- Dettagli
- Scritto da Administrator
- Categoria principale: Articoli
- Categoria: Esteri
di Mario Lombardo
Il presidente delle Filippine, Rodrigo Duterte, è sbarcato martedì a Pechino per una visita ufficiale che sarà seguita con particolare apprensione negli Stati Uniti. La prima trasferta all’estero del discusso leader filippino, al di fuori dei paesi dell’area del sud-est asiatico, rappresenta una sorta di suggello alle aperture fatte alla Cina a partire dal suo insediamento a Manila nel giugno scorso e, allo stesso tempo, manda un segnale inequivocabile a Washington della svolta strategica in atto in quello che sembrava fino a pochi mesi fa uno degli alleati più affidabili in Estremo Oriente.
L’arrivo di Duterte in Cina è stato preceduto da una serie di commenti sulla stampa del regime per celebrare l’occasione di ristabilire relazioni amichevoli tra i due paesi vicini. Un articolo dell’agenzia di stampa Xinhua ha ad esempio elogiato il presidente filippino per avere messo da parte l’atteggiamento ostile del suo predecessore, il fedelissimo di Washington Benigno Aquino, e non avere assecondato le provocazioni di paesi, come gli Stati Uniti, che intendono intromettersi nelle contese territoriali del Mar Cinese Meridionale.
Il commento definisce significativamente la visita di Duterte come una “prova del nove” per dimostrare la “sincerità” e il “buon senso politico” della nuova amministrazione filippina. Soprattutto, Manila dovrà evitare qualsiasi pressione sulla Cina in conseguenza della recente sentenza dell’Arbitrato Permanente de L’Aia sulle dispute nel Mar Cinese Meridionale, scaturita da un’istanza filippina – dietro “consiglio” americano – e fortemente critica delle posizioni di Pechino.
Questo punto di vista riflette senza dubbio quello del governo cinese, il quale prospetta importanti “ricompense” al vicino nel caso il processo di distensione dovesse andare a buon fine. Manila potrebbe cioè raccogliere frutti non solo in ambito politico e diplomatico, ma anche e soprattutto in quello economico, dove evidentemente gli Stati Uniti faticano a competere.
Altrettanto rivelatore è anche l’insistito appoggio manifestato da Pechino alla vera e propria guerra dichiarata da Duterte alla criminalità e, in particolare, al narcotraffico. Questa battaglia si sta risolvendo in realtà in una strage sommaria di presunti criminali per mano delle forze di polizia e di squadre della morte al servizio delle autorità.
Il governo americano aveva inizialmente appoggiato l’iniziativa di Duterte ma ha in seguito espresso perplessità, non tanto per scrupoli legati ai diritti umani dei giustiziati, quanto per utilizzare le esecuzioni come arma di pressione su un presidente sempre più critico del potente alleato.
La Cina, insomma, prospetta alle Filippine di Duterte promesse di ingenti investimenti in un’economia sì in crescita ma segnata anche da grave arretratezza, nonché da colossali disuguaglianze e ampie sacche di povertà. Il tutto senza muovere critiche ai metodi apertamente fascisti del presidente-sceriffo.
Non a caso, Duterte è arrivato in Cina con al seguito centinaia di uomini d’affari filippini, nella speranza di siglare accordi che la stampa internazionale stima in svariati miliardi di dollari. Le principali motivazioni dietro alle aperture alla Cina del presidente del paese-arcipelago sono state spiegate da lui stesso in un’intervista concessa sempre all’agenzia di stampa Xinhua prima della partenza per Pechino.
Duterte si è rammaricato del fatto che l’economia filippina sia stata superata nell’ultimo decennio da quelle di molti paesi vicini, mentre gli ambiziosi progetti per la costruzione di infrastrutture cruciali restano irrealizzabili per “mancanza di capitali”. Se, dunque, la Cina dovesse offrire a Manila “l’assistenza che ha già dato ad altri paesi”, le Filippine “sarebbero liete di far parte dei piani grandiosi [di Pechino] per l’intera Asia”.
Quest’ultima affermazione delinea una precisa scelta strategica da parte di Duterte, quella cioè di portare le Filippine all’interno del progetto cinese di integrazione economica del continente asiatico. E ciò è precisamente quanto Washington intende contrastare, tanto più se i paesi intercettati dall’orbita di Pechino sono alleati storici degli Stati Uniti.L’altro schiaffo di Duterte agli americani consiste nel rifiuto a utilizzare la sentenza sul Mar Cinese Meridionale citata in precedenza per esercitare pressioni su Pechino. L’amministrazione Obama si aspettava senza dubbio un’azione incisiva da parte del governo filippino su questo fronte, ma il voltafaccia di Duterte ha lasciato per ora nelle mani di Washington un’arma spuntata.
Con un chiaro riferimento al verdetto dell’Arbitrato de L’Aia, nell’intervista a Xinhua, il presidente filippino ha affermato che “non c’è ragione nel combattere per uno specchio d’acqua”, mentre ciò che il suo governo persegue nei rapporti con la Cina è “cooperazione”, “amicizia” e, “soprattutto, business”. Oltretutto, nell’auspicare un’accelerazione del dialogo con Pechino, le Filippine non intendono ricorrere alla mediazione di paesi ostili alla Cina.
La predisposizione così mostrata da Duterte non esclude in ogni caso motivi di frizione con la Cina. Per cominciare, anche per ragioni di politica interna, il presidente dovrà risolvere la disputa con Pechino sul divieto imposto ai pescatori filippini di operare nelle acque del conteso atollo di Scarborough, nel Mar Cinese Meridionale, controllato dalla Cina.
Secondo la Associated Press, le due parti stanno negoziando sulla questione e al momento non è ancora chiaro se il comunicato che seguirà il faccia a faccia di giovedì tra Duterte e il presidente cinese, Xi Jinping, conterrà un qualche riferimento ad essa.
Un editoriale della testata cinese in lingua inglese Global Times, la quale riflette le posizioni del regime sulle questioni di politica estera, ha riconosciuto la necessità per Duterte di ottenere qualche risultato sulla questione della pesca. Pur affermando la non negoziabilità della sovranità cinese, Pechino potrebbe comunque “adottare una politica flessibile sui diritti ittici delle Filippine”, anche come ricompensa per la “ferma posizione [di Duterte] nel non assecondare la strategia anti-cinese degli Stati Uniti”.
Anche sul fronte militare, Duterte ha minacciato nuovamente di stravolgere i rapporti con gli Stati Uniti. Facendo seguito a quanto già preannunciato nei mesi scorsi, il presidente filippino ha confermato a una rete televisiva di Hong Kong qualche giorno fa che in futuro non si terrà più nessuna esercitazione militare tra le forze armate del suo paese e quelle americane. Duterte si è detto poi disponibile a valutare la possibilità di organizzare esercitazioni con Russia e Cina, lasciando intendere che questi paesi potrebbero diventare fornitori di armi delle Filippine, nonostante gli approvvigionamenti in questo ambito siano quasi monopolizzati dalle aziende statunitensi.
USA e Filippine, inoltre, sono legate da un trattato di “mutua difesa” fin dagli anni Cinquanta del secolo scorso e, nel 2014, l’amministrazione Aquino ha sottoscritto un’intesa sulla cooperazione in ambito militare che consente alle forze armate americane di utilizzare le basi in territorio filippino, sia pure in maniera “non permanente”.
Se le uscite anti-americane di Duterte continuano ad alternarsi a dichiarazioni relativamente rassicuranti sul mantenimento dell’alleanza con Washington, è inevitabile che gli Stati Uniti seguano con estrema preoccupazione la possibile trasformazione degli orientamenti strategici delle Filippine. Se gli sviluppi osservati in questi mesi dovessero persistere, non è da escludere che gli USA possano mettere in atto una qualche manovra diretta a screditare, se non addirittura a rimuovere, il presidente filippino.
Tra la classe dirigente del paese del sud-est asiatico, d’altra parte, vi sono forti resistenze al ribaltamento degli orizzonti strategici prefigurati da Duterte. A esprimersi apertamente contro il presidente negli ultimi giorni è stato, tra gli altri, uno dei suoi predecessori, l’88enne Fidel Ramos, che la settimana scorsa aveva definito “deludente” il bilancio iniziale del nuovo governo di Manila, mentre, poco prima della visita in Cina, ha affermato che Duterte “non può risolvere da solo tutti i problemi del paese”.A spiegare lucidamente la posta in gioco nel triangolo USA-Cina-Filippine è stata infine sempre la testata on-line Global Times, la quale ha scritto martedì che Manila “svolge un ruolo speciale negli scenari legati al Mar Cinese Meridionale”. Le Filippine sono “la pedina ideale di USA e Giappone per intervenire nelle questioni del Mar Cinese Meridionale” e, infatti, durante la presidenza Aquino, Manila ha messo in atto gravi provocazioni nei confronti di Pechino proprio perché aveva l’appoggio di Washington e Tokyo.
Se, però, l’equazione Cina-Filippine dovesse cambiare e i due paesi tornassero a intrattenere relazioni cordiali, non solo le manovre nel Mar Cinese ma addirittura l’intero progetto di riallineamento strategico in Asia degli Stati Uniti, com’è ovvio in funzione anti-cinese, potrebbe essere messo seriamente in discussione.
- Dettagli
- Scritto da Administrator
- Categoria principale: Articoli
- Categoria: Esteri
di Michele Paris
Con un annuncio ufficiale in diretta televisiva del primo ministro iracheno, Haider al-Abadi, è iniziata l’attesa offensiva militare per la riconquista di Mosul, città da due milioni di abitanti e roccaforte dello Stato Islamico (ISIS/DAESH) in Iraq. A partecipare all’operazione, oltre all’esercito di Baghdad, sono le forze della regione autonoma del Kurdistan iracheno, milizie sciite fedeli al governo centrale e contingenti di varia entità e con ruoli diversi di alcuni paesi occidentali, a cominciare ovviamente dagli Stati Uniti.
A Washington, il governo e la stampa ufficiale hanno salutato con entusiasmo la campagna per “liberare” la città irachena dai terroristi islamici, lasciando chiaramente intendere che nell’assedio imminente varrà la pena sacrificare migliaia o decine di migliaia di vittime civili. L’attacco è certamente necessario per infliggere un colpo decisivo all’ISIS/DAESH e giunge semmai con ritardo rispetto alle necessità, ma c’è da sottolineare come l’elemento relativo ai “danni collaterali” venga, nell’occasione, taciuto.
Al contrario, le operazioni condotte ad Aleppo in Siria dall’esercito di Damasco, dall’aviazione russa e dalle forze speciali iraniane e di Hezbollah, a tutti gli effetti rivolte ugualmente per la definitiva liberazione della città dagli elementi fondamentalisti che minacciano l’integrità di uno stato sovrano, continuano a essere condannate come crimini di guerra dagli Stati Uniti e dai loro alleati.
L’offensiva per liberare Mosul, presentata brevemente nelle primissime ore di lunedì dal premier iracheno in abiti militari e affiancato da alti ufficiali dell’esercito, vedrà impegnati complessivamente circa 30 mila uomini, supportati dalle forze aeree americane. Nelle fasi iniziali, un ruolo importante è stato assegnato a 4 mila “peshmerga” curdi, incaricati della riconquista di una decina di villaggi che circondano Mosul.
Nei dintorni della città, da settimane sono state già ammassate truppe in vista dell’assalto e per impedire la fuga degli uomini dell’ISIS/DAESH verso la Siria. Come ha spiegato lunedì il New York Times, in un secondo momento saranno le forze dell’anti-terrorismo, già protagoniste della “liberazione” di Ramadi e Falluja nel dicembre del 2015 e nel giugno di quest’anno, a guidare l’attacco nel cuore della città, in appoggio alle forze regolari irachene.
Proprio la distruzione e la crisi umanitaria seguite alla cacciata dell’ISIS/DAESH da queste due città irachene fa prevedere una nuova catastrofe a Mosul. Le Nazioni Unite hanno avvertito che 200 mila residenti potrebbero essere costretti a lasciare le loro abitazioni solo nei primi giorni dell’attacco, generando una situazione drammatica, viste anche le inadeguate misure adottate dal governo di Baghdad per accoglierli.
Per la coordinatrice ONU degli aiuti umanitari in Iraq, Lise Grande, la crisi che rischia di scaturire da Mosul potrebbe essere la più complessa affrontata quest’anno dalla comunità internazionale, essendo previsti fino a un milione di civili in fuga dai combattimenti.
Solo giovedì scorso, la diplomatica americana stimava in un miliardo di dollari il costo per lo sforzo umanitario diretto ad assistere un milione di persone. Fino ad ora, però, la sua agenzia ha ricevuto fondi pari ad appena 230 milioni, mentre i campi di accoglienza già allestiti in Iraq sono in grado di ospitare non più di 50 mila persone. In previsione dello scenario che potrebbe presentarsi, per cercare di evitare l’esodo il governo iracheno ha lanciato migliaia di volantini su Mosul, invitando in maniera crudele i civili a restare nelle proprie case durante i combattimenti.Sempre gli esempi di operazioni anti-ISIS/DAESH, come quella condotta a Falluja, lasciano comunque pochi dubbi sull’esito dell’offensiva, sia in termini di vittime civili sia per la distruzione di abitazioni e infrastrutture. D’altra parte, media e governi coinvolti nelle manovre militari insistono da tempo sull’efferatezza degli uomini del “califfato”, per annientare i quali sarà perciò giustificata qualsiasi strage.
Mosul è la seconda città irachena per numero di abitanti e la sua popolazione è a maggioranza sunnita, anche se qui erano presenti consistenti minoranze sciite e cristiane. La sua caduta nelle mani di guerriglieri jihadisti provenienti dalla vicina Siria nel giugno del 2014 sconvolse il governo di Baghdad, il cui esercito, costruito e addestrato con l’appoggio americano, abbandonò le proprie postazioni praticamente senza opporre resistenza.
L’avanzata dell’ISIS/DAESH fu possibile anche grazie al favore iniziale di una parte dei residenti sunniti della città, ostili al governo centrale sciita. Proprio le persistenti divisioni settarie, che caratterizzano l’Iraq del dopo invasione USA, rischiano di aggiungere un altro motivo di preoccupazione per i civili di Mosul.
Le potenti milizie sciite che dovrebbero partecipare all’offensiva anti-ISIS/DAESH sono state infatti accusate di vari crimini nel corso delle precedenti operazioni in località a maggioranza sunnita. Torture, esecuzioni sommarie e rapimenti sono stati documentati in vari casi nelle città liberate dagli uomini del “califfato”, come ad esempio a Falluja.
Per cercare di evitare il ripetersi di questi episodi, il governo di Baghdad avrebbe deciso di tenere il più lontano possibile da Mosul le cosiddette Forze di Mobilitazione Popolare, di cui fanno parte decine di milizie armate in gran parte sciite.
Nella nuova battaglia contro il terrorismo islamico appena iniziata a Mosul c’è dunque da attendersi resoconti giornalistici e dichiarazioni ufficiali di governi occidentali e mediorientali complessivamente favorevoli all’operazione di riconquista della città. Come ricordato in precedenza, questa retorica contrasta con quella che sta accompagnando il tentativo di liberazione di Aleppo dalle forze di opposizione anti-Assad dominate dalla filiale siriana di al-Qaeda.La differenza tra le due operazioni, caratterizzate entrambe dall’estrema sofferenza dei civili, è che ad Aleppo i fondamentalisti che resistono nei quartieri orientali della città sono di fatto sostenuti dagli USA e dai loro alleati in un conflitto orchestrato per rovesciare un regime ostile e alleato di Russia e Iran.
A Mosul, invece, le forze estremiste che controllano la città sotto insegne diverse rappresentano una minaccia per la stabilità di un governo, come quello iracheno, che, nonostante l’avvicinamento in questi anni a Teheran, continua a essere una pedina fondamentale della strategia americana in Medio Oriente.
Così stando le cose, per quante atrocità saranno commesse dalle forze di “liberazione” nella città irachena nelle prossime settimane e, molto probabilmente, nei prossimi mesi, esse saranno puntualmente giustificate dalla propaganda ufficiale come necessari e inevitabili “danni collaterali”.
- Dettagli
- Scritto da Administrator
- Categoria principale: Articoli
- Categoria: Esteri
di Michele Paris
Quando Barack Obama vinse per la prima volta le elezioni presidenziali nel 2008 venne celebrato come il candidato del cambiamento, dopo otto anni di un amministrazione Bush dominata dai falchi “neo-con” e dai poteri forti americani. Oggi, una serie di e-mail rese pubbliche grazie a WikiLeaks rivelano come il nuovo gabinetto Democratico che si apprestava a insediarsi alla Casa Bianca fu quasi interamente selezionato ai vertici dell’industria finanziaria statunitense.
La rivelazione è scaturita da un messaggio inviato un mese prima del voto del novembre del 2008 dall’allora top manager di Citigroup, Michael Froman, a John Podesta, attualmente capo della campagna per la Casa Bianca di Hillary Clinton e in quel momento responsabile del processo di transizione alla presidenza degli Stati Uniti per il candidato Obama.
In questa e-mail, Froman sottopone a Podesta una lista di possibili candidati alla guida dei vari Dipartimenti (ministeri) in quella che sembrava una sempre più probabile amministrazione Obama. Ad un primo allegato con la lista dei “suggerimenti” per l’assegnazione degli incarichi da parte del futuro presidente, Froman aggiungeva altri due elenchi con i nomi di candidati di sesso femminile e appartenenti a minoranze etniche, anch’essi da nominare a posizioni nel nuovo governo, esaurendo in questo modo la portata “progressista” del primo presidente di colore della storia americana.
Dal 2013 Michael Froman è il Rappresentante per il Commercio dell’amministrazione Obama; presiede cioè alla politica commerciale di Washington e ha l’incarico di negoziare i trattati commerciali con gli altri paesi. Durante l’amministrazione Clinton, Froman aveva ricoperto varie posizioni al Dipartimento del Tesoro sotto la guida di Robert Rubin, il principale responsabile dell’ondata di provvedimenti che portarono alla deregolamentazione del settore finanziario.
Nel 2001, Froman seguì lo stesso Rubin a Citigroup per incassare i compensi per i servizi resi a Wall Street durante gli anni passati al governo. Secondo quanto riportato dalla stampa americana, Froman ricevette da Citigroup compensi per 4,7 milioni di dollari solo tra il gennaio 2008 e lo stesso mese dell’anno successivo, quando venne scelto da Obama come consigliere per gli “affari economici internazionali”.
Dei nomi fatti da Froman in base alle “raccomandazioni di varie fonti”, cioè dei vertici di Citigroup e probabilmente di altri colossi finanziari, una buona parte finì effettivamente per far parte dell’amministrazione Obama.Tra i “nominati” nella lista di Froman avrebbero assunto incarichi di governo: Roberto Gates (Difesa), già capo del Pentagono con Bush, Eric Holder (Giustizia), Janet Napolitano (Sicurezza Interna), Rahm Emanuel (Capo di Gabinetto), Peter Orszag (Bilancio), Arne Duncan (Istruzione), Eric Shinseki (Reduci), Kathleen Sebelius (Sanità), Susan Rice (Ambasciatrice ONU) e Melody Barnes (Consiglio per la Politica Interna).
Altri ancora sarebbero subentrati negli anni successivi alle prime scelte di Obama, come John Kerry (Dipartimento di Stato), Penny Pritzker (Commercio), Austan Golsbee (Consigliere per l’Economia), oppure furono dirottati a dipartimenti diversi da quelli consigliati da Citigroup, come Ken Salazar (Interni).
Per il dicastero-chiave del Tesoro, Froman faceva tre nomi: Robert Rubin e due suoi discepoli, Lawrence Summers, già segretario al Tesoro con Clinton tra il 1999 e il 2001, e Timothy Geithner, governatore della Federal Reserve di New York. Com’è noto, fu quest’ultimo ad assumere l’incarico dopo che nei mesi precedenti l’insediamento aveva svolto un ruolo cruciale nel salvataggio di Wall Street assieme al segretario al Tesoro di Bush, Henry Paulson. Summers, da parte sua, sarebbe invece diventato il capo dei Consiglieri Economici di Obama.
Il documento pubblicato da WikiLeaks nell’ambito delle e-mail di John Podesta, che stanno mostrando il vero volto della candidata alla presidenza Hillary Clinton, ha portato nuove prove su quali sono gli effettivi centri del potere negli Stati Uniti dietro la facciata di un processo apparentemente democratico.
Se l’influenza dei grandi interessi finanziari sulla politica di Washington sorprende ben poco, è interessante ricordare come le raccomandazioni del dirigente di Citigroup fossero state fatte nel pieno della crisi del 2008, provocata proprio dalle stesse grandi banche di Wall Street contro cui si scagliava la retorica di entrambi i principali partiti americani.
Anzi, Citigroup fu il maggiore beneficiario dei fondi messi a disposizione dal Congresso USA tramite il cosiddetto “Troubled Asset Relief Program” (TARP). Degli oltre 700 miliardi di dollari stanziati per Wall Street, la banca di Froman ne ricevette 45, in aggiunta a 300 miliardi a garanzia dei propri titoli tossici legati ai mutui “subprime”.Proprio Barack Obama svolse un ruolo determinante nel fare approvare il cosiddetto “bailout” delle banche americane, comprensibilmente avversato dalla popolazione e anche per questo inizialmente respinto dal Congresso. L’allora candidato Democratico alla Casa Bianca si assunse la responsabilità di sostenere pubblicamente il salvataggio pubblico dei giganti Wall Street, i cui rappresentanti stavano appunto manovrando per costruire la sua futura amministrazione.
Una futura amministrazione Obama che, infatti, avrebbe proseguito con l’implementazione del TARP, ma anche assicurato che nessuno dei grandi banchieri americani finisse incriminato né che venisse fissato un tetto ai compensi dei super-manager di quegli istituti salvati dal denaro dei contribuenti.
La rivelazione della mail di Michael Froman e del gabinetto creato grazie ai suggerimenti dei vertici di Citigroup è stata riportata solo da una manciata di testate negli Stati Uniti, mentre è stata ignorata dai principali giornali.
Il silenzio dei media che in larghissima misura sostengono Hillary Clinton è d’altra parte prevedibile, poiché le stesse manovre del 2008 sono con ogni probabilità in atto anche oggi dietro le quinte a favore della candidata preferita dai grandi interessi economici e finanziari americani.
- Dettagli
- Scritto da Administrator
- Categoria principale: Articoli
- Categoria: Esteri
di Fabrizio Casari
Alle parole non sono seguiti i fatti. Questa è, in estrema sintesi, la situazione in corso per quanto riguarda i rapporti tra Stati Uniti e Cuba. Grazie al silenzio mediatico che ha fatto seguito alla visita di Obama sull'isola, si è ingenuamente portati a pensare che il nodo gordiano delle sanzioni statunitensi contro L’Avana sia stato sciolto e che l'avvenuta normalizzazione delle relazioni diplomatiche sia stato solo un aspetto della normalizzazione generale nei rapporti tra i due paesi. Così non è. Certo, proseguono positivamente i colloqui bilaterali ma, nella sostanza, l’impianto criminogeno del blocco contro Cuba è vigente e, in alcuni casi, rafforzato.
Il ripristino delle relazioni diplomatiche, sebbene sia stato un fatto di proporzioni storiche - sostanzialmente l’ammissione statunitense di aver sbagliato grossolanamente più di 60 anni di rapporto con Cuba - non ha per ora innescato le conseguenze positive che alcuni speravano si producessero.
Parallelamente, si mantiene l’illegale ed illegittima occupazione di Guantanamo, in barba al riconoscimento dell'integrità territoriale di Cuba ed anche delle mancate promesse di Obama che da otto anni avrebbe dovuto chiudere il lager, che invece resta aperto. In sostanza, l’atteggiamento imperiale si conferma e il blocco economico e commerciale unilaterale, che dal 1962 colpisce Cuba, non solo resta intatto ma, addirittura, sotto certi aspetti si é persino rinforzato.
Il complesso legislativo e normativo che sottintende il blocco è complesso e, oggettivamente, è rimovibile solo con un voto del Parlamento statunitense, tanto alla Camera dei Rappresentanti come al Senato. E’ noto come la maggioranza nei due rami del Parlamento sia dei Repubblicani e questo potrebbe essere considerato il principale ostacolo ad una iniziativa parlamentare. Ma in realtà non è questo l’elemento decisivo, dal momento che una delle leggi peggiori contro Cuba, che hanno rafforzato ed esteso il blocco, è la Legge Torricelli, dal nome del deputato democratico che l’ha presentata.
Il Presidente Obama, che pure si è già espresso chiaramente affinché il Congresso volti pagina una volta per tutte ed abolisca il blocco, sembra aver rimosso dalla sua agenda il tema. Ma se il complesso di leggi che stabiliscono il blocco economico e commerciale contro Cuba può essere rimosso solo con un voto del Parlamento USA (e quindi dovranno darsi le condizioni politiche perché ciò avvenga) la sua efficacia concreta - che per Cuba significa danni enormi, soprattutto per quanto attiene alla salute - potrebbe essere ridotta enormemente con una serie di iniziative presidenziali che lo svuotino progressivamente, lasciandone a Congresso e Senato statunitensi il solo valore politico e ideologico.
Del resto la visita di Barak Obama ha di per sé già smontato un pezzo del blocco, ovvero quello diplomatico. Senza interpellare né il Congresso né il Senato, Obama ha deciso di assumere una iniziativa presidenziale riaprendo le relazioni diplomatiche con l’isola socialista. Potrebbe quindi, se lo volesse, con le prerogative presidenziali di cui dispone, assumere ulteriori iniziative che intacchino in profondità l’efficacia operativa del blocco, a partire almeno dall'estensione extraterritoriale dello stesso.
Perché nonostante la sospensione presidenziale di alcuni commi della legge Helms-Burton, vero e proprio concentrato di pirateria internazionale che estende al mondo intero la legislazione statunitense, le ricadute in termini di multe pesantissime alle organizzazioni finanziarie internazionali che operano con Cuba sono vigenti e complicano enormemente l’attività economica dell’isola.Idem dicasi per le società di import-export o per le compagnie di navigazione: queste ultime, ove attraccassero a Cuba, sarebbero inibite per sei mesi all’attracco nei porti statunitensi. Facile immaginare l’indisponibilità ad accollarsi una riduzione al lavoro in un mercato immenso come quello americano per aver lavorato con l’isola. Facile dunque comprendere come, per accedere a ciò a cui ogni altro paese accede a prezzi competitivi e condizioni di pagamento rateizzate, per Cuba si trasformi in costi immediati e proibitivi.
Ebbene, sia sotto il profilo dell’operatività finanziaria, come nell’ambito del commercio internazionale e nella liberazione del flusso turistico, per non dire dell’urgenza per quanto attiene a sanità ed alimentazione, Obama ha un ampio spettro di soluzioni per svuotare il blocco. Si tratta di volontà politica ed anche di coerenza.
E’ possibile da un lato ripristinare le relazioni politiche e diplomatiche con un Paese mentre dall’altro lo si continua a ritenere meritevole di sanzioni così dure? E’ coerente sedersi al tavolo dei negoziati con la premessa di dover azzerare 60 anni di errori mentre resta vigente un blocco che, ad ogni effetto, è un atto di guerra? Com’è possibile applicare verso paesi con i quali si è in pace e contro i quali si è in guerra le stesse sanzioni? E' ingiustificabile in nome del buon senso prima ancora che della decenza.
Un simile comportamento risulta illogico ed incoerente anche se si vuole prendere in esame la dimensione ideologica del confronto. Certo, Cuba è e continuerà ad essere un paese socialista. E allora? Con la Cina per Washington non c’è nessun elemento di condivisione ideologica e, anzi, il braccio di ferro strategico ed anche militare nel Pacifico sottopone a prove severe lo stesso clima di pace tra i due paesi; nonostante ciò la Cina non subisce nessuna sanzione ed anzi è il paese destinatario della “clausola di nazione favorita negli scambi” con gli Stati Uniti. L’Avana non pretende tanto, si accontenterebbe di un trattamento coerente con le norme che regolano il consesso internazionale.
Il governo cubano ha deciso di aprire una campagna d’informazione sullo stato dei rapporti con gli USA che culminerà con il voto alle Nazioni Unite del prossimo 26 Ottobre. Cuba, come ogni anno, presenterà all’Assemblea Generale una mozione per chiedere alla comunità internazionale di pronunciarsi contro il bloqueo, una misura genocida ed anacronistica che aggredisce nel profondo gli stessi diritti umani dei cubani e serve solo ad accontentare le pulsioni dell’ultradestra statunitense. Vedremo come voterà il rappresentante statunitense a New York. Come prassi, il voto vedrà l’adesione del mondo intero, fatta eccezione forse per Israele, che di fronte ai diritti umani di chiunque non viva nello Stato ebraico ha un insopprimibile istinto di rifiuto. Cuba discute, si confronta, media su ogni aspetto dell’agenda politica che compone i rapporti bilaterali e multilaterali. Ma, diversamente da quanto auspicano in Europa o negli Stati Uniti, non transige sui principi, né si siederà mai a discutere in assenza di un riconoscimento della sua identità politica e della propria sovranità nazionale. Non lo ha fatto per 58 anni, non vi sono ragioni per cui dovrebbe farlo ora, visto che proprio la sua resistenza ha determinato il riconoscimento statunitense degli errori commessi.
Le gravi privazioni che il popolo cubano patisce dal 1962 hanno nel blocco economico e commerciale la loro ragione. Un blocco che, se in assenza di relazioni era comunque ingiusto e genocida, diventa paradossale dopo la riapertura delle relazioni diplomatiche. Le sofferenze dei cubani non possono proseguire oltre. Spetta a Obama darsi da fare, passare dalle parole ai fatti. E dimostrare che l’accettazione di un errore serve soprattutto a non ripeterlo all’infinito.
- Dettagli
- Scritto da Administrator
- Categoria principale: Articoli
- Categoria: Esteri
di Mario Lombardo
Le notizie della guerra scatenata l’anno scorso dall’Arabia Saudita in Yemen sono tornate ad affacciarsi sui media di tutto il mondo in questi giorni dopo l’ennesima strage di civili commessa nel più povero dei paesi arabi dalle forze della “coalizione” guidata dal regime di Riyadh. Anche tra gli alleati dei sauditi, a cominciare dagli Stati Uniti, sta iniziando a diffondersi una certa preoccupazione per le conseguenze di un’avventura bellica che ha tutti i contorni di un colossale crimine di guerra.
Il doppio bombardamento effettuato sabato scorso su un funerale nella capitale yemenita, Sanaa, ha suscitato lo sdegno della comunità internazionale e un’ondata di manifestazioni di protesta nello stesso paese sotto attacco. L’incursione dell’aviazione saudita aveva provocato la morte di almeno 140 civili e il ferimento di altre 500 persone.
Impiegando una tattica raccapricciante a cui ricorrono spesso gli USA nell’operare gli attacchi con i droni in Pakistan, le forze di Riyadh hanno dapprima colpito la cerimonia, per poi tornare a bombardare lo stesso luogo una volta raggiunto dai soccorritori.
Alle proteste a Sanaa hanno partecipato decine di migliaia di yemeniti, infuriati non solo nei confronti dell’Arabia Saudita, ma anche degli alleati occidentali - USA, Gran Bretagna, Francia - che continuano a garantire supporto logistico e di intelligence alla monarchia wahabita nel conflitto in corso. La rabbia contro gli Stati Uniti è stata alimentata anche dalla diffusione di immagini di frammenti degli ordigni impiegati sabato, i quali riportavano codici che hanno rivelato la provenienza americana.
L’attacco di sabato aveva come obiettivo il ministro dell’Interno del governo dello Yemen guidato dalle forze ribelli “Houthi” sciite, contro cui combatte la “coalizione” saudita. Al di là dell’orrore per il massacro, in molti hanno fatto notare come il bombardamento possa risultare controproducente per Riyadh, visto che rischia di spingere un numero sempre maggiore di persone in Yemen a sostenere la resistenza Houthi.
L’Arabia Saudita era intervenuta militarmente in Yemen nella primavera del 2015 dopo la cacciata del presidente-fantoccio Abd Rabbuh Mansour Hadi. Quest’ultimo era stato eletto nel 2012 in un’elezione-farsa con un solo candidato e promossa da Washington e Riyadh per risolvere la crisi che aveva paralizzato il paese dopo le proteste esplose nell’ambito della cosiddetta “primavera araba”.
L’accordo prevedeva le dimissioni del presidente Ali Abdullah Saleh, a lungo utilizzato per i propri interessi dai due paesi con maggiore influenza sullo Yemen. Lo stesso Saleh e le fazioni delle forze armate del paese a lui fedeli si sarebbero poi schierate a fianco dei ribelli Houthi, a loro volta insorti contro il nuovo regime che aveva disatteso la promessa di integrarli nella gestione del potere.
L’intervento saudita ha anche implicazioni regionali, dal momento che Riyadh accusa gli Houthi di essere appoggiati dall’Iran, la cui influenza in Yemen sarebbe perciò intollerabile in un quadro di crescente ostilità tra le due principali potenze mediorientali.
Fin dall’inizio, la guerra in Yemen è stata caratterizzata da attacchi deliberati da parte dei sauditi contro obiettivi civili. Scuole, ospedali, mercati e altre strutture di nessuna importanza militare sono finiti sotto i bombardamenti, provocando ripetute stragi condannate dalle organizzazioni a difesa dei diritti umani, menzionate di sfuggita dai media e quasi sempre ignorate da quegli stessi governi occidentali che si dicono sconcertati dalle operazioni di Russia e Siria ad Aleppo.Oltre alle bombe, la popolazione yemenita ha dovuto subire le conseguenze di un crudele blocco navale imposto dall’Arabia Saudita che impedisce l’ingresso nel paese di cibo e medicinali. Infine, il virtuale dissolvimento dell’autorità civile in Yemen ha permesso all’organizzazione integralista al-Qaeda nella Penisola Arabica (AQAP), da tempo in cima alla lista dei nemici dell’Occidente e dei regimi arabi, di guadagnare terreno nel paese.
Con il procedere del conflitto aumenta anche il rischio di un coinvolgimento ancora maggiore di altre potenze, come gli stessi Stati Uniti. Lunedì, due missili provenienti dal territorio controllato dagli Houthi sono stati lanciati contro la nave da guerra americana USS Mason che opera al largo delle coste dello Yemen nello stretto di Bab el-Mandeb. I missili sono finiti in mare ma il lancio conferma non solo la persistente capacità offensiva dei “ribelli” dopo oltre un anno e mezzo di guerra, ma anche che questi ultimi considerano gli USA interamente complici dell’aggressione militare contro il loro paese per ristabilire il governo del deposto presidente Hadi.
Proprio gli Stati Uniti si trovano in una posizione estremamente delicata in relazione allo Yemen. Il Pentagono e la CIA continuano a garantire assistenza ai sauditi, mentre il Congresso e la Casa Bianca non intendono interrompere il flusso di armi destinate all’alleato.
Il coinvolgimento americano rischia però di diventare sempre più imbarazzante dopo i recenti attacchi sauditi. Tanto più che il Segretario Generale uscente delle Nazioni Unite, Ban Ki-Moon, ha chiesto un’indagine internazionale sull’attacco di sabato scorso, criticando l’atteggiamento del regime saudita, il quale aveva inizialmente negato di essere responsabile del massacro nonostante non vi siano altre forze aeree attive nei cieli dello Yemen.
Martedì, poi, anche l’Alto Commissario ONU per i Diritti Umani, Zeid Ra’ad Al Hussein, ha invocato un’indagine indipendente per crimini di guerra in Yemen, definendo “vergognoso” il bombardamento sul funerale a Sanaa.
Con l’aumentare delle pressioni internazionali, l’amministrazione Obama si è sentita in dovere di emettere almeno un comunicato relativamente critico nei confronti del regime saudita, assieme alla minaccia di “riconsiderare” l’appoggio ad esso assicurato nel conflitto in Yemen.
A Washington, d’altra parte, è in corso un dibattito interno sulla crisi in questo paese, con particolare attenzione alle possibili implicazioni dal punto di vista del diritto internazionale. Il governo americano teme cioè che la collaborazione con Riyadh nella guerra in Yemen possa portare ad accuse di crimini di guerra nei confronti dei vertici politici e militari di Washington.
La discussione nell’amministrazione Obama è stata raccontata da una esclusiva pubblicata lunedì dalla Reuters. Il lungo articolo evidenzia soprattutto l’ipocrisia del governo USA, preoccupato non tanto per i massacri di civili in Yemen, quanto di trovare un modo per continuare a conservare la partnership con l’Arabia Saudita nonostante i ripetuti crimini commessi dalla monarchia assoluta nella guerra in corso.I consiglieri legali del governo americano sembrano non avere raggiunto una conclusione definitiva sulle possibili conseguenze legali dell’appoggio alla guerra criminale di Riyadh in Yemen. Allo stesso tempo, la Reuters elenca una serie di iniziative che gli USA avrebbero preso per evitare che le bombe saudite colpiscano obiettivi civili, come ad esempio la consegna alle autorità del regno di elenchi di strutture ed edifici off-limits alle incursioni aeree.
Evidentemente, queste precauzioni non hanno avuto nessuna efficacia. Né le stragi di civili né il rischio che membri del governo o dei vertici militari americani possano essere processati per crimini di guerra hanno comunque ostacolato la fornitura di ingenti quantità di armi a Riyadh.
A partire dal marzo del 2015, mese di inizio dell’aggressione saudita, gli USA hanno garantito al regime armi per oltre 22 miliardi di dollari, tra cui una fornitura da 1,29 miliardi approvata dal Congresso di Washington nel novembre scorso e destinata specificatamente a rimpiazzare munizioni e pezzi di artiglieria utilizzati nel conflitto in Yemen.