempre più dei ristabiliti legami con il business occidentale. Sul fronte domestico, queste forze appoggiano invece le politiche di austerity implementate negli ultimi quattro anni dall’amministrazione uscente.
Una vittoria di Raisi, che segnerebbe la prima sconfitta in assoluto alle urne di un presidente in carica nella Repubblica Islamica, determinerebbe al contrario un probabile raffreddamento delle relazioni internazionali dell’Iran, quanto meno con l’Occidente.
Il fronte conservatore iraniano è costituito da sezioni del regime che hanno legami più che altro con la burocrazia e le grandi aziende statali, spesso collegate ai Guardiani della Rivoluzione, o che sono orientate economicamente verso paesi come Russia e Cina. Questa fazione risente inoltre delle concessioni fatte in seguito alla firma dell’accordo sul nucleare e predilige un rafforzamento del cosiddetto “asse della resistenza” anti-americano, anche come strumento di legittimazione e controllo delle tensioni sociali interne.Le divisioni interne all’Iran si riflettono infine sulle posizioni dell’Occidente in merito al voto di venerdì. L’orientamento prevalente è indubbiamente quello di vedere una conferma di Rouhani, in modo da approfondire la cooperazione economica e commerciale lanciata a partire dal 2015.
Soprattutto negli Stati Uniti, però, in molti auspicano più o meno segretamente un successo di Raisi e dei conservatori, così da sfruttare il probabile clima di ostilità verso l’Occidente che si produrrebbe nuovamente in Iran per giustificare l’affondamento dell’accordo di Vienna e tornare a un pericoloso clima di assedio nei confronti della Repubblica Islamica.
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di Michele Paris
L’ondata di guai che sta investendo Donald Trump a partire dal suo insediamento alla Casa Bianca rischia di travolgere un’amministrazione Repubblicana sempre più sotto assedio da parte di sezioni della classe dirigente americana che cominciano ormai a discutere apertamente di un possibile procedimento di impeachment.
Con l’eco del licenziamento del direttore dell’FBI, James Comey, non ancora spento, la nuova settimana a Washington si è aperta con due nuove rivelazioni “bomba”, o quanto meno considerate tali dalla stampa ufficiale, pubblicate a distanza di un giorno dai due giornali maggiormente impegnati nella campagna anti-russa diretta contro il presidente Trump.
Lunedì il Washington Post aveva scritto che quest’ultimo si era lasciato sfuggire alcune informazioni di intelligence riservate sulle attività dello Stato Islamico (ISIS), con ogni probabilità passate dai servizi di Israele, durante il discusso incontro della scorsa settimana alla Casa Bianca con il ministro degli Esteri russo, Sergey Lavrov, e l’ambasciatore di Mosca a Washington, Sergey Kislyak.
La presunta gaffe di Trump non ha avuto confermate e, in ogni caso, il contenuto della conversazione del presidente con i rappresentanti del governo russo non è sembrata sollevare particolari preoccupazioni, sia dal punto di vista legale sia da quello della “sicurezza nazionale”.
Ciononostante, la notizia del Post ha scatenato un nuovo polverone politico a Washington, intensificatosi il giorno dopo in seguito all’esclusiva del New York Times su un “memorandum” dello stesso Comey. L’ormai ex numero uno dell’FBI sarebbe cioè in possesso di un appunto scritto da suo pugno relativo a un incontro alla Casa Bianca con Trump a febbraio, durante il quale il presidente gli avrebbe chiesto di chiudere l’indagine in corso ai danni del suo ex Consigliere per la Sicurezza Nazionale, Michael Flynn.
L’ex generale americano è al centro della caccia alle streghe anti-russa negli Stati Uniti e il giorno prima del faccia a faccia tra Trump e Comey era stato rimosso dal suo incarico per avere mentito al presidente e al vice-presidente sulla natura di alcune conversazioni che aveva intrattenuto con l’ambasciatore russo Kislyak.
Il doppio colpo assestato dal Post e dal Times contro la Casa Bianca fa sempre parte di un’offensiva in atto da mesi e dietro alla quale vi sono poteri allineati alla galassia “neo-con” e all’apparato militare e dell’intelligence americano che cercano in tutti i modi di delegittimare un’amministrazione impegnata, sia pure in maniera limitata, a ripianare le tensioni tra gli USA e la Russia.
Che Trump abbia effettivamente sollevato la questione dell’indagine di Flynn con Comey è del tutto possibile. Tuttavia, l’attendibilità di un giornale come il New York Times, o il Washington Post, è a dir poco discutibile sulla vicenda del cosiddetto “Russiagate”, vista la natura politica del suo operato.
Come praticamente tutte le notizie pubblicate finora sul caso, anche l’ultima rivelazione è basata sulle dichiarazioni di fonti anonime all’interno del governo americano, evidentemente interessate a screditare l’amministrazione Trump.
L’articolo di martedì del Times non è nemmeno basato sull’analisi del “memorandum” di Comey, già di per sé parziale e non considerabile come una prova inconfutabile del comportamento del presidente. Bensì si tratta di un resoconto di terza mano, riportato da una non meglio identificata persona vicina a Comey che sarebbe a conoscenza di quanto scritto da quest’ultimo dopo il suo faccia a faccia con Trump.
Quest’ultimo attacco a Trump sembra rappresentare un salto qualitativo nella campagna in corso relativa ai presunti legami tra la nuova amministrazione e il governo di Mosca. A dimostrarlo è il linguaggio utilizzato dall’articolo del Times e le reazioni di analisti, commentatori e politici che sono da tempo sul carro degli accusatori del presidente o che hanno deciso di salirvi dopo i recenti sviluppi.
L’imbeccata per la linea d’attacco contro Trump è chiaramente rintracciabile in un passaggio dell’articolo di martedì, nel quale si afferma che “la richiesta di Trump [a Comey] è la prova più chiara che il presidente abbia cercato di influenzare il Dipartimento di Giustizia e l’indagine dell’FBI sui legami tra i suoi uomini e la Russia”.
Questa frase solleva cioè l’ipotesi di una possibile incriminazione di Trump per “ostruzione alla giustizia”, un capo d’accusa che potrebbe giustificare un procedimento di impeachment, come accadde proprio al presidente Nixon nel 1974 nell’ambito dello scandalo “Watergate”.Anche prendendo per vero il contenuto dell’appunto di James Comey sulle pressioni di Trump, qualche commentatore ha fatto notare come per il momento non ci siano prove di azioni concrete del presidente volte a ostacolare lo svolgimento dell’inchiesta dell’FBI sul “Russiagate”. Tutt’al più, le parole di Trump rivelerebbero un non sorprendente atteggiamento inopportuno del presidente.
Se, poi, il comportamento del presidente fosse stato realmente così grave, c’è da chiedersi la ragione per la quale Comey non abbia sollevato la questione con il dipartimento di Giustizia, da cui l’FBI dipende, o con il team che conduce l’indagine su Flynn e il “Russiagate”. Comey, piuttosto, come ha spiegato il New York Times, si è limitato a informare alcuni colleghi e a tenere traccia delle presunte interferenze di Trump, raccogliendole in un dossier con l’intenzione di passarlo alla stampa in caso di un suo licenziamento, com’è puntualmente avvenuto nei giorni scorsi.
L’assenza di prove non è comunque un particolare che ha finora contenuto le accuse e le polemiche verso la Casa Bianca. Infatti, esponenti Democratici e molti Repubblicani hanno subito attaccato Trump e in più di un’occasione è stato appunto sollevato il fantasma dell’impeachment.
L’intervento potenzialmente di maggiore rilievo è stato quello del presidente della commissione Sorveglianza della Camera dei Rappresentanti, il deputato Repubblicano Jason Chaffetz, il quale nella serata di martedì ha fatto sapere di avere indirizzato una lettera al direttore ad interim dell’FBI, Andrew McCabe, per chiedere la consegna di tutti i documenti o le registrazioni relativi alle discussioni tra Trump e Comey.
L’iniziativa di Chaffetz, presa molto probabilmente in seguito a pressioni degli ambienti che intendono colpire Trump, è stata definita particolarmente significativa, visto che il deputato dello Utah era stato finora molto cauto sulla vicenda “Russiagate”.
Anche i leader Repubblicani di Camera e Senato hanno iniziato a esprimere impazienza nei confronti della Casa Bianca. Altri colleghi di Trump hanno invece fatto riferimento in maniera diretta alle reali implicazioni della vicenda. Il deputato del Wisconsin, Mike Gallagher, ha inviato ad esempio l’amministrazione Trump ad “abbandonare la fantasia di relazioni migliori con la Russia”.
Le accuse più esplicite sono arrivate però dalla stampa, in particolare da quella “liberal”. Il Washington Post già nel fine settimana aveva pubblicato un pezzo di opinione del docente di diritto costituzionale di Harvard, Laurence Tribe, che chiedeva apertamente l’impeachment di Trump senza nemmeno attendere l’esito delle indagini in corso sul “Russiagate”.
Il magazine Slate ha a sua volta elencato una serie di articoli della Costituzione americana che Trump avrebbe violato e che giustificherebbero la sua messa in stato d’accusa. Mercoledì, il comitato editoriale del New York Times ha invece mascherato a malapena un appello all’impeachment dietro alla richiesta di far luce una volta per tutte sui legami della Casa Bianca con la Russia.
L’isteria che sta attraversando gli ambienti politici e dei media negli Stati Uniti in seguito all’esplosione del “Russiagate” ha un carattere del tutto reazionario. La guerra in atto contro l’amministrazione Trump è infatti motivata da ragioni che hanno a che fare con gli orientamenti strategici americani e la necessità di mantenere una situazione conflittuale con Mosca.
Questi attacchi da destra nei confronti di Trump finiscono inoltre per far passare in secondo piano le inclinazioni anti-democratiche del nuovo governo Repubblicano, impegnato in un assalto frontale e senza precedenti a ciò che resta del welfare americano, ai diritti degli immigrati, alle regolamentazioni del business e a quelle ambientali.Le crescenti richieste di impeachment tendono anche a oscurare le ragioni dell’emergere del fenomeno Trump e della sua ascesa alla presidenza degli Stati Uniti, presentata come un inconveniente più o meno casuale all’interno di un sistema politico e sociale altrimenti esemplare e perfettamente funzionante.
L’eventuale rimozione di Trump in questi termini, al contrario, non rappresenterebbe nessun ritorno a un inesistente eden democratico ma sarebbe una nuova tappa nello smantellamento delle norme democratiche negli Stati Uniti, determinando un riallineamento della classe dirigente americana attorno a un’agenda non meno reazionaria e segnata ancora di più dal rischio di un conflitto nucleare.