di Mario Lombardo

La decisione del governo americano di chiudere entro i prossimi mesi il programma clandestino della CIA di addestramento e fornitura di armi ai “ribelli” anti-Assad è un altro segnale del parziale cambiamento di rotta dell’amministrazione Trump sul conflitto in Siria. Lo stop al piano lanciato da Obama nel 2013 giunge infatti in parallelo alla tregua concordata con la Russia lungo il confine meridionale con la Giordania, anche se quasi certamente non determinerà un significativo disimpegno americano dal paese mediorientale in guerra.

A riportare la notizia della decisione della Casa Bianca è stato per primo e con una certa insofferenza uno dei giornali maggiormente impegnati nella campagna contro Trump per i suoi presunti legami con Mosca, il Washington Post. Trump si sarebbe convinto a cancellare il programma della CIA quasi un mese fa, in seguito a una riunione con il direttore dell’agenzia di Langley, Mike Pompeo, e con il consigliere per la sicurezza nazionale, H. R. McMaster.

La consultazione era avvenuta poco prima del faccia a faccia di Trump con Putin del 7 luglio scorso durante il G20 di Amburgo, al termine del quale sarebbe stata appunto annunciata l’entrata in vigore di un cessate il fuoco nella Siria sud-occidentale.

Per il governo USA, le due iniziative non sono comunque collegate, né la fine delle operazioni gestite dalla CIA a favore dei “ribelli” in Siria sarebbe stata chiesta dal Cremlino come condizione per il raggiungimento di un accordo. Se ciò è effettivamente possibile, vi sono tuttavia pochi dubbi sul fatto che la recente decisione di Trump da un lato favorisca quanto meno il regime di Damasco e, dall’altro, si inserisca nel quadro della nascente collaborazione tra Mosca e Washington sulla crisi siriana.

A ben vedere, la mossa di Trump è anche una presa d’atto dell’inefficacia di un programma dispendioso che avrebbe dovuto servire fin dall’inizio a mettere in pratica i propositi di cambio di regime in Siria di una parte dell’apparato militare e dell’intelligence americano, sia pure dietro l’apparenza della guerra al terrorismo.

Le armi destinate a gruppi di opposizione considerati come “moderati” erano in realtà finite spesso nelle mani delle formazioni jihadiste. L’addestramento, invece, non ha mai nemmeno lontanamente prodotto le migliaia di combattenti ben selezionati che erano previste inizialmente. Al contrario, per stessa ammissione di molti nel governo e tra i vertici militari USA, gli uomini pronti alla battaglia usciti dal programma della CIA erano stati al massimo poche decine.

Tra i “falchi” dell’interventismo in Siria ci saranno in ogni caso reazioni molto negative alla decisione di Trump, soprattutto perché essa non può che apparire come un favore fatto a Vladimir Putin.

In effetti, ciò che segnala il provvedimento preso questa settimana dalla Casa Bianca è probabilmente la rinuncia, almeno per il momento, a perseguire i sogni di cambio di regime in Siria, non tanto per scrupoli o ripensamenti dopo oltre sei anni di guerra e un paese letteralmente distrutto, quanto per l’impossibilità materiale di realizzare questo obiettivo dopo l’intervento militare di Mosca.

I piani dell’amministrazione Trump per la Siria non sono ad ogni modo pacifici, bensì rivolti a trarre il massimo risultato possibile alla luce della realtà sul campo. Gli sviluppi degli ultimi mesi indicano cioè un ripiegamento su una soluzione che porti a una sorta di balcanizzazione della Siria.

Se questo progetto lascerebbe Assad al suo posto sotto la protezione di Russia e Iran, nondimeno creerebbe in Siria uno spazio occupato dagli Stati Uniti e dalle forze loro alleate, come le milizie curde nel nord del paese, e impedirebbe la ricostituzione di uno stato unitario sotto l’influenza di potenze ostili a Washington.

Com’è evidente, questa strada può essere percorsa oggi in Siria solo attraverso la collaborazione con Mosca. Trump, infatti, ha già fatto sapere che è allo studio la possibilità di estendere la tregua concordata con Putin ad Amburgo ad altre aree della Siria.

Le incognite tutt’altro che trascurabili per la Casa Bianca sono però molteplici. In primo luogo, non ci sono indicazioni che la Turchia e le monarchie sunnite del Golfo Persico abbiano intenzione di interrompere a loro volta il sostegno ai vari gruppi fondamentalisti che combattono il regime di Damasco, anche se almeno il Qatar sembra essersi deciso in questo senso.

Inoltre, le forze contrarie a qualsiasi accomodamento con Mosca all’interno del governo, delle forze armate e dell’intelligence degli Stati Uniti potrebbero muoversi per far saltare l’intesa sul cessate il fuoco in Siria, come è già accaduto nel recente passato.

Da non trascurare è infine anche la variabile israeliana. Il premier Netanyahu, come ha scritto mercoledì la testata on-line Al-Monitor, avrebbe già “messo Trump sull’avviso”, manifestando la propria contrarietà alla tregua in vigore e l’intenzione di agire militarmente se l’accordo dovesse portare a una presenza permanente in Siria di Iran e Hezbollah.

L’impegno americano in Siria proseguirà comunque attraverso la campagna di bombardamenti contro le rimanenti postazioni dello Stato Islamico (ISIS), le attività delle centinaia di uomini delle forze speciali presenti nel paese, il mantenimento di un numero imprecisato di basi militari e l’appoggio alle milizie curde nell’ambito delle cosiddette “Forze Democratiche Siriane”.

Non solo, lo sforzo americano per finanziare, armare e addestrare gruppi “ribelli” siriani non verrà meno del tutto. La decisione presa questa settimana da Trump non toccherà un altro programma simile a quello della CIA, ma al contrario di quest’ultimo riconosciuto ufficialmente e condotto dal dipartimento della Difesa.

Tutti questi fronti che continueranno ad assicurare il coinvolgimento diretto degli USA in Siria dovrebbero consentire al governo di Washington sia di trattare condizioni favorevoli nel quadro di un accordo con Mosca sia di riattivare le operazioni volte al cambio di regime nel caso gli scenari attuali dovessero mutare.

Gli sviluppi di questi ultimi giorni della crisi siriana ratificano infine una tendenza in atto praticamente fin dall’insediamento di Trump alla Casa Bianca. Gli Stati Uniti, cioè, sembrano intenzionati a concentrare il proprio impegno in Siria sulle forze curde, sganciandosi invece dai gruppi sunniti, tra i quali hanno peraltro sempre prevalso elementi fondamentalisti.

Questa strategia rischia però di complicare ulteriormente il quadro in Siria, mettendo a rischio anche la precaria stabilità che potrebbe realizzare un eventuale allargamento del cessate il fuoco nel paese. Il ruolo centrale delle milizie curde nel conflitto sta infatti sempre più allarmando la Turchia, il cui governo, già impegnato direttamente oltre il confine meridionale, continua a mostrare nei confronti di Washington segnali di impazienza che potrebbero facilmente degenerare.

Anzi, lo scontro tra i due alleati NATO ha fatto segnare un netto aggravamento proprio nei giorni scorsi, quando gli Stati Uniti hanno protestato fermamente con Ankara dopo che l’agenzia di stampa governativa turca, Anadolu, ha deciso di pubblicare informazioni dettagliate sulla posizione delle basi militari americane nella Siria settentrionale.

di Michele Paris

Nell’arco di poche ore, questa settimana l’amministrazione Trump ha preso due provvedimenti diametralmente opposti in merito all’Iran che mostrano tutte le contraddizioni del governo americano sull’approccio da tenere nei confronti di questo paese e dell’intera regione mediorientale.

Lunedì, la Casa Bianca aveva dovuto certificare nuovamente il rispetto dell’accordo sul nucleare del 2015 (JCPOA) da parte di Teheran. La decisione sarebbe stata presa in maniera riluttante dal presidente USA, il quale fin dalla campagna elettorale dello scorso anno si era impegnato a uscire dall’accordo di Vienna.

Secondo le ricostruzioni fatte dalla stampa americana, Trump avrebbe cercato di passare da subito alla linea dura, ma alcuni esponenti di spicco della sua amministrazione – dal segretario di Stato, Rex Tillerson, a quello alla Difesa, James Mattis, dal consigliere per la sicurezza nazionale, H. R. McMaster, al capo di Stato Maggiore, Joseph Dunford – lo hanno convinto a confermare almeno momentaneamente la validità dell’accordo.

Con la stessa Agenzia Internazionale per l’Energia Atomica delle Nazioni Unite che continua a garantire il comportamento conforme all’accordo dell’Iran e gli altri cinque paesi coinvolti nelle trattative (Russia, Cina, Francia, Gran Bretagna e Germania) intenzionati a proseguire sulla strada della distensione, alla fine Trump non ha potuto che adeguarsi.

Il Congresso americano stabilisce che la Casa Bianca debba notificare ogni 90 giorni la conformità dell’Iran alle condizioni del JCPOA. Quella di questa settimana è la seconda certificazione fatta da Trump e anche la prima volta la sua decisione in senso positivo era arrivata con una serie di recriminazioni e riserve.

Che la Casa Bianca abbia agito in questo senso solo perché costretta dalle circostanze è apparso chiaro quando, martedì, il dipartimento di Stato, assieme a quelli di Giustizia e del Tesoro, ha annunciato nuove sanzioni economiche contro la Repubblica Islamica.

L’azione è tecnicamente svincolata dall’accordo sul nucleare ma, come risulta evidente, nelle intenzioni dell’amministrazione Trump serve a incrinare ancora di più le relazioni bilaterali e a preparare il terreno per un’accelerazione dell’offensiva contro Teheran.

Le nuove misure punitive colpiscono 18 tra “entità” e individui iraniani che Washington ritiene coinvolti in attività quali lo sviluppo del programma missilistico, l’acquisto di armi e il furto di software. Non solo, a essere colpite dalle sanzioni sono anche una compagnia turca e una cinese che il Tesoro americano sostiene abbiano fornito materiale alle forze armate iraniane.

In realtà, tutte le attività considerate illegali dagli USA appaiono interamente legittime. La vera ragione della persistente ostilità americana nei confronti dell’Iran si può leggere tra le righe del comunicato ufficiale che ha accompagnato le sanzioni. Per il governo americano, cioè, le misure scaturiscono dalle “gravi preoccupazioni che suscitano le attività maligne della Repubblica Islamica in Medio Oriente” che “minacciano la stabilità, la sicurezza e la prosperità della regione”.

Al di là del fatto che questa descrizione si adatta alla perfezione alle attività destabilizzanti proprio degli Stati Uniti nel vicino Oriente, essa spiega chiaramente le ragioni dell’ostilità di Washington verso l’Iran. Nonostante l’accordo sul nucleare, Teheran continua in sostanza a rappresentare il principale ostacolo agli interessi degli USA e dei loro alleati in Medio Oriente.

Il riferimento dello stesso Trump alla violazione da parte iraniana dello “spirito”, se non della lettera, del JCPOA rivela come una parte della classe dirigente americana, quella contraria fin dall’inizio al negoziato con Teheran, abbia accettato a denti stretti l’intesa sul nucleare a condizione di utilizzarla come strumento di pressione per far desistere la Repubblica Islamica dalle proprie ambizioni da potenza regionale.

Il problema per Washington è che l’accordo ha innescato un processo di integrazione economica, sia pure alle primissime battute, dell’Iran con molti alleati degli Stati Uniti, per non parlare del consolidamento dei legami che già manteneva con paesi come Russia, Cina, India o Turchia.

Soprattutto l’Europa appare sempre meno disposta a rivedere i termini del JCPOA, visto che numerose aziende di svariati paesi stanno già facendo a gara per entrare nel mercato iraniano, da cui invece quelle americane restano in larga misura escluse. Proprio alcuni giorni fa, ad esempio, il colosso francese dell’energia Total ha sottoscritto un accordo da quasi 5 miliardi di dollari con la cinese CNP e l’iraniana Petropars per lo sfruttamento del giacimento di gas naturale South Pars.

Se l’amministrazione Trump, con il sostegno pressoché unanime del Congresso, intenderà proseguire sulla strada del confronto con Teheran, risulta evidente che quello che si prospetta è l’apertura a tutti gli effetti di un nuovo fronte nello scontro tra alleati in Occidente. Negli ultimi mesi sono state d’altronde sempre più numerose le voci dei leader europei che hanno celebrato l’accordo con l’Iran e condannato apertamente le posizioni americane.

Lo stesso governo della Repubblica Islamica ha fatto i propri calcoli in considerazione dei mutati equilibri internazionali, tanto che questa settimana il ministro degli Esteri, Mohammad Javad Zarif, non ha avuto scrupoli a criticare l’amministrazione Trump, oltretutto nel corso di una visita negli Stati Uniti.

Zarif ha affrontato in varie occasioni la questione delle sanzioni e del JCPOA durante discorsi tenuti presso istituti e “think tank” americani o nel corso di interviste ai media d’oltreoceano, rimandando le accuse al mittente e giungendo egli stesso a minacciare una comunque improbabile uscita di Teheran dall’accordo.

La partita del nucleare iraniano non è ad ogni modo una questione isolata, ma si inserisce nel quadro più generale del sovrapporsi degli interessi di Washington e Teheran in Medio Oriente. La sorte del JCPOA, anche se non dipende unicamente dagli Stati Uniti, sarà infatti da collegare alle prossime mosse dell’amministrazione Trump nella regione.

Lo scontro tra gli USA e i loro alleati contro l’Iran e l’asse sciita, dal quale derivano in sostanza le tensioni sulla vicenda del nucleare di Teheran, continuerà così a giocarsi su tutti gli scenari più caldi, dalla guerra in Siria a quella nello Yemen, dalla sfida per garantirsi l’influenza sull’Iraq alla crisi che sta lacerando il gruppo delle monarchie sunnite del Golfo Persico.

di Mario Lombardo

L’evoluzione della crisi nella penisola di Corea sta progressivamente portando alla luce le potenziali differenze di approccio alla “minaccia” del regime di Pyongyang tra il governo americano e quello di Seoul. La distanza tra i due alleati è dovuta a questioni di natura economica e strategica e questa settimana è emersa in maniera chiara forse per la prima volta dall’ascesa al potere del presidente sudcoreano, Moon Jae-in, quando quest’ultimo ha proposto apertamente alla Corea del Nord la ripresa di colloqui diretti tra rappresentanti delle rispettive forze armate.

La proposta fatta al regime di Kim Jong-un prevede un incontro presso la località di Panmunjom, al confine demilitarizzato tra le due Coree, già per venerdì prossimo. Il primo di agosto, invece, la Croce Rossa sudcoreana vorrebbe rilanciare anche le riunioni tra le famiglie divise tra i due paesi dalla guerra del 1950-1953.

Gli ultimi colloqui diretti a livello militare tra i due paesi si erano tenuti nell’ottobre del 2014, mentre le riunioni famigliari erano state abbandonate un anno più tardi. Seoul non ha comunque specificato i termini delle discussioni proposte ma, secondo la stampa locale e internazionale, potrebbero essere affrontate questioni preliminari per favorire la ripresa del dialogo, come la cessazione del lancio di volantini di propaganda nel territorio della Corea del Nord e lo stop ai voli dei droni rudimentali di Pyongyang oltre il confine meridionale.

La proposta dell’amministrazione Moon deve essere stata accolta con poco entusiasmo a Washington. A pochi può sfuggire infatti il tempismo dell’iniziativa sudcoreana, con il nuovo presidente di centro-sinistra impegnato a tendere in qualche modo la mano a Kim Jong-un mentre gli Stati Uniti sono nel pieno di un’escalation militare nella penisola di Corea e stanno cercando di adottare nuove sanzioni punitive contro lo stesso regime e le compagnie cinesi che con esso fanno affari.

Fin dal suo insediamento, Moon ha in realtà cercato in tutti i modi di sminuire le diverse posizioni sulla questione coreana tra il suo governo e quello dell’alleato americano. Durante il vertice tra Moon e Trump alla Casa Bianca nel mese di giugno, entrambi avevano provato a dare un’immagine di unità nell’affrontare la crisi, anche se appariva già allora evidente la crescente divergenza dei rispettivi approcci.

Moon, d’altra parte, in un discorso tenuto a Berlino il 6 luglio alla vigilia del G20 di Amburgo aveva anticipato un piano per la ripresa del dialogo con la Corea del Nord. Significativamente, il suo intervento era arrivato pochi giorni dopo il test missilistico intercontinentale del regime di Kim che aveva generato un’ondata di accuse e minacce, con gli USA in prima linea nel cercare l’appoggio degli alleati per aumentare ulteriormente le pressioni su Pyongyang.

Poco sorprendente è stata perciò la reazione della Casa Bianca alla notizia della proposta di dialogo lanciata lunedì da Seoul. Il portavoce del presidente, Sean Spicer, ha concesso che il suo paese contempla in maniera teorica l’ipotesi di un negoziato pacifico con la Corea del Nord, ma ha aggiunto che le condizioni richieste da Washington affinché ciò avvenga sono “molto lontane” dall’essersi realizzate.

Una dichiarazione del Consiglio per la Sicurezza Nazionale americano ha in seguito ribadito sostanzialmente lo stesso concetto. Per Washington, la possibilità di ristabilire un qualche dialogo con Kim dipende dalla disponibilità di quest’ultimo ad abbandonare preliminarmente il proprio programma nucleare e missilistico. Una condizione, cioè, di fatto impossibile da accettare per il regime nordcoreano, il quale ritiene, non senza ragioni, che il possesso di armi in grado di provocare gravissime perdite agli USA o alla Corea del Sud sia l’unica garanzia di sopravvivenza di fronte alla minaccia americana.

Se il governo di Seoul è ben cosciente delle differenze tra la propria attitudine verso Pyongyang e quella dell’amministrazione Trump, nelle dichiarazioni ufficiali continua tuttavia a prevalere il tentativo di mostrare un’unità di vedute poco meno che perfetta. Martedì, ad esempio, in risposta alle perplessità manifestate dalla Casa Bianca dopo la proposta di Moon, il ministero dell’Unificazione sudcoreano ha assicurato che non esiste alcun divario “nel valutare le condizioni per la ripresa del dialogo sulla denuclearizzazione della Corea del Nord”. Questo stesso ministero e quello degli Esteri hanno poi garantito che gli Stati Uniti e “le altre principali potenze” erano state avvertite preliminarmente dell’iniziativa di Moon.

Da parte del regime di Kim non c’è stata ancora risposta all’offerta di dialogo proveniente da Seoul. Nei giorni scorsi, la stampa ufficiale nordcoreana aveva però mostrato aperture molto caute a un possibile processo di distensione. La priorità della Corea del Nord rimane ad ogni modo un accordo con gli Stati Uniti, dai quali ritiene comprensibilmente derivi la minaccia principale nei suoi confronti.

Il governo di Washington ha però già fatto sapere in più di un’occasione di non essere disposto nemmeno a considerare concessioni preliminari in cambio di un congelamento del programma militare nordcoreano. Dapprima la Cina, riportando quasi certamente una proposta di Pyongyang, e in seguito Pechino e Mosca in forma congiunta avevano di recente chiesto agli USA di sospendere le esercitazioni militari con le forze armate sudcoreane in un gesto che potesse favorire la ripresa del dialogo, ma l’amministrazione Trump ha entrambe le volte escluso questa possibilità.

Proprio nella richiesta di concessioni preliminari da parte nordcoreana risiede dunque la differenza principale tra i punti di vista di Washington e Seoul, con quest’ultimo governo che, nella sostanza, sembra spesso maggiormente allineato alle posizioni cinesi o russe rispetto a quelle americane, malgrado i tentativi di dare l’impressione del contrario.

Mentre la classe dirigente della Corea del Sud continua com’è ovvio a considerare l’alleanza con gli Stati Uniti il perno della sicurezza del paese, le dinamiche internazionali degli ultimi anni, accelerate dall’ingresso di Trump alla Casa Bianca, hanno spinto Seoul a guardare altrove per la promozione dei propri interessi strategici ed economici.

Soprattutto il centro-sinistra sudcoreano, a cui appartiene appunto l’attuale presidente Moon, rappresenta una fazione dell’apparato di potere che vede con particolare favore il rafforzamento delle relazioni commerciali con Pechino. Da qui deriva anche la migliore disposizione, rispetto ai conservatori sudcoreani, verso la Corea del Nord, considerata inoltre come potenziale bacino in grado di fornire manodopera a bassissimo costo per le imprese di Seoul.

Nel calcolo di Moon rientra anche la predisposizione della maggioranza della popolazione del suo paese, decisamente ostile a un’escalation con la Nordcorea che potrebbe sfociare in un conflitto armato dalle conseguenze incalcolabili. Moon e il suo Partito Democratico (DPK) erano d’altra parte riusciti a riconquistare la presidenza proprio grazie a un programma incentrato sulla distensione con Pyongyang.

Da considerare con attenzione è poi l’interesse del governo sudcoreano nel partecipare al progetto di integrazione economica e infrastrutturale eurasiatica lanciato dalla Cina e noto alternativamente come “Nuova Via della Seta” o “Belt and Road Initiative” (BRI). Un’aspirazione, quella della classe dirigente sudcoreana, che non può prescindere dal mantenimento di relazioni cordiali con la Cina, così come dalla distensione con Pyongyang, se non altro per garantirsi un collegamento territoriale verso occidente.

Seoul si trova d’altronde nella stessa situazione di molti altri paesi asiatici e non solo, più o meno vincolati da un’alleanza strategica e militare con gli Stati Uniti ma attratti sempre più nell’orbita economica e commerciale della Cina.

Il perseguimento di questi obiettivi di sviluppo è così la ragione principale del potenziale conflitto tra la Corea del Sud e gli Stati Uniti, con questi ultimi impegnati non solo a mettere in un angolo il regime di Kim e ad aumentare le pressioni su Pechino, ma anche, secondo l’agenda ultra-nazionalistica di Trump, a rimettere in discussione i termini delle alleanze e delle relazioni commerciali con i propri partner.

La difficile, se non impossibile, scommessa di Seoul, rilanciata dalla recente proposta di distensione con il regime di Kim, sarà dunque quella di riuscire a intraprendere un percorso indipendente sulla Cina e la Corea del Nord, evitando una clamorosa rottura con gli Stati Uniti che potrebbe avere conseguenze disastrose sia sul piano domestico che internazionale.

di Michele Paris

Il voto finale del Congresso americano sulla nuova legge del sistema sanitario, che dovrebbe rimpiazzare la riforma approvata durante la presidenza Obama nel 2010 (“Obamacare”), dopo gli sviluppi dei giorni scorsi continua a sembrare una vera e propria corsa a ostacoli. Con la leadership del Partito Repubblicano già in grave difficoltà nel mettere assieme i 50 voti necessari al Senato per licenziare il pacchetto approvato dalla Camera dei Rappresentanti ai primi di maggio, l’improvviso forfait per motivi di salute del senatore dell’Arizona, John McCain, ha determinato un nuovo ritardo di un iter legislativo sempre più complicato.

Al momento, due senatori repubblicani hanno manifestato apertamente l’intenzione di votare contro la legge voluta dal presidente Trump: la “centrista” Susan Collins e il “libertario” di estrema destra, Rand Paul.

La prima teme conseguenze disastrose per la propria carriera politica a causa degli attacchi senza precedenti contenuti nella nuova legge al programma di assistenza pubblico “Medicaid”, destinato ai redditi più bassi. Il secondo, al contrario, reputa la cosiddetta “Better Care Reconciliation Act” troppo poco incisiva nell’eliminare i cambiamenti introdotti nel settore sanitario da “Obamacare”.

Due sono esattamente i voti che i repubblicani al Senato possono permettersi di perdere per riuscire a mandare in porto la legge. Come ha spiegato la stessa senatrice Collins, però, sarebbero almeno altri dieci i senatori del suo partito indecisi o con forti riserve sulla misura, così che, con o senza la presenza a Washington di McCain, il rinvio del voto in aula sarebbe stato comunque inevitabile questa settimana.

Un altro colpo mortale alla legislazione sanitaria potrebbe arrivare nei prossimi giorni con la nuova analisi dell’Ufficio per il Budget del Congresso, vale a dire l’organo indipendente che valuta l’impatto delle leggi americane in discussione. Questo ufficio si era già espresso sulla legge, spiegando che essa provocherebbe la perdita di qualsiasi copertura sanitaria per 22 milioni di americani nel prossimo decennio, ma è stato sollecitato a dare un altro parere dopo la recente introduzione di alcuni emendamenti nel tentativo di convincere qualche senatore indeciso.

La modifica principale è stata presentata dal senatore del Texas, Ted Cruz, anch’egli vicino alle tendenze “libertarie” nel Partito Repubblicano. Il cuore della sua proposta prevede la creazione di piani sanitari economici e virtualmente senza nessuno dei servizi fondamentali offerti ai sottoscrittori delle polizze, come previsto invece da “Obamacare”, teoricamente per evitare che la prevista impennata del costo delle assicurazioni sanitarie provochi un crollo nel numero degli americani con qualche copertura.

La nuova analisi della legge da parte dell’Ufficio per il Budget del Congresso non dovrebbe scostarsi di molto da quella offerta per la versione precedente del Senato e potrebbe dunque complicare ancor più gli equilibri in casa repubblicana.

Il leader di maggioranza al Senato, Mitch McConnell, aveva già dovuto rimandare il voto in aula sulla legge sanitaria nel mese di giugno e ancora ai primi di luglio per la mancanza dei voti necessari all’approvazione. Nel corso delle settimane successive la situazione non è cambiata di molto, con l’ala moderata del partito preoccupata soprattutto per gli effetti devastanti dei tagli a Medicaid e gli esponenti dell’estrema destra che chiedono in sostanza di consegnare totalmente il sistema sanitario americano agli interessi privati.

Nei prossimi giorni proseguiranno le trattative nella maggioranza repubblicana per trovare un difficile compromesso e consegnare almeno un successo legislativo a un’amministrazione Trump in gravissimo affanno sul fronte interno. Già alcuni membri del Congresso repubblicani sembrano vedere tuttavia come inevitabile un negoziato con l’opposizione democratica per giungere a un qualche risultato nell’ambito della riforma sanitaria.

Il Partito Democratico ha finora opposto un’opposizione compatta alle varie versioni della legge circolate al Congresso, ma la sua leadership al Congresso non ha escluso trattative con i repubblicani, quanto meno per apportare modifiche a “Obamacare”. I principi tutt’altro che progressisti che hanno ispirato quest’ultima legge – riduzione dei costi sanitari e sistema di copertura incentrato sulle compagnie private – sono d’altra parte il punto di partenza di quella promossa dall’amministrazione Trump. Qualsiasi accordo “bipartisan” non farebbe perciò che peggiorare la legge del 2010 attualmente in vigore.

La determinazione con cui i repubblicani e la Casa Bianca continuano a cercare di mandare in porto una legge che ha già fatto registrare una serie di umiliazioni per il partito e sembra un autentico rompicapo quasi impossibile da sciogliere è motivata da vari fattori.

Il primo è già stato ricordato in precedenza e ha a che fare con la necessità di Trump di offrire un primo risultato ai propri sostenitori con l’adozione di un provvedimento promesso in campagna elettorale. Ciò appare ancora più urgente alla luce di due dinamiche, cioè l’addensarsi di nuvole sempre più minacciose sulla presidenza a causa del cosiddetto “Russiagate” e la crescente impopolarità della stessa legge sanitaria man mano che gli americani ne conoscono i contorni.

L’altro elemento che spiega l’ansia dei repubblicani e dell’amministrazione Trump di mettere mano nuovamente al settore sanitario americano è lo smantellamento di Medicaid. Nella legge allo studio sono annunciati tagli per poco meno di 800 miliardi di dollari a questo programma popolare da qui al 2026, ovvero più di un quarto del finanziamento totale, da ottenere in primo luogo cancellando l’espansione della copertura attraverso di esso prevista da “Obamacare”.

“Trumpcare” trasformerebbe inoltre un programma pubblico che copre oggi 75 milioni di americani poveri e disabili in base alle necessità in un piano con stanziamenti fissi e limitati da erogare ai singoli stati. Il risultato sarebbe inevitabilmente una riduzione del numero dei beneficiari, assieme al taglio delle prestazioni offerte e al probabile aumento dei contributi richiesti a coloro che continueranno a ricevere assistenza.

Il drastico ridimensionamento di Medicaid in quanto voce di spesa tra le più consistenti del bilancio federale è – in un modo o nell’altro – nel mirino da tempo della classe politica americana, soprattutto della destra repubblicana. L’approvazione della legge sanitaria voluta da Trump rappresenterebbe perciò il primo assalto di vasta portata a questo programma pubblico e aprirebbe la strada a ulteriori attacchi allo stesso Medicaid, ma anche ad altri creati negli anni Sessanta e durante il “New Deal” rooseveltiano, come Medicare e Social Security.

Le difficoltà nel superare le divisioni interne al Partito Repubblicano e giungere all’approvazione della legge sanitaria dipendono proprio dal carattere ultra-reazionario di quest’ultima e dalla vastissima opposizione popolare che essa incontra.

In questo quadro, perciò, neanche le menzogne spudorate dei repubblicani sul contenuto della legge, a cominciare da quelle del presidente Trump, riusciranno con ogni probabilità a limitare i danni politici a cui andranno incontro i promotori della nuova contro-rivoluzione sanitaria, sempre che essa, alla fine, riesca a superare ostacoli che appaiono oggi quasi insormontabili.

di Fabrizio Casari

MANAGUA. Nove anni e mezzo di carcere e interdizione per 18 dai pubblici uffici. Questa la sentenza pronunciata dal giudice Sergio Mora nei confronti di Ignacio Lula Da Silva, per tutti “Lula”, fondatore del Partito dei Lavoratori ed ex Presidente della Repubblica per due mandati consecutivi. Le accuse? Sarebbe stato il destinatario di una tangente consistente in un appartamento. Accuse provate? No, si basano su articoli di stampa privi persino di citazioni delle fonti. In trecento pagine di requisitoria non c’è nemmeno un’accusa provata.

A sostegno della Procura c’è solo un contratto di acquisto o cessione di un appartamento che si dice sia della società OAS, ma è un contratto senza intestazione di nessuna società e senza nessuna firma, meno che mai quella di Lula o di suoi familiari. E allora?

E allora Lula è stato giudicato colpevole di corruzione e riciclaggio di denaro sulla esclusiva base di un teorema politico camuffato da inchiesta giudiziaria. La famosa “Lava Jato”, la Tangentopoli in formato carioca, concepita con un obiettivo chiaro e nemmeno troppo nascosto: sovvertire il quadro politico progressista scelto dagli elettori e sostituirlo con uno gradito a Washington e ai poteri forti locali. Per questo si doveva procedere su tre fronti contemporaneamente: abbattere il governo di Dijlma Roussef, colpire a fondo il PT e, in particolare, mettere Lula in condizioni di non nuocere per un bel pezzo.

Perché Lula? Perché oltre ad essere il leader naturale del suo partito (il primo partito del paese) e il politico di maggior rilievo della scena brasiliana, Lula è, a distanza di anni dalla sua uscita dal Planalto, l’uomo verso il quale la stragrande maggioranza dei brasiliani ripone la maggior fiducia. Proprio la dichiarata intenzione di Lula di ricandidarsi alla guida del Brasile ha fatto scattare l’allarme per chi ha intenzione di ricondurre il gigante carioca alle dipendenze di Washington e nuovo terreno di conquista di mano d’opera a basso costo e risorse naturali in regalo.

Si obietterà che un giudice si limita solo a prendere atto di prove inoppugnabili e che non ha interessi politici diretti. Ma è proprio così? In generale non è detto e nel caso specifico, secondo quanto rivelato da Wikileaks, i dubbi aumentano.

Il giudice Mora, infatti, fa parte di un gruppo di procuratori e giudici formati dagli Stati Uniti allo scopo di combattere la corruzione in America Latina. Frequentano corsi denominati “I ponti” impartiti direttamente dal Dipartimento di Stato USA, ed è con il sostegno statunitense che vengono poi insediati nelle diverse sedi operative dei rispettivi paesi del subcontinente.

Certo, è a suo modo una innovazione: fino a pochi anni orsono i corsi statunitensi erano destinati ai militari latinoamericani, cui veniva insegnata l’arte dell’obbedienza a Washigton, le procedure per i colpi di stato e le tecniche di tortura e scomparsa dei prigionieri (vedi Scuola delle Americhe a Panama o Fort Branning in Carolina del Nord), ora, che i mezzi d’ingerenza esterna si sono fatti più sofisticati, s’insegna a sovvertire e destabilizzare al riparo di ruoli civili. Ma questa inchiesta somiglia straordinariamente ad una riedizione del Plan Condor di triste memoria.

L’inchiesta “Lava Jato”, che per comodità potremmo definire la Tangentopoli brasiliana, poggia su un livello impressionante di incriminazioni, avvenute solo a seguito di dichiarazioni “spontanee” delle aziende corruttrici, che ad oggi coinvolgono 409 dirigenti del PT, 287 del Partito Democrático del Centro Brasiliano e altri 152 del Partito della Social Democrazia che sono stati condannati per episodi di corruzione. Beneficiari di questa sarebbero state diverse società, tra le quali la Odebrecht S.S., la OAS, la Embraer, la Petrobras, e la JBS.

Sembrerebbe, apparentemente, una buona notizia quella che vede la disarticolazione di un sistema di relazioni perniciose ed illegali che alterano il mercato interno brasiliano, ma se gli elementi probatori nel caso di Lula latitano, le conseguenze di questa operazione presentano invece un quadro certo: il ritorno d’interessi straordinari per i soliti noti.

Il sostanziale blocco operativo della Petrobras, ad esempio, permette ora alla Chevron di rientrare in gioco nel mercato brasiliano della estrazione e distribuzione del greggio (uno dei maggiori al mondo). Il blocco ventennale della spesa pubblica permette alla JP Morgan di rimettere le unghie nella privatizzazione delle pensioni voluta dal Presidente Temer. Temer infatti (tra i personaggi più corrotti del paese) ex alleato di governo di Dijlma Roussef, organizzò il golpe parlamentare che la depose e che ha dato il via - in alcuni casi senza nemmeno la legittimità parlamentare -  ad alcune “riforme” ispirate dalle multinazionali statunitensi.

Tra queste quella del lavoro, che prevede, tanto per dire, la durata della giornata lavorativa portata da 8 a 12 ore! Allo stesso tempo,  con la scusa della stabilità dei conti, viene stabilito il blocco della spesa pubblica per venti anni su sanità, istruzione, assistenza sociale e piani di sviluppo. Perché queste perle abbiano seguito si deve però spodestare il PT dal governo; impedire che la politica mantenga il controllo sulla gestione del paese è decisivo per il progetto delle multinazionali USA di invadere il Brasile con fondi speculativi multinazionali, destinati a depredare le sue immense risorse naturali e, attraverso la privatizzazione dei servizi, a realizzare quella liquidità di cui le multinazionali statunitensi hanno bisogno in un quadro internazionale recessivo.

Lula, e con lui il PT, rappresentano un ostacolo insormontabile ai progetti di conquista del Brasile ed è per questo che, pur senza prove, si tenta d’inibire il vecchio sindacalista e dirigente politico dalla ricandidatura. In questo senso la scelta di non procedere con l’esecuzione della sentenza, sospesa in attesa del secondo grado, è anche un modo per tenere sotto scacco l’ex presidente, che però gode dell’appoggio del suo partito e di tutta la sinistra latinoamericana.

Proprio ieri, anticipando di fatto la risoluzione del Foro di Sao Paulo (l’organismo che tiene insieme tutta la sinistra latinoamericana si troverà a Managua dal 16 al 19 luglio), il FSLN del Nicaragua, guidato dal Presidente Daniel Ortega, ha dichiarato ogni appoggio al leader del PT. Lula ha deciso di non restare a guardare e, con il sostegno del suo partito e di tutta la sinistra latinoamericana ha assicurato l’intenzione di dare battaglia per rovesciare il tavolo e riproporre la sua candidatura.

La quale, stando ai sondaggi indipendenti, vede il suo governo rimpianto da circa il 73% dell’elettorato brasiliano. Molti di più di quelli che metterebbero le mani sul fuoco sulla correttezza del giudice Moro.



Altrenotizie.org - testata giornalistica registrata presso il Tribunale civile di Roma. Autorizzazione n.476 del 13/12/2006.
Direttore responsabile: Fabrizio Casari - f.casari@altrenotizie.org
Web Master Alessandro Iacuelli
Progetto e realizzazione testata Sergio Carravetta - chef@lagrille.net
Tutti gli articoli sono sotto licenza Creative Commons, pertanto posso essere riportati a condizione di citare l'autore e la fonte.
Privacy Policy | Cookie Policy