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di Michele Paris
Il clamoroso stallo attorno alla firma del trattato di libero scambio tra l’Unione Europea e il Canada - Accordo Economico e Commerciale Globale o CETA - è stato superato nella giornata di giovedì dopo che le trattative, condotte da Bruxelles e dal governo federale belga, sembrano avere convinto le autorità della regione autonoma della Vallonia ad abbandonare la propria opposizione ad alcune condizioni previste dal trattato stesso.
Se l’intesa dovrebbe ora consentire una più o meno rapida ratifica del CETA da parte dei singoli parlamenti nazionali, la disputa consumatasi nei giorni scorsi ha mostrato ancora una volta la situazione di grave crisi che sta attraversando l’UE, travagliata da crescenti divisioni e dal progressivo divergere degli interessi dei paesi che ne fanno parte.
Quando la firma sul trattato euro-canadese sembrava ormai cosa fatta, il governo autonomo vallone, la cui approvazione era necessaria per il via libera al CETA del Belgio dopo l’OK di tutti gli altri paesi UE, aveva bloccato l’intero processo a causa di forti perplessità su almeno un paio di punti dell’accordo. Il parlamento vallone aveva espresso riserve circa gli effetti sul proprio settore agricolo dell’abbattimento dei dazi doganali applicati ai prodotti canadesi e sulla clausola che affida a un arbitrato sovranazionale eventuali cause intentate dalle grandi aziende contro i governi che “minacciano” i loro investimenti.
Lo scorso fine settimana erano scattate frenetiche trattative con le autorità della Vallonia per sbloccare il trattato, ma lunedì il primo ministro conservatore belga, Charles Michel, era stato costretto ad annunciare che il suo paese non era nella posizione di poter sottoscrivere il CETA. Prevedibilmente sono poi seguite ulteriori pressioni sul governo della regione francofona, con membri del governo canadese che avevano espresso più volte pubblicamente il loro disappunto.
Il ministro per il Commercio, Chrystia Freeland, aveva accusato l’UE di non essere in grado di assicurare l’approvazione del CETA da parte dei suoi membri per poi abbassare relativamente i toni e dichiarare che il Canada aveva fatto tutto il possibile per mandare in porto il trattato, così che ora sarebbe toccato a Bruxelles fare la prossima mossa per sbloccare la situazione.
Visto il protrarsi delle trattative con il governo regionale vallone, la delegazione canadese, che avrebbe dovuto includere lo stesso primo ministro, Justin Trudeau, ha cancellato il viaggio in Europa per la firma del trattato, prevista per giovedì.
Già mercoledì, però, Trudeau aveva assicurato nel corso di un intervento alla Camera del parlamento di Ottawa che un esito positivo della vicenda relativa al CETA era ormai imminente. Nella tarda mattinata di giovedì, è stato alla fine il premier belga a dare per primo la notizia su Twitter dell’accordo con la Vallonia, spiegando poi che il governo centrale e le autorità regionali hanno raggiunto l’intesa su un “testo modificato”, senza fornire ulteriori spiegazioni.
Michel ha sostenuto che ora i parlamenti dei vari paesi UE avranno la possibilità di ratificare il trattato con il Canada già a partire dai prossimi giorni, ma eventuali modifiche al testo potrebbero rimettere in moto tutto il processo di approvazione, sempre che Ottawa accetti i cambiamenti. Il capo del governo regionale fiammingo in Belgio, Geert Bourgeois, ha comunque garantito che il testo dell’accordo non è stato alterato.
Secondo i media, al trattato sono state aggiunte quattro pagine nelle quali si è cercato di far fronte alle apprensioni del governo vallone. Nella prima fase dell’implementazione del CETA non verrà ad esempio introdotto il sistema dell’arbitrato, sul quale si esprimerà inoltre la Corte Europea di Giustizia, mentre i dazi sui prodotti agricoli potrebbero essere riapplicati in caso di “squilibri di mercato”.Il CETA dovrebbe cancellare i dazi imposti sul 98% dei prodotti che vengono scambiati tra il Canada e i paesi UE, facilitando l’ingresso sui rispettivi mercati dei prodotti realizzati su entrambe le sponde dell’Atlantico. In un frangente storico caratterizzato dall’adozione di nuovi dazi e tariffe doganali da parte di molti paesi in risposta alla crisi economica, l’implementazione di un accordo come il CETA contribuisce dunque a incrementare sensibilmente i profitti delle grandi aziende esportatrici.
Come l’altro accordo in fase di negoziazione tra gli Stati Uniti e l’Unione Europea (TTIP, Partnership Transatlantica sul Commercio e gli Investimenti), anche il CETA è stato oggetto di ripetute proteste per via delle clausole che favoriscono in maniera spropositata le multinazionali ed erodono i diritti sociali e del lavoro, nonché le protezioni ambientali e la sicurezza alimentare.
La supremazia del capitale anche sulla sovranità dei singoli paesi, sostanzialmente sanzionata da questi trattati, è spesso al centro dell’attenzione di coloro che si oppongo a questi ultimi, come appunto il governo regionale della Vallonia.
Bruxelles e Ottawa avevano precisato che, per alleviare le preoccupazioni in questo ambito, le norme sull’arbitrato internazionale per la “protezione degli investimenti [dalle leggi nazionali]” erano già state allentate. Ad esempio, un’azienda privata che ha investito in uno dei paesi coperti dal trattato non potrà fare causa contro un governo nel caso di provvedimenti che hanno “un impatto sui profitti”, ma solo se dovesse esserci “discriminazione” nei suoi confronti.
Inoltre, i membri del tribunale sovranazionale che presiederà a queste cause non saranno nominati dagli “investitori”, bensì dall’Unione Europea e dal Canada, cioè, in definitiva, da quelle entità che hanno negoziato un trattato che beneficia in larghissima misura gli stessi “investitori”. Il tribunale, infine, non può decidere l’abrogazione di un provvedimento preso da un determinato governo, ma solo “un risarcimento” e “solo al livello necessario per compensare le perdite effettivamente subite” dalla compagnia che ha intentato la causa.
Nonostante qualche modifica, il contenuto del CETA assegna quindi ampi diritti al capitale rispetto a quelli di governi e parlamenti democraticamente eletti. I cambiamenti operati dalle due parti in questo senso sono poi probabilmente stati concordati per ottenere l’approvazione di un trattato che, per quanto importante, viene considerato da molti come un antipasto del vero piatto forte, ovvero il ben più ingente TTIP.
Il naufragio del CETA avrebbe infatti messo in ulteriore dubbio il trattato con gli Stati Uniti, peraltro già appeso a un filo dopo la presa di distanza di Hillary Clinton e soprattutto Donald Trump, ma anche alla luce delle dichiarazioni fortemente critiche dei mesi scorsi di numerosi leader europei, come il presidente francese, François Hollande, e il ministro dell’Economia e vice-cancelliere tedesco, Sigmar Gabriel.
Gli sforzi di Bruxelles per giungere all’approvazione di questi trattati, assieme alla segretezza che avvolge spesso i negoziati e alla retorica fuorviante con cui vengono celebrati inesistenti benefici per la popolazione dell’Europa, indicano comunque che essi sono considerati cruciali sia per la sopravvivenza dell’Unione sia per il perseguimento in maniera indipendente dei propri interessi economici e strategici in una fase di aggravamento delle tensioni internazionali.
Questa impressione è stata rafforzata anche dalle dichiarazioni di molti leader europei e canadesi, i quali nei giorni scorsi hanno più volte avvertito che un eventuale fallimento del CETA avrebbe avuto serie conseguenze per l’immagine e la posizione dell’UE nel mondo.Anche per il Canada, peraltro, la ratifica del CETA costituisce un elemento strategico centrale, tanto più in un clima politico, a sud dei propri confini, che prefigura la possibile messa in discussione del Trattato Nord Americano di Libero Scambio (NAFTA) dopo le elezioni presidenziali di novembre.
Il CETA era stato lanciato dal governo ultra-conservatore di Stephen Harper ed è stato in seguito appoggiato da quello Liberale di Trudeau. Anzi, l’approvazione del trattato è diventata ancora più urgente per la classe dirigente e il business canadesi, viste le tensioni tra l’Europa e la Russia, potenziale concorrente di Ottawa nelle forniture di petrolio all’UE, e l’uscita dall’Unione della Gran Bretagna, tradizionale porta d’accesso al mercato europeo per i paesi nordamericani.
Quale che sia la sorte del CETA, o del TTIP, questi e altri trattati continueranno a incontrare l’opposizione degli attivisti e, quando informati, dei cittadini comuni, che vedono correttamente in essi un formidabile e anti-democratico strumento per l’ulteriore rafforzamento del capitale transnazionale e per lo smantellamento di quel che resta dei loro diritti in ambito economico e sociale.
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di Michele Paris
Una delle facce assunte da Hillary Clinton in questa campagna per le presidenziali è quella del difensore della classe media e dei lavoratori americani contro l’enorme influenza che i ricchi e le grandi banche di Wall Street esercitano sul sistema politico, economico e sociale degli Stati Uniti. Anche un irriducibile sostenitore dell’ex segretario di Stato di Obama, se in buona fede, non può però che considerare solo apparente questa sua attitudine, viste le ben documentate affinità con i grandi interessi economico-finanziari della candidata Democratica alla Casa Bianca.
Quegli stessi miliardari americani che hanno consentito ai coniugi Clinton di mettere assieme un’autentica fortuna personale sono infatti gli stessi che hanno donato centinaia di milioni di dollari alla campagna di Hillary, grazie ai quali quest’ultima ha potuto imporre una strategia elettorale volta sostanzialmente a contrastare la percezione negativa che ha di lei la maggioranza dei potenziali elettori.
Alcune delle manovre messe in atto per assicurarsi l’appoggio dei ricchi donatori nella primavera del 2015, cioè poche settimane prima dell’annuncio ufficiale della sua partecipazione alle primarie Democratiche per le presidenziali, sono state documentate dalla recente pubblicazione da parte di WikiLeaks di migliaia di e-mail private del direttore della campagna di Hillary, l’ex lobbista ed ex capo di gabinetto di Bill Clinton, John Podesta.
In particolare, i documenti mettono in luce come Hillary abbia anche formalmente rotto con la sorta di codice “etico” volontariamente applicato da Obama alla sua campagna nel 2012, con il quale intendeva rifiutare il sostegno delle cosiddette “Super PAC”. Queste organizzazioni raccolgono denaro e fanno campagna elettorale per un determinato candidato a patto che le proprie azioni non vengano coordinate direttamente con lo staff di quest’ultimo.
Le “Super PAC” sono proliferate negli ultimi anni grazie a una sentenza del 2010 della Corte Suprema degli Stati Uniti - “Citizens United contro Commissione Elettorale Federale” - che ha spazzato via qualsiasi tetto alle donazioni che esse possono ricevere. Come conferma lo stesso comportamento di Hillary e del suo entourage, i rapporti tra il team dei candidati e le “Super PAC” sono piuttosto stretti e, vista l’indulgenza delle autorità federali, la separazione delle due entità si limita quasi sempre all’adozione di accorgimenti del tutto inefficaci.
Ad ogni modo, i fedelissimi di Hillary non ebbero molti dubbi nel marzo del 2015 circa la necessità di abbandonare qualsiasi scrupolo morale per convincere i tradizionali donatori Democratici a staccare assegni a cinque o a sei zeri a favore delle “Super PAC” affiliate alla candidata alla Casa Bianca.
Fino al settembre di quest’anno, lo sforzo del team Clinton ha permesso di incassare un totale di 1,14 miliardi di dollari in contributi elettorali, inclusi quelli andati nelle casse del Partito Democratico. Donald Trump, da parte sua, ha raccolto invece 712 milioni, di cui 56 provenienti dal proprio patrimonio personale.
Sulle e-mail rese pubbliche da WikiLeaks ha condotto una ricerca il Washington Post, secondo il quale almeno un quinto del denaro incassato finora da Hillary Clinton e dalle “Super PAC” che la sostengono è arrivato “da appena un centinaio di ricchi donatori e da organizzazioni sindacali”. Molti dei primi, aggiunge il quotidiano della capitale americana, sono stati “coltivati metodicamente negli ultimi 40 anni” da Bill e Hillary.Il primo donatore della ex first lady è il manager di “hedge funds”, Donald Sussman (20,6 milioni di dollari), seguito dal “venture capitalist” di Chicago, J.B. Pritzker (16,7 milioni), dal proprietario della rete televisiva in lingua spagnola Univision, Haim Saban (11,9 milioni), dal noto finanziere George Soros (9,9 milioni) e dal 92enne fondatore della linea dietetica SlimFast, Daniel Abraham (9,7 milioni).
L’analisi del Washington Post chiarisce come, a partire dagli anni Settanta del secolo scorso, quando sono state attuate nuove regole sui finanziamenti alla politica in seguito allo scandalo Watergate, “nessun presidente [degli Stati Uniti] è stato eletto con contributi così ingenti di ricchi finanziatori”.
Singolarmente, non solo Hillary Clinton continua a criticare pubblicamente la sentenza della Corte Suprema che ha spalancato le porte alle donazioni illimitate alla politica americana, ma i suoi stessi ricchi finanziatori sostengono che i milioni di dollari erogati in questi mesi servono precisamente a favorire l’elezione di un presidente che ristabilisca limiti severi alle donazioni elettorali.
In altre parole, individui come Soros o Sussman verserebbero cifre da capogiro a Hillary Clinton non perché il futuro presidente rappresenti i propri interessi, bensì per sostenere un’azione legislativa che impedisca a multi-miliardari come loro di influire sulla politica americana.
Anche una pubblicazione apertamente favorevole alla candidatura di Hillary, come il Post, è costretta ad ammettere che l’ex segretario di Stato entrerebbe alla Casa Bianca con un “grosso debito nei confronti di un gruppo di donatori che hanno sostenuto lei e il marito per decenni”. La somma totale stimata del denaro veicolato verso le campagne elettorali dei coniugi e le loro iniziative “filantropiche”, attraverso la Clinton Foundation, si aggira attorno ai 4 miliardi di dollari.
In maniera poco sorprendente, le e-mail provenienti dall’account di John Podesta descrivono discussioni all’interno del team Clinton sui problemi di immagine di una candidata legata a doppio filo con Wall Street e le accuse di “ipocrisia” nei suoi confronti. Le difficoltà a spacciare Hillary come una candidata realmente interessata alle condizioni delle classi più disagiate era tale che, ad esempio, un membro del suo staff nel maggio del 2015 affermava come la sola presentazione di proposte di legge, volte a limitare l’influenza sulla politica dei poteri forti, poteva non essere sufficiente, ma anzi rischiava di essere controproducente vista la palese “dissonanza” tra parole e fatti.
Ciò non ha impedito comunque la formulazione di una strategia di raccolta fondi definita frenetica dagli stessi uomini dello staff di Hillary Clinton. Per la direttrice della comunicazione della campagna elettorale, Jennifer Palmieri, l’importante era “prendere il denaro”, mentre il capo dell’intera organizzazione, Robby Mook, si diceva disposto a fare i conti con qualsiasi attacco politico pur di assicurarsi contributi milionari.
Già nell’aprile del 2015 erano poi allo studio modalità di interazione con le “Super PAC” pro-Hillary, a cominciare da Priorities USA, per eludere le regolamentazioni di legge che vietano il coordinamento con la campagna elettorale dei candidati. Gli stratagemmi escogitati a questo scopo sono spesso ridicoli e la dicono lunga sull’attitudine a vigilare sul rispetto delle norme relative ai finanziamenti elettorali da parte delle autorità federali.
Ad esempio, dal momento che i membri dello staff di Hillary non potevano indicare ai colleghi di Priorities USA quali cifre erano disposti a sborsare determinati donatori, si comunicava che un noto finanziatore Democratico, “impiegato nell’industria finanziaria”, era probabilmente disponibile a “contribuire con [una somma a] sei cifre” a favore della “Super PAC”.
Il Washington Post indica anche come un’altra “Super PAC”, battezzata Correct the Record e dedicata appunto a “corregge gli attacchi ingiustificati” contro la candidata alla Casa Bianca dei suoi rivali, coordinava invece le proprie iniziative direttamente con lo staff di Hillary perché sfruttava un’esenzione di legge prevista per i blog.
Ai donatori, però, i vari gruppi che fanno campagna per Hillary venivano spesso presentati come “pezzi di un unico progetto”. I responsabili di Priorities USA sollecitavano così donazioni presentandosi come rappresentanti di un’organizzazione direttamente affiliata alla campagna di Hillary. John Podesta, da parte sua, durante gli incontri con i ricchi finanziatori del Partito Democratico non mancava di chiedere contributi sia per la campagna di Hillary sia per le “Super PAC”.Oltre a quella del Washington Post, altre indagini di giornali americani nei giorni scorsi hanno evidenziato il sostegno ricevuto da Hillary Clinton all’interno della classe dei super-ricchi d’America. Al contrario di quanto era avvenuto nel 2012, quando Wall Street aveva mostrato di preferire Mitt Romney a Obama, in questa occasione la candidata Democratica sembra avere maggiori credenziali in questo senso rispetto a Donald Trump.
Il Wall Street Journal ha scritto che finora la Clinton ha ricevuto direttamente per la sua campagna elettorale 70 milioni di dollari da 19 miliardari, contro 18 milioni da 5 miliardari finiti nelle casse del rivale Repubblicano.
A conferma degli orientamenti dell’élite finanziaria americana, qualche giorno fa l’amministratore delegato di Goldman Sachs, Lloyd Blankfein, ha di fatto appoggiato pubblicamente la candidatura di Hillary Clinton. Questo colosso di Wall Street è storicamente molto legato alla famiglia Clinton e nel 2013 pagò a Hillary ben 675 mila dollari per tre discorsi tenuti di fronte ai propri impiegati.
Oltre a quello dell’industria finanziaria, la ex first lady ha ottenuto il sostegno infine di centinaia di membri ed ex membri dell’apparato militare e dell’intelligence degli Stati Uniti, molti dei quali noti “falchi” e sostenitori delle avventure belliche americane degli ultimi quindici anni.
In un’elezione tra due delle personalità pubbliche più odiate, dunque, Hillary Clinton è senza alcun dubbio la candidata di gran lunga preferita dall’establishment politico, economico e militare. Trump, al contrario, continua a suscitare gravi preoccupazioni a causa della sua imprevedibilità, dell’attitudine troppo conciliante mostrata nei confronti della Russia e delle tensioni sociali che potrebbero esplodere in seguito all’ingresso alla Casa Bianca di un presidente dai tratti apertamente fascisti.
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di Mario Lombardo
Tre settimane dopo le dimissioni forzate del leader del Partito Socialista Spagnolo (PSOE), Pedro Sánchez, il “comitato federale” della principale forza di opposizione del paese iberico ha prevedibilmente deciso di assumersi la responsabilità di far nascere a Madrid un nuovo governo di minoranza guidato dal Partito Popolare (PP) di centro-destra dell’attuale primo ministro, Mariano Rajoy.
La presa di posizione dovrebbe mettere fine, almeno per il prossimo futuro, allo stallo politico che dura dalle elezioni del dicembre dello scorso anno, segnate dal tracollo del sistema bipartitico che ha caratterizzato la Spagna post-franchista. In quell’occasione, il PP aveva ottenuto il maggior numero di seggi alla Camera Bassa (Congresso dei Deputati), ma non a sufficienza per continuare a governare da solo.
L’impossibilità di mettere assieme una coalizione di governo aveva portato a un altro voto nel mese di giugno, ma i risultati erano stati sostanzialmente identici, nonostante un qualche incremento dei consensi per il PP e un ulteriore calo del PSOE. Da allora, quest’ultimo partito, reduce dalle due peggiori performance elettorali della propria storia, è stato attraversato da profonde divisioni interne circa l’atteggiamento da tenere nei confronti di un possibile nuovo governo Rajoy.
L’ormai ex segretario Sánchez aveva resistito alle pressioni della fazione che spingeva per consentire la formazione di un gabinetto di minoranza attraverso l’astensione di almeno una parte della delegazione parlamentare Socialista. Anzi, Sánchez aveva accarezzato l’idea di formare un proprio esecutivo assieme al partito anti-establishment Podemos (Possiamo), sia pure con il necessario sostegno di altre forze politiche minori.
Le resistenze nel PSOE e l’oggettivo indebolimento di entrambi i partiti dopo il secondo voto a giugno avevano tuttavia allontanato questa ipotesi, aprendo la strada a un colpo di mano tra i vertici Socialisti, puntualmente accaduto a inizio ottobre. Con la regia dell’ex primo ministro Felipe González, la destra del PSOE, vale a dire la maggioranza negli organi dirigenziali, tramite una serie di dimissioni studiate a tavolino, aveva sfruttato le norme interne per forzare le dimissioni di Sánchez e impedirgli di sondare iscritti e sostenitori del partito sull’opportunità di far astenere i propri deputati in un voto di fiducia al governo Rajoy.
Il PSOE è stato così affidato a una leadership provvisoria, guidata dal numero uno dei Socialisti nelle Asturie, Javier Fernández, che ha convocato una riunione del comitato federale per domenica scorsa, risoltasi appunto con un voto a favore dell’astensione per consentire la nascita del nuovo esecutivo Rajoy. Il leader dei Popolari dovrebbe iniziare il suo nuovo mandato da capo del governo già nel fine settimana, appena prima cioè della data del 31 ottobre, oltre la quale sarebbe scattato un nuovo scioglimento del Parlamento.
Nel primo voto in aula, che richiede la maggioranza assoluta dei deputati, il premier non sarà in grado di ottenere la fiducia, ma al secondo tentativo sarà sufficiente la maggioranza dei votanti e l’astensione dei Socialisti dovrebbe chiudere formalmente la crisi spagnola.
La crisi del PSOE non si risolverà invece con la decisione dei propri vertici. Sondaggi e manifestazioni di protesta hanno chiarito in questi mesi come la maggioranza degli elettori di questo partito si opponga a qualsiasi collaborazione con il PP, inclusa l’astensione in un voto di fiducia.
Se è probabilmente vero che una terza elezione nell’arco di dodici mesi avrebbe punito ulteriormente i Socialisti, è altrettanto inevitabile che la decisione di domenica costerà cara a un partito che continua a perdere voti a causa del costante spostamento a destra delle proprie posizioni politiche. Proprio questa involuzione è da ricercare tra le ragioni della crisi del PSOE e della situazione inestricabile in cui si è venuto a trovare dopo le due elezioni inconcludenti degli ultimi dieci mesi.
Numerosi dirigenti locali del partito hanno messo in guardia dalla scelta di facilitare la nascita del governo Rajoy. Il leader Socialista catalano, Miquel Iceta, ha fatto riferimento agli episodi di corruzione che hanno coinvolto negli ultimi anni il PP, avvertendo che la “posizione [del PSOE] sarà seriamente danneggiata dall’astensione, soprattutto in assenza di un serio sforzo per formare un governo alternativo”.
Idoia Mendia, segretaria del Partito Socialista nei Paesi Baschi, ha invece fatto notare come il PSOE non abbia nemmeno ottenuto concessioni dal PP in cambio della propria disponibilità a consentire la formazione di un governo di minoranza.
Visti i numeri in parlamento del PP, il quale potrà contare sul sostegno del partito di centro-destra Ciudadanos (Cittadini), sarà sufficiente l’astensione di 11 deputati Socialisti, ma i vertici del PSOE intendono far astenere tutta la propria delegazione. Ciò potrebbe creare seri problemi a molti parlamentari del partito, come quelli che rappresentano la Catalogna, tra i quali pare sia addirittura possibile una scissione o il passaggio nelle fila di Podemos.
Proprio quest’ultima formazione intende capitalizzare al massimo la decisione del PSOE, così da ridurre l’impatto dei problemi interni che essa stessa sta attraversando dopo il risultato relativamente deludente fatto segnare nelle elezioni di giugno.
Il leader di Podemos, Pablo Iglesias, e altri esponenti del partito hanno infatti già denunciato la nascita di una “grande coalizione” tra il PP e il PSOE, nella speranza di intercettare il maggior numero di elettori Socialisti in vista di un voto che potrebbe non essere comunque troppo lontano, vista l’inevitabile precarietà del gabinetto che sta per insediarsi.L’astensione nel voto di fiducia in parlamento implica in ogni caso che il PSOE è pronto anche a sostenere alcune iniziative di legge del governo di centro-destra, malgrado il leader ad interim, Javier Fernández, abbia chiarito che non esiste alcuna alleanza con il PP. In un’intervista rilasciata un paio di settimane fa al quotidiano El País, Fernández aveva però spiegato come “opposizione non significhi sempre e necessariamente antagonismo”, bensì fare “ciò che è utile alla popolazione”.
Dove per “popolazione”, il leader Socialista intendeva i poteri forti dentro e fuori i confini spagnoli, vale a dire il vero motore della decisione del suo partito, impegnati da mesi a fare pressioni per favorire la nascita a Madrid di un governo di continuità in grado di proseguire e intensificare le politiche di austerity e di “riforma” del mercato del lavoro già implementate in questi anni da Rajoy e dal Partito Popolare.
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di Michele Paris
Uno dei rarissimi momenti significativi del terzo e ultimo faccia a faccia tra Hillary Clinton e Donald Trump, andato in scena nella notte di mercoledì a Las Vegas, è stato probabilmente il ripetuto riferimento della candidata Democratica alla Casa Bianca agli ex presidenti Repubblicani, Ronald Reagan e George W. Bush, con l’intento di sottolineare le differenze tra questi ultimi e il suo rivale. In questo modo, la ex first lady ha cercato ancora una volta di convincere gli elettori e gli ambienti di potere Repubblicani delle sue credenziali conservatrici, se non reazionarie, che, infatti, hanno convinto da tempo numerosi esponenti della galassia “neo-con” e dell’establishment militare ad appoggiare pubblicamente la sua candidatura.
In effetti, durante praticamente tutto il dibattito all’università del Nevada, Hillary ha navigato gli attacchi di Trump e le domande di Chris Wallace di FoxNews, moderatamente più incisive rispetto ai primi due “duelli”, nel tentativo di conciliare le sue posizioni elitarie e guerrafondaie, a malapena celate, con proclami vagamente progressisti e, soprattutto, con appelli alle politiche identitarie.
Forse ancor più rilevante, anche se tutt’altro che sorprendente, è stata poi la quasi totale assenza di riferimenti al contenuto delle e-mail del capo della campagna elettorale della candidata Democratica, John Podesta, pubblicate in questi giorni da WikiLeaks. Le rivelazioni sono state a tratti devastanti nel ritrarre una candidata al servizio di Wall Street nonostante un’immagine pubblica costruita attorno alla difesa della classe media americana.
In una sola occasione Chris Wallace ha posto una domanda a Hillary sulle e-mail segrete, in relazione cioè all’auspicio da lei espresso, in un discorso privato a una banca brasiliana e pagato ben 225 mila dollari, di vedere “un mercato comune nell’emisfero occidentale” senza confini e senza dazi.
In linea con l’atteggiamento tenuto finora da tutto l’ambiente Democratico, Hillary ha subito dirottato la discussione sulla responsabilità del governo russo nell’avere violato account privati di posta elettronica negli Stati Uniti, puntando il dito direttamente contro il presidente Putin per essersi intromesso nelle elezioni americane a favore di Trump.
Proprio sulla politica estera, l’ex segretario di Stato ha manifestato apertamente le sue credenziali da “falco”. Riconoscendo che anche l’amministrazione Obama, di cui ha fatto parte, è contraria alla creazione di una no-fly zone sui cieli della Siria, Hillary ha confermato la sua decisione a istituirne una dopo il suo ingresso alla Casa Bianca.
Quando Wallace le ha fatto notare che, secondo lo stesso capo di Stato Maggiore USA, generale Joseph Dunford, implementare una no-fly zone in Siria comporterebbe probabilmente entrare in guerra con la Russia, la Clinton ha attenuato di poco i toni, affermando in maniera confusa che questa iniziativa dovrebbe essere il frutto di trattative con gli stessi governi di Mosca e Damasco per proteggere la popolazione civile.Sulle operazioni americane in Medio Oriente, Trump ha invece da parte sua attaccato Hillary e Obama, ricordando più volte le responsabilità di entrambi nel favorire il dilagare del fondamentalismo islamista in Iraq e in Siria. Nel rispondere poi alle accuse della rivale circa la sua attitudine troppo tenera nei confronti del Cremlino e i giudizi negativi espressi sulla NATO, Trump non ha nascosto la disponibilità a ristabilire rapporti sereni con Mosca e l’intenzione di sollevare gli Stati Uniti dai compiti di difesa degli alleati.
Sugli altri argomenti toccati dal dibattito, Hillary Clinton ha ostentato una retorica “liberal” per differenziare le proprie posizioni da quelle al limite del fascismo di Trump: dalla questione degli immigrati all’intervento dello stato nell’economia, dal diritto all’aborto alla salvaguardia dei rimanenti programmi pubblici di assistenza sociale. Ciononostante, Hillary non ha contestato l’impostazione della discussione data dal moderatore della serata su questi ultimi, accettando la premessa della necessità di contenerne i costi per evitare l’esplosione del debito pubblico.
Né Wallace né Trump, se non in maniera marginale, hanno fatto notare come le promesse di stampo progressista di Hillary contrastino clamorosamente con quanto da lei sostenuto nei discorsi alle grandi banche rivelati da WikiLeaks. In essi, la candidata Democratica ha sostanzialmente espresso la necessità di distribuire un elenco di menzogne al pubblico per contenere il malcontento e le tensioni sociali, mentre in realtà l’azione politica deve essere rivolta ai grandi interessi economico-finanziari.
Verso la fine del dibattito, dopo una tirata di Hillary sulla sua “missione” da presidente a favore degli americani comuni e contro “gli interessi dei potenti”, Trump ha fatto notare come la sua rivale stia “raccogliendo denaro [per la campagna elettorale] da quelle stesse persone che dice di voler tenere sotto controllo”.
I resoconti del dibattito apparsi giovedì sui media americani hanno comunque insistito su una dichiarazione di Trump, con la quale quest’ultimo si sarebbe rifiutato di riconoscere la legittimità democratica delle elezioni presidenziali. Il momento più citato dai giornali è avvenuto quando la discussione è stata portata sulle parole pronunciare da Trump nei giorni scorsi su un voto che potrebbe essere manipolato a favore di Hillary.
Quando il giornalista di FoxNews ha chiesto se è pronto ad accettare senza riserve il risultato delle elezioni, Trump ha risposto che tutto dipenderà da come si svolgeranno e che, per il momento, intende lasciare la “suspence” in merito alla sua decisione sull’esito del voto. Trump ha poi elencato le presunte manovre in atto per distorcere i risultati a favore della sua avversaria, alla quale, a suo dire, dovrebbe essere impedito di correre per la Casa Bianca, visti i crimini di cui si è macchiata.
Queste parole di Trump vanno intese come un serio avvertimento circa la sua intenzione di creare un movimento pseudo-fascista contro il sistema politico di Washington partendo dal rifiuto di accettare elezioni in qualche modo truccate. In questo scenario, la denuncia dell’irregolarità delle elezioni è perfettamente coerente con la strategia di Trump di presentarsi agli americani più penalizzati dalla crisi economica e dai processi di globalizzazione come fattore destabilizzante di un sistema manipolato a esclusivo favore dei poteri forti.
I suoi appelli alla “working-class” emarginata hanno però un certo successo solo grazie al vuoto della sinistra americana. Inevitabilmente, peraltro, le ricette economiche di Trump combinano una sorta di nazionalismo economico, alimentato dall’opposizione ai trattati di libero scambio che hanno favorito il trasferimento dei posti di lavoro in altri paesi, a logori cavalli di battaglia neo-liberisti, come il taglio delle tasse per le grandi aziende e altri favori a queste ultime per innescare magicamente una sostenuta crescita del PIL americano.
Alla fine della serie dei dibattiti previsti tra i due principali candidati alla presidenza degli Stati Uniti e a meno di tre settimane dal voto, la stampa americana sostiene che una vittoria di Trump risulta poco meno che impossibile, visti gli scenari delineati da quasi tutti i sondaggi pubblicati nelle ultime settimane.Se l’immagine di Trump è già screditata dalla sua appartenenza al sottobosco semi-criminale del business americano, gli attacchi della stampa ufficiale, schierata pressoché interamente con Hillary Clinton, hanno contribuito ad arrestare una rimonta che sembrava possibile durante l’estate. La strategia utilizzata contro Trump è stata in larga misura già utilizzata infinite volte per regolare i conti nella classe dirigente americana, quella cioè di sollevare accuse di molestie sessuali.
Il repentino e massiccio cambiamento di opinione dei potenziali elettori, almeno come viene caratterizzato dai media “mainstream”, appare però sospetto a molti, tanto più che è legato a questioni di importanza secondaria rispetto a quelle cruciali in ballo con il voto, legate all’economia, al welfare e, soprattutto, alla guerra.
Rilevazioni di opinione di vari istituti indicano comunque, se non un sostanziale equilibrio, almeno un vantaggio per la Clinton non troppo superiore al margine di errore. Gli stenti della ex first lady sono chiaramente dovuti sia alla persistente e più che giustificata ostilità degli americani per una candidata che è l’incarnazione stessa dei grandi interessi che dominano la politica americana, sia all’ondata di risentimento nei confronti del sistema che ha l’unica valvola di sfogo in un “non politico” populista di estrema destra.
Se il risultato del voto dell’8 novembre prossimo sembra già segnato, la peculiarità della campagna per le presidenziali forse più degradante della storia americana e la ribellione latente contro l’establishment suggeriscono tuttavia di non escludere del tutto, a urne chiuse, qualche possibile clamorosa sorpresa.
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di Michele Paris
L’interruzione del collegamento a Internet del fondatore di WikiLeaks, Julian Assange, da parte del governo dell’Ecuador, che da oltre quattro anni lo ospita nella sua ambasciata di Londra, è stato il segnale del livello di disperazione raggiunto dal governo americano nel tentativo di mettere fine alla diffusione dei documenti segreti relativi alla campagna elettorale di Hillary Clinton e ai suoi legami con i grandi interessi finanziari degli Stati Uniti.
Il paese sudamericano ha negato di essere stato sottoposto alle pressioni di Washington, ma nel comunicato ufficiale di martedì, nel quale ha ammesso di avere escluso “temporaneamente” dalla rete Assange, ha fatto riferimento alla presunta interferenza di WikiLeaks nelle vicende elettorali degli Stati Uniti.
Assange aveva denunciato in precedenza lo stop al collegamento a Internet e la sua organizzazione ha fatto sapere di avere ricevuto informazioni da varie fonti circa l’intervento diretto del segretario di Stato USA, John Kerry, sulle autorità ecuadoriane nel corso dei recenti negoziati sul processo di pace tra il governo colombiano e i guerriglieri delle FARC. Kerry avrebbe chiesto un intervento per fermare Assange e la pubblicazione di ulteriori documenti dalla portata devastante per la candidata favorita dall’establishment a stelle e strisce.
I documenti parzialmente pubblicati finora da WikiLeaks provengono dall’account di posta elettronica del numero uno della campagna elettorale di Hillary, l’ex consigliere di Obama ed ex capo di Gabinetto di Bill Clinton, John Podesta. Oltre a quelle già pubblicate, resterebbero più di diecimila e-mail da diffondere, forse con rivelazioni ancora più scottanti sull’ex segretario di Stato.
Il tentativo di zittire WikiLeaks e di isolare ulteriormente dal mondo esterno Assange ha implicazioni inquietanti per la libertà di stampa e il diritto a conoscere fatti fondamentali sul conto dei leader politici. Inoltre, il giornalista/attivista australiano è già stato bersaglio di pesanti minacce nel recente passato e i provvedimenti presi nei suoi confronti ne hanno messo a serio rischio anche l’integrità fisica.
Proprio WikiLeaks aveva rivelato una discussione che coinvolgeva Hillary Clinton, la quale, durante la pubblicazione nel 2010 di centinaia di migliaia di documenti riservati sulle attività del Dipartimento di Stato americano, chiedeva ai suoi collaboratori se non fosse possibile “semplicemente eliminare Assange con un drone”.
Hillary ha sostenuto di non ricordare la frase e, se anche l’avesse pronunciata, sarebbe stato uno scherzo. Al Dipartimento di Stato, tuttavia, l’allora segretario aveva la facoltà di intervenire sul processo decisionale relativo all’elenco degli individui da colpire arbitrariamente con i droni americani e, in ogni caso, minacce alla vita di Assange sono state rivolte pubblicamente in varie occasioni da altri esponenti Democratici e dell’apparato militare e dell’intelligence americano.
Lo stesso esilio forzato nell’ambasciata ecuadoriana a Londra è il risultato di una campagna giudiziaria organizzata dal governo di Gran Bretagna e Svezia, dove è tuttora in vigore un mandato di arresto nei confronti di Assange, con la regia americana per incastrare quest’ultimo e avviare un processo di estradizione verso gli Stati Uniti. Notizie circolate qualche anno fa avevano rivelato come la giustizia americana abbia già istituito segretamente un “Grand Jury” per raccomandare l’incriminazione di Assange con l’accusa di tradimento e diffusione di documenti governativi riservati.Mentre la maggior parte dei media ufficiali, soprattutto americani, continua a dipingere Assange come uno stupratore che intende sottrarsi alla giustizia, è necessario ricordare che le autorità svedesi non hanno avviato alcun procedimento di incriminazione nei suoi confronti, bensì intendono soltanto interrogarlo in merito a un caso dai contorni a dir poco sospetti.
La denuncia delle due “vittime” dello stupro, legata in realtà al mancato uso di un profilattico, era stata infatti archiviata in un primo momento dalla giustizia svedese, anche perché almeno una delle donne coinvolte aveva ostentato sui social media il suo rapporto sessuale, evidentemente consensuale, con Assange. Solo in seguito all’intervento di un magistrato legato al Partito Socialdemocratico svedese il caso era stato riaperto e da allora ha avuto inizio la persecuzione giudiziaria contro Assange.
Quest’ultimo aveva poi trovato rifugio presso la rappresentanza diplomatica ecuadoriana in Gran Bretagna una volta esaurite le strade legali per evitare l’estradizione in Svezia e, probabilmente, dal paese scandinavo agli Stati Uniti. Dopo più di quattro anni di vita all’interno dell’ambasciata, con il governo di Londra che aveva anche respinto la concessione di una sorta di salvacondotto per consentire il trasferimento di Assange in ospedale, un rapporto diffuso quest’anno dal Gruppo di Lavoro delle Nazioni Unite sulle Detenzioni Arbitrarie ha condannato duramente la Gran Bretagna e la Svezia, i cui governi hanno però ignorato le conclusioni non vincolanti.
La decisione del governo dell’Ecuador sembra essere comunque poco più che simbolica, malgrado il presidente Correa abbia sostenuto pubblicamente di preferire una vittoria di Hillary Clinton nelle presidenziali di novembre. Il provvedimento di blocco del collegamento a Internet di Assange è appunto di natura temporanea e Quito ha tenuto a precisare che l’offerta di asilo rimane intatta, così come il suo diritto a svolgere l’attività giornalistica.
Allo stesso tempo, è probabile che il governo americano farà altre pressioni su quello ecuadoriano, lasciato peraltro vergognosamente solo dagli altri paesi nel gestire una vicenda dalle implicazioni cruciali per la libertà di stampa e i diritti democratici a livello internazionale.
La vicenda di Assange e le attività di WikiLeaks, di fatto quasi eroiche viste le circostanze, dopo le ultime rivelazioni su Hillary Clinton si intrecciano d’altronde con quella che è una delle principali questioni strategiche di questi anni, vale a dire la rivalità tra Stati Uniti e Russia e il pericolo di un conflitto diretto tra le due potenze nucleari.
Senza una sola prova concreta, il governo e i media negli Stati Uniti insistono nell’attribuire a Mosca la penetrazione nei server del Partito Democratico e dei collaboratori di Hillary Clinton, da cui provengono le e-mail pubblicate da WikiLeaks. L’organizzazione di Julian Assange sarebbe perciò complice di Putin nel tentativo di penalizzare la candidata Democratica alla Casa Bianca e di favorire Donald Trump, attestato su posizioni teoricamente più moderate per quel che riguarda i rapporti con Mosca.Il contenuto delle e-mail diffuse in questi giorni viene così in sostanza ignorato, mentre si denuncia WikiLeaks e la Russia per il tentativo di interferire in un processo elettorale altrimenti esemplarmente democratico. Questa strategia di Hillary e del suo partito serve in primo luogo a sostenere la propria candidatura alla presidenza ed evitare un ulteriore peggioramento del già misero gradimento tra gli americani.
Parallelamente, però, gli attacchi contro Mosca rientrano nel progetto “neo-con, abbracciato in pieno da Hillary, di contenimento della Russia, contro la quale a Washington si sta preparando un’offensiva che vedrà un’accelerazione dopo il voto di novembre.
Chiunque sostenga tesi diverse o rappresenti un ostacolo a questo progetto - da Donald Trump a Julian Assange e WikiLeaks - è perciò un nemico se non un traditore, intenzionato a favorire quella che viene rappresentata come la principale minaccia alla sicurezza degli Stati Uniti.