- Dettagli
- Scritto da Administrator
- Categoria principale: Articoli
- Categoria: Esteri
di Michele Paris
A poche ore dalla conclusione del lunghissimo processo elettorale che porterà all’elezione del prossimo presidente degli Stati Uniti, il quadro politico americano si ritrova invischiato in una situazione di crisi come forse mai è accaduto nella storia di questo paese. La (relativamente) normale evoluzione delle campagne elettorali per la Casa Bianca è stata infatti stravolta quest’anno da due candidati profondamente screditati agli occhi dei potenziali elettori, mentre la loro stessa presenza sulle schede ha prodotto e, allo stesso tempo, è apparsa il risultato delle gravissime tensioni che attraversano la classe dirigente di un “impero” entrato con ogni probabilità in una fase di declino irreversibile.
La vigilia del voto ha così rispecchiato il travaglio della classe politica americana e le contraddizioni scaturite dai timori di non essere più in grado di mantenere in piedi la facciata di legittimità democratica di un sistema che non ha praticamente più nessun contatto con la realtà in cui vivono decine o centinaia di milioni di persone.
L’ultima scossa è giunta nel fine settimana, ancora una volta da un organo ufficialmente a-politico. Il direttore dell’FBI, James Comey, nemmeno dieci giorni dopo essere intervenuto nel dibattito delle presidenziali, annunciando la riapertura del procedimento d’indagine ai danni di Hillary Clinton per le note e-mail del Dipartimento di Stato, domenica ha operato una nuova marcia indietro.
Comey ha ancora una volta indirizzato una lettera alle principali commissioni del Congresso per dichiarare questa volta che nulla, nel nuovo materiale relativo all’indagine, può far pensare a elementi che giustifichino un’ipotetica incriminazione della candidata Democratica alla Casa Bianca. Il passo indietro del numero uno della polizia federale americana è l’ennesima farsa di questa campagna elettorale e, almeno in teoria, riporta le lancette dell’orologio della vicenda legale che ha coinvolto l’ex segretario di Stato allo scorso mese di luglio, quando lo stesso Comey aveva escluso la presenza di materiale incriminante.
Com’è noto, il caso ruota attorno all’utilizzo, da parte di Hillary, di un server di posta elettronica privato al posto di quello governativo per la propria corrispondenza durante la permanenza al dipartimento di Stato. Con questo account e in violazione della legge, l’ex segretario aveva scambiato mail personali e, soprattutto, ufficiali, esponendo potenzialmente materiale riservato ad attacchi informatici e sottraendo lo stesso alla conservazione per essere reso pubblico in futuro.
Ancora peggio, come ha rivelato recentemente WikiLeaks, Hillary e il suo team avevano eliminato migliaia di messaggi, a loro dire per errore e comunque in gran parte di natura personale. Secondo molti, queste mail contenevano invece materiale esplosivo, tra cui le prove della concessione di favori a grandi interessi economici e a governi stranieri, i quali a loro volta avevano donato somme ingenti alla famiglia Clinton, principalmente attraverso l’ente “filantropico” Clinton Foundation.
Dopo l’archiviazione annunciata la scorsa estate, tra mille polemiche l’FBI aveva riaperto il caso a meno di due settimane dalle elezioni presidenziali in seguito al reperimento di migliaia di nuove e-mail riconducibili alla Clinton nel corso di indagini apparentemente non collegate, relative cioè all’invio di messaggi “espliciti” a una 15enne da parte dell’ex deputato Democratico di New York, Anthony Weiner, già consorte dell’assistente di Hillary, Huma Abedin.Sui giornali americani e sui social media è subito scattata una discussione sulle motivazioni del comportamento del direttore dell’FBI. Al di là della reale possibilità di analizzare il contenuto di qualcosa come 650 mila mail in una settimana, la più recente decisione di Comey sembra riflettere ancora una volta le divisioni e le tensioni che caratterizzano la sua agenzia, così come l’intera classe dirigente USA, di fronte all’imminente elezione alla presidenza di uno tra Hillary Clinton e Donald Trump.
Se il discredito e i guai legali della candidata Democratica, che rischiano di compromettere da subito il suo mandato e di indebolire ancor più la posizione internazionale degli Stati Uniti, rendono credibile il fatto che una parte degli ambienti di potere americani abbia cercato di riportare in corsa Trump, Hillary rimane di gran lunga il cavallo preferito dall’establishment.
In questa prospettiva, l’uscita di dieci giorni fa di Comey poteva essere un modo per placare le voci, ben documentate dai media, che all’interno dell’FBI chiedevano un’azione più incisiva contro la ex first lady. Che poi tutto si sia risolto, almeno per il momento, in un nulla di fatto può dipendere dall’autorità che esercita sull’FBI il dipartimento di Giustizia, ovvero un organo politico controllato da un’amministrazione Democratica.
Gli ultimi sviluppi della vicenda Clinton potrebbero comunque avere un’influenza tutt’al più marginale sulle intenzioni di voto di elettori in buona parte scoraggiati nei confronti di tutto ciò che emana da Washington e ormai assuefatti a una campagna elettorale fatta di scandali e insulti.
Piuttosto, l’ennesimo colpo di scena – vero o finto che sia – sembra avere accentuato la percezione di politici e commentatori del danno che le candidature di Hillary e Trump, così come i loro guai, stanno provocando all’immagine e alla credibilità internazionale degli Stati Uniti.
Vari editoriali apparsi sulle principali testate americane nei giorni scorsi hanno evidenziato queste ansie e, in particolare, la presa d’atto che, a questo punto, chiunque conquisti la presidenza gli Stati Uniti sono destinati ad andare incontro a un periodo di grave instabilità. Ciò, a sua volta, rischia di indebolire la spinta propulsiva nelle aree cruciali del pianeta che viene considerata fondamentale per rimediare alla costante perdita di influenza di Washington di fronte all’avanzata di paesi come Russia, Iran e, soprattutto, Cina.
Sia pure in apprensione per queste ragioni, lo schieramento politico e mediatico “liberal” ha dato l’impressione nell’immediata vigilia del voto di avere tratto un respiro di sollievo, credendo infatti di avere scongiurato il pericolo di una vittoria di Donald Trump. Se i sondaggi commissionati dalle testate “mainstream” americane vanno presi con le dovute precauzioni, le indagini degli ultimi giorni e ancor prima della più recente decisione favorevole alla Clinton del direttore dell’FBI indicano una tenuta della candidata Democratica.Per quanto riguarda il dato nazionale, quest’ultima continua ad avere un margine di vantaggio, anche se ristretto. La competizione si deciderà tuttavia in una manciata di stati in bilico, nella maggior parte dei quali, allo stesso modo, Hillary risulta in vantaggio nonostante il recupero di Trump.
Le ultimissime apparizioni dei due candidati hanno così rispecchiato le loro priorità. Lunedì, Trump è stato impegnato addirittura in cinque stati (Florida, North Carolina, Pennsylvania, New Hampshire e Michigan), mentre la favorita per la Casa Bianca si è limitata a tre stati tra quelli decisivi: North Carolina, Pennsylvania e Michigan.
Hillary, infine, ha cercato di conservare il vantaggio attribuitole dai sondaggi reclutando varie celebrità per convincere gli elettori ancora indecisi a votare per lei e a impedire una vittoria di Trump. Un eventuale ingresso alla Casa Bianca del miliardario di New York, che segnerebbe in effetti un drastico spostamento a destra del baricentro politico americano, viene dipinto dai sostenitori di Hillary come un evento catastrofico, ma questa strategia serve più che altro a nascondere la realtà di una presidenza Clinton che lascia intravedere conseguenze ugualmente disastrose, se non addirittura più gravi, soprattutto in merito a una più che probabile accelerazione dell’intervento degli USA nei principali scenari di crisi internazionali.
- Dettagli
- Scritto da Administrator
- Categoria principale: Articoli
- Categoria: Esteri
di Michele Paris
Il governo Conservatore britannico del primo ministro, Theresa May, ha dovuto incassare un colpo pesante nella giornata di giovedì dopo che l’Alta Corte di Londra ha attribuito al Parlamento il potere di far scattare la cosiddetta “Brexit”. Downing Street aveva infatti annunciato che sarebbe stato invece il governo a invocare entro la fine di marzo l’articolo 50 del trattato dell’Unione Europea, avviando in autonomia le procedure di sganciamento da Bruxelles.
Come minimo, la decisione letta dal “Lord Chief Justice”, Lord Thomas, rallenterà l’uscita della Gran Bretagna dall’UE e mette in serio imbarazzo il gabinetto May, dal momento che la premier aveva cercato di evitare il coinvolgimento di un Parlamento a maggioranza contrario alla “Brexit”.
Theresa May e i consulenti legali del governo ritenevano ci fossero le condizioni per esercitare la decisione esclusiva sull’avvio della “Brexit” da parte dell’Esecutivo visto che la questione era passata attraverso un voto popolare. L’Alta Corte, al contrario, ha stabilito che “la regola fondamentale della Costituzione [non scritta] del Regno Unito consiste nella sovranità del Parlamento”, il quale dovrà così esprimersi sulla cancellazione della legge del 1972 che ratificò l’ingresso di Londra nell’Unione Europea (“European Communities Act”).
Il governo Conservatore, per bocca del ministro per il Commercio Estero Liam Fox, si è detto deluso dalla sentenza, ma ha confermato la determinazione “nel rispettare il risultato del referendum” e annunciato ricorso alla Corte Suprema. Theresa May non ha invece parlato pubblicamente, ma lunedì prossimo, dal momento che sarà in visita in India, invierà un proprio ministro alla Camera dei Comuni per leggere una dichiarazione ufficiale.
Il ricorso dell’Esecutivo verrà preso in considerazione a partire dal prossimo 7 dicembre, ma se la Corte Suprema dovesse confermare la decisione di giovedì la crisi politica innescata dalla “Brexit” rischia di aggravarsi ulteriormente.
Politici e commentatori britannici assicurano comunque che il Parlamento non potrà che confermare il voto del referendum. Tuttavia, la poca chiarezza sulle procedure che dovrebbero innescare la “Brexit” rende incerti i prossimi sviluppi e il Parlamento potrebbe inoltre imporre delle condizioni per la conduzione delle trattative con Bruxelles, principalmente per ridurne l’impatto negativo, limitando così gli spazi di manovra del governo.
Al momento non è nemmeno chiaro se la Camera dei Comuni e quella dei Lord voteranno con un semplice sì o un no oppure, complicando gli scenari, se sarà necessaria l’approvazione di una legge ad hoc.Nella più clamorosa delle ipotesi, il Parlamento di Londra potrebbe addirittura bloccare la “Brexit”, mentre in molti ritengono possibile che il protrarsi dello scontro politico possa provocare elezioni anticipate nei prossimi mesi. Per il momento, i leader che si erano schierati per la permanenza della Gran Bretagna nell’Unione hanno soltanto evidenziato come il verdetto dell’Alta Corte rappresenti un successo per la democrazia, visto che sanziona l’intervento del Parlamento nella “Brexit”
Il numero uno dei Laburisti, Jeremy Corbyn, e quello dei Liberal Democratici, Tim Farron, hanno poi invitato il governo a presentare al più presto al Parlamento i termini con cui intende negoziare con Bruxelles l’uscita dall’UE.
Una delle principali forze dietro alla “Brexit”, Nigel Farage, del partito per l’Indipendenza del Regno Unito (UKIP) di estrema destra, ha invece prospettato un possibile “tradimento” del voto popolare attraverso un rinvio o una marcia indietro sull’invocazione dell’articolo 50. Farage, in maniera inquietante, ha lasciato intendere che potrebbero esserci conseguenze molto gravi se ciò dovesse accadere, mettendo in guardia dal “livello di rabbia popolare” che verrebbe provocata.
La dichiarazione della premier May sulla decisione del governo di far scattare le condizioni previste dall’articolo 50, oltre ad avere toccato un tasto delicato in relazione alle prerogative dell’esecutivo e del Parlamento, aveva suscitato i timori di quella parte della classe dirigente britannica che vede con apprensione l’uscita dall’Unione senza la salvaguardia di alcune condizioni favorevoli a Londra, a cominciare dall’accesso al mercato unico europeo.
Ciò è vero in particolare per l’industria finanziaria, come conferma anche l’identità delle forze dietro alla causa legale che ha portato alla sentenza di giovedì dell’Alta Corte.
Ad esempio, una delle protagoniste della vicenda è la proprietaria di un fondo di investimenti, Gina Miller, la quale, con il marito, ha messo assieme nella “City” una fortuna da svariate decine di milioni di sterline.
Anche alcuni studi legali che si sono occupati del caso operano solitamente nel settore bancario e finanziario. Ciò aiuta a capire come le pretese di volere rendere più democratico il processo di uscita dall’UE con il coinvolgimento del Parlamento di Londra nascondano in realtà interessi di ben altro genere.Il business britannico che ha beneficiato dell’appartenenza della Gran Bretagna all’Unione, nel caso non riuscisse a bloccare la “Brexit”, intende cioè mantenere condizioni favorevoli anche dopo l’uscita, puntando per questo sull’intervento del Parlamento, i cui membri erano in maggioranza schierati per il “Remain”.
A dare un’idea delle turbolenze provocate dal voto sulla “Brexit” è infine l’andamento della sterlina. La moneta britannica aveva perso circa il 20% sul dollaro e il 15% sull’euro a partire dal referendum, con punte negative toccate dopo l’annuncio di Theresa May che a far scattare l’articolo 50 sarebbe stato il governo.
Soltanto giovedì, invece, la sterlina ha recuperato quasi l’1.5% sul dollaro e potrebbe proseguire nel trend positivo se la sentenza dell’Alta Corte dovesse essere confermata dalla Corte Suprema di qui a poche settimane.
- Dettagli
- Scritto da Administrator
- Categoria principale: Articoli
- Categoria: Esteri
di Mario Lombardo
La sfilata di leader asiatici in Cina sta proseguendo questa settimana con la visita del primo ministro della Malaysia, Najib Razak, giunto martedì a Pechino con l’intenzione di rafforzare i legami non solo economici tra i due paesi. Come il leader che l’aveva preceduto, il presidente filippino Rodrigo Duterte, Najib ha avuto parole di condanna nei confronti dell’Occidente e, in particolare anche se in maniera velata, degli Stati Uniti, lasciando intendere come anche il suo paese possa operare nel prossimo futuro un ribaltamento delle proprie priorità strategiche sotto la spinta di molteplici fattori.
I titoli dei giornali e delle agenzie di stampa di tutto il mondo hanno messo in guardia martedì dalla nuova minaccia che potrebbe incombere sulla “svolta” asiatica dell’amministrazione Obama in seguito a una dichiarazione di Najib, riportata dalla stampa cinese, nella quale invitava “le ex potenze coloniali a evitare di dare lezioni su come condurre gli affari interni ai paesi che in passato sono stati da loro sfruttati”.
Anche se la Malaysia era una colonia britannica, il riferimento del premier è stato principalmente agli Stati Uniti, peraltro ex potenza coloniale delle vicine Filippine. Najib, inoltre, in un editoriale da lui scritto per il giornale governativo China Daily ha celebrato lo stato e le prospettive delle relazioni con la Cina. L’articolo, ampiamente citato dai media internazionali, parla ad esempio di “una nuova fase” nei rapporti bilaterali, ma anche dei “nuovi livelli raggiunti dalla cooperazione militare”, di “chiare sinergie” e di un “destino comune” tra Pechino e Kuala Lumpur.
L’incontro di Najib nella giornata di martedì con il suo omologo cinese, Li Keqiang, a cui seguirà quello di giovedì col presidente Xi Jinping, ha subito prodotto più di dieci accordi bilaterali nell’ambito economico, della difesa e in altri settori. Una delle ragioni della trasferta cinese di Najib è legata alla necessità di rilanciare l’economia malese, colpita dal crollo delle quotazioni petrolifere e da un debito pubblico in rapida ascesa. I principali accordi già siglati a Pechino riguardano infatti progetti di infrastrutture da costruire in Malaysia, tra cui quello relativo a una linea ferroviaria ad alta velocità che dovrebbe collegare Singapore alla Cina sud-occidentale.
Gli aspetti strategici dalle implicazioni forse ancora più importanti del viaggio di Najib in Cina hanno però a che fare con la cooperazione militare e la risoluzione delle dispute territoriali e marittime nel Mar Cinese Meridionale. In merito a entrambe le questioni, gli Stati Uniti esercitano da anni forti pressioni sui paesi del sud-est asiatico con lo scopo di isolare la Cina, soprattutto se questi ultimi sono alleati di Washington.
In ambito militare, Pechino e Kuala Lumpur hanno siglato un “memorandum d’intesa” che, secondo il vice-ministro degli Esteri cinese, Liu Zhenmin, riguarderà in particolare il settore “navale”. In fase di contrattazione vi sono poi contratti d’acquisto di equipaggiamenti militari, tra cui 4 navi da guerra di costruzione cinese.
Come ha spiegato lo stesso Zhenmin, la cooperazione in ambito navale si ricollega alla questione del Mar Cinese Meridionale, dove i due paesi si impegnano appunto a “garantire pace e stabilità” e a “rafforzare la fiducia reciproca”.
Come altri paesi in Asia sud-orientale, a cominciare da Filippine e Vietnam, la Malaysia è al centro di dispute territoriali nel Mar Cinese Meridionale, anche se i toni di Kuala Lumpur nei confronti di Pechino sono stati finora molto più contenuti rispetto ai vicini. In Cina, ad ogni modo, Najib sembra avere sposato interamente la proposta cinese per la risoluzione delle contese, ovvero il dialogo su base “bilaterale”.
Quest’ultima è esattamente la formula che gli Stati Uniti intendono boicottare, mentre da tempo cercano di favorire l’allargamento della discussione sul Mar Cinese all’ambito regionale, introducendo, senza troppo successo, la questione nell’agenda di organi come l’Associazione delle Nazioni del Sud-Est Asiatico (ASEAN). In questo modo, gli USA puntano a impedire alla Cina di negoziare da una posizione di forza, come nel caso di colloqui bilaterali con paesi più piccoli, e a creare l’impressione che vi sia una certa unità di intenti a livello regionale nel condannare le presunte prevaricazioni di Pechino nelle acque contese.
Se i contenuti della visita di Najib Razak in Cina non sono apparsi finora preoccupanti come quelli che avevano caratterizzato la trasferta a Pechino del presidente delle Filippine, Rodrigo Duterte, l’atteggiamento del leader malese viene osservato con uguale ansia a Washington proprio perché si tratta del secondo episodio in due settimane dalle implicazioni potenzialmente disastrose per la strategia asiatica americana.
Anzi, proprio l’annuncio di Duterte della “separazione” dagli USA da parte delle Filippine, vale a dire uno degli alleati più solidi di Washington nella regione, può avere contribuito al cambio di prospettiva di Najib. Molti commentatori avevano d’altra parte considerato la rottura di Manila, sia pure non ancora consumata a livello pratico, come l’inizio della fine dei sogni egemonici in funzione anti-cinese degli Stati Uniti in Estremo Oriente.
La progressiva deriva cinese, anche se in molti casi parziale o soltanto in fase poco più che embrionale, che si sta registrando in molti paesi asiatici con rapporti storicamente solidi con gli Stati Uniti è dovuta in primo luogo proprio al declino della prima potenza economica del pianeta e, di riflesso, all’ascesa della Cina e alle opportunità che essa offre ai potenziali partner.In molti casi, va detto, questo processo non comporta un distacco completo da Washington né, tantomeno, un abbraccio totale e incondizionato con Pechino. Paesi come le Filippine o la Thailandia, ma anche la stessa Malaysia, intendono piuttosto mantenere un rapporto di equilibrio con entrambe le potenze, nel tentativo di sfruttare i benefici che possono derivare da relazioni cordiali con queste ultime.
Questa strategia si sta però trasformando sempre più in una scommessa, dal momento che la crescente rivalità in ambito strategico, commerciale e militare tra Cina e Stati Uniti rende complicate le politiche improntate all’equidistanza. Washington, in particolare, chiede di fatto un allineamento totale, o quasi, ai propri interessi in Asia, lasciando ai propri interlocutori la difficile scelta di rinunciare ai benefici offerti da Pechino in cambio del mantenimento di un’alleanza strategica con gli USA con sempre meno vantaggi dal punto di vista pratico.
Per quanto riguarda il primo ministro della Malaysia, le sue aperture alla Cina sono anche la conseguenza delle difficoltà che sta incontrando sul fronte interno e dei guai legali in alcuni paesi, tra cui proprio gli Stati Uniti, derivanti dallo scandalo del colosso pubblico 1MDB. Da questa compagnia, impegnata in progetti per lo “sviluppo strategico” della Malaysia, sarebbero transitati e spariti fondi per centinaia di milioni di dollari, poi riciclati all’estero, di cui pare abbiano beneficato lo stesso Najib e i suoi famigliari.
I giornali occidentali, tra cui in particolare il Wall Street Journal, hanno condotto indagini approfondite sulla vicenda, fino a che, lo scorso mese di luglio, il dipartimento di Giustizia americano ha aperto un’indagine ufficiale e sequestrato beni per un valore di circa un miliardo di dollari acquistati da uomini vicini a Najib con fondi sottratti all’1MDB.
Questa iniziativa, dalle ovvie implicazioni politiche e strategiche, ha inasprito i rapporti tra gli USA e il governo malese di Najib, il quale sul fronte interno deve inoltre fronteggiare l’accesa opposizione di una parte del suo partito (Organizzazione Nazionale dei Malesi Uniti, UMNO). L’indagine americana si innesta tuttavia su una situazione già segnata dal progressivo intensificarsi dei rapporti tra Pechino e Kuala Lumpur, confermato ad esempio dal fatto che il principale partner commerciale della Cina tra i paesi ASEAN è proprio la Malaysia.
Complessivamente, gli scambi tra i due paesi hanno raggiunto i 106 miliardi di dollari nel 2013, inferiori in Asia solo a quelli tra Cina e Giappone e tra Cina e Corea del Sud. Anche in ambito militare, l’intesa sottoscritta questa settimana a Pechino non è una novità assoluta, come dimostrano le prime esercitazioni congiunte tenute tra i militari dei due paesi nel 2015.
Ciononostante, almeno finora l’alleanza tra USA e il governo malese non aveva mostrato segni particolari di deterioramento. Il presidente americano Obama era stato ad esempio protagonista di una visita dai toni amichevoli in Malysia nel novembre dello scorso anno, mentre lo stesso inquilino della Casa Bianca aveva di fatto appoggiato Najib dopo le elezioni del 2013, caratterizzate dalle accuse di brogli da parte dell’opposizione. Il premier malese, da parte sua, aveva tra l’altro appoggiato il trattato di libero scambio trans-pacifico (TTP) promosso dagli Stati Uniti, di cui il suo paese fa parte.Come dimostra la già ricordata causa legale avviata negli USA, è possibile che Washington consideri Najib Razak un leader non più affidabile, a causa sia del suo corteggiamento di Pechino sia del discredito causato dallo scandalo dei fondi dell’1MDB. Oltre a ciò, va ricordato come negli ambienti finanziari occidentali ci sia sempre maggiore frustrazione per l’incapacità del governo di Najib di adottare provvedimenti che limitino la corruzione e il clientelismo, su cui si basa il potere dell’UMNO, e che aprano ulteriormente il paese del sud-est asiatico agli interessi del capitale internazionale.
- Dettagli
- Scritto da Administrator
- Categoria principale: Articoli
- Categoria: Esteri
di Mario Lombardo
Dopo ben due anni e mezzo di vuoto al vertice dello stato, il parlamento del Libano è riuscito finalmente a eleggere un nuovo presidente, mettendo fine a uno stallo politico che aveva aggiunto ulteriori incertezze a una situazione già estremamente delicata a causa del conflitto nella vicina Siria. Il nuovo capo dello stato è l’81enne ex generale ed ex primo ministro, Michel Aoun, cristiano maronita del Movimento Patriottico Libero e alleato di Hezbollah.
Nonostante la vicinanza del neo-presidente al partito-movimento sciita, la sua elezione era stata promossa in maniera decisiva dal leader del principale partito libanese sunnita (Movimento il Futuro), Saad Hariri, figlio dell’assassinato ex primo ministro, Rafik Hariri. Il recente appoggio di Hariri ad Aoun aveva permesso di sbloccare la situazione dopo quasi quaranta convocazioni del parlamento andate a vuoto a partire dalla fine del mandato di Michel Suleiman nel maggio del 2014.
Alla prima votazione in aula, Aoun ha mancato i due terzi dei consensi dei deputati, necessari per essere eletto presidente, ma al secondo tentativo, quando è sufficiente la maggioranza semplice, dopo alcuni problemi procedurali ha ottenuto 83 voti a favore, cioè 18 in più della soglia minima prevista.
La paralisi politica in Libano era dovuta principalmente all’impossibilità delle varie fazioni politiche, schierate lungo linee settarie, di trovare un’intesa sul nome del nuovo presidente, il quale secondo gli accordi presi al termine della guerra civile deve essere di fede cristiana. Sulla crisi politica libanese aveva influito il fatto che i diversi partiti si erano schierati su posizioni opposte in relazione alla guerra in Siria, acuendo ulteriormente le divisioni nel paese.
Già sul finire dello scorso anno, Hariri aveva tentato di rompere l’impasse appoggiando pubblicamente un altro alleato di Hezbollah, il leader del piccolo partito cristiano Movimento Marada, Suleiman Franjieh, ritenuto molto vicino al presidente siriano, Bashar al-Assad.
Quell’esperimento, già visto da molti come un clamoroso voltafaccia di Hariri nei confronti della comunità sunnita e del regime con la maggiore influenza su quest’ultima, l’Arabia Saudita, era però fallito dopo che Hezbollah aveva insistito sulla candidatura a presidente di Michel Aoun.
Aoun incontrava da parte sua l’opposizione anche di leader della stessa coalizione di cui fa parte, l’Alleanza 8 Marzo, come il presidente del parlamento, lo sciita Nabih Berri, del Movimento Amal. Contro Aoun erano schierate inoltre anche alcune fazioni cristiane affiliate all’altra principale coalizione libanese, l’Alleanza 14 Marzo guidata da Hariri, a cominciare dai Falangisti del Partito Kataeb di Samy Gemayel. A complicare ulteriormente il quadro, già alcuni mesi fa Aoun aveva invece trovato l’appoggio del rivale Samir Geagea, leader delle Forze Libanesi cristiane, anch’esse parte dell’Alleanza 14 Marzo.L’accordo che ha garantito a Michel Aoun l’ascesa alla presidenza prevede che la carica di primo ministro, riservata a un sunnita, sia assegnata a Saad Hariri. Quest’ultimo era già stato a capo del governo tra il 2009 e il 2011 ma era stato costretto alle dimissioni in seguito al ritiro della fiducia di Hezbollah a causa delle tensioni politiche provocate dalle indagini del tribunale internazionale sulla morte di Rafik Hariri e il coinvolgimento in esse di esponenti del “Partito di Dio”.
Aoun rimane in ogni caso una figura controversa in Libano. Da combattente contro l’invasione siriana, che gli sarebbe costata un esilio durato 15 anni, Aoun si è trasformato in alleato di Hezbollah e delle forze più vicine a Damasco nel suo paese. Proprio nella capitale della Siria, Aoun si recò in una storica visita nel 2009 e cinque anni più tardi da un presidente Assad già da tempo invischiato in un sanguinoso conflitto sul fronte interno ottenne l’appoggio per la corsa alla presidenza del Libano.
L’interesse dei media libanesi e non solo si sta concentrando però sulla decisione di Hariri di appoggiare quello che veniva considerato un suo nemico, tanto più alleato di Hezbollah. La prima e più probabile ipotesi ha a che fare con i timori, non solo del leader sunnita, per lo sprofondare del Libano in una crisi politica che potrebbe avere conseguenze esplosive alla luce della già precaria situazione prodotta dal conflitto siriano e dall’escalation di violenze settarie in Medio Oriente.
In molti spiegano invece le mosse dell’ex e futuro premier libanese almeno parzialmente con i guai del suo impero economico nel campo delle costruzioni in Arabia Saudita, dove ha vissuto gran parte degli ultimi anni. Il crollo delle quotazioni del petrolio ha costretto il regime di Riyadh a ridurre le spese in molti ambiti, tra cui quello edilizio, e ciò ha colpito pesantemente gli interessi di Hariri, poiché la sua compagnia aveva ingenti contratti d’appalto pubblici in Arabia Saudita.
Al possibile deteriorarsi dei rapporti tra Hariri e la monarchia saudita va aggiunta di riflesso la calante popolarità dell’ex premier in Libano, il quale sembrava addirittura sul punto di essere rimosso dalla leadership del suo partito e della coalizione di cui fa parte. La decisione di appoggiare Michel Aoun sarebbe stata perciò il tentativo di riconquistare il centro della scena politica libanese.L’elezione di un nuovo presidente pienamente appoggiato da Hezbollah é una sconfitta per l’Arabia Saudita e una vittoria per l’Iran. I regnanti di Riyadh si trovano d’altra parte impegnati su più fronti in Medio Oriente, dalla Siria allo Yemen all’Iran, e hanno mostrato nell’ultimo periodo un interesse relativamente minore per il Libano. Clamorosa in questo senso fu ad esempio la cancellazione nel mese di febbraio di aiuti per 4 miliardi di dollari destinati alle forze armate e ai servizi di sicurezza libanesi.
Anche dopo il passo avanti fatto lunedì nella risoluzione della crisi politica, la sorte del Libano dipenderà come sempre anche dalle vicende mediorientali del prossimo futuro e, allo stesso tempo, ciò che accade nel “paese dei cedri” avrà riflessi oltre i suoi confini, vista l’influenza che su di esso hanno le varie potenze regionali.
Aoun e il premier in pectore Hariri, da parte loro, avranno di fronte un percorso molto stretto e, oltre a mediare i vari interessi che confluiscono sul Libano, saranno chiamati ad affrontare questioni delicate e di difficilissima soluzione su un fronte domestico segnato dalle divisioni settarie: dalla riforma elettorale a quella dell’intero quadro legislativo, dal rilancio di un’economia cronicamente stagnante all’adozione di una posizione quanto più possibile unitaria e coerente sulla guerra in Siria.
- Dettagli
- Scritto da Administrator
- Categoria principale: Articoli
- Categoria: Esteri
di Michele Paris
Con una mossa probabilmente senza precedenti, a poco più di una settimana dalle elezioni presidenziali americane l’FBI ha comunicato al Congresso di Washington la riapertura delle indagini sulla candidata Democratica, Hillary Clinton, relativamente al caso dell’utilizzo di un server di posta elettronica privato quando ricopriva la carica di segretario di Stato nell’amministrazione Obama.
La decisione, salutata con soddisfazione da Donald Trump, arriva alcuni mesi dopo che il direttore della polizia federale USA, James Comey, aveva dichiarato che il caso era stato chiuso senza incriminazioni, in quanto la condotta di Hillary era stata sì imprudente ma non costituiva nessun reato.
Come aveva rivelato per la prima volta il New York Times nella primavera del 2015, Hillary aveva scambiato la propria corrispondenza al dipartimento di Stato senza utilizzare l’account governativo assegnatole, come previsto dalla legge, potenzialmente esponendo materiale riservato ad attacchi informatici e sottraendo lo stesso alla conservazione per essere reso pubblico in futuro.
Comey ha indirizzato venerdì una lettera a otto commissioni del Congresso, informandole di come l’FBI sia venuto a conoscenza di migliaia di nuove e-mail riconducibili forse alla Clinton nel corso delle indagini su un altro caso, relativo al presunto invio di messaggi “espliciti” a una 15enne da parte dell’ex deputato Democratico di New York, Anthony Weiner, ex marito dell’assistente di Hillary, Huma Abedin. Quest’ultima è una fedelissima dell’ex segretario di Stato ed è da tempo indicata da molti come il possibile prossimo capo di Gabinetto alla Casa Bianca.
Oltre che per il tempismo, l’iniziativa del capo dell’FBI è estremamente dubbia perché è stata presa ancora prima che le nuove e-mail fossero esaminate e fornissero prove a carico della Clinton. Comey ha scritto infatti al Congresso che “gli investigatori [dell’FBI] dovranno verificare se queste e-mail contengono informazioni classificate”, mentre al momento non è possibile stabilire “se questo materiale è significativo”.
Per la stampa USA, è inoltre piuttosto insolito anche il fatto che l’FBI dia notizia in anticipo al Congresso della possibile riapertura di un’indagine, ma Comey si è giustificato sostenendo che la mossa è stata fatta perché allo stesso organo legislativo aveva comunicato nel mese di luglio l’archiviazione del caso sulle e-mail di Hillary Clinton.Per innumerevoli ragioni, la decisione del numero uno del “Bureau” non può che avere implicazioni politiche, la cui gravità è evidente malgrado sia difficile stabilirne con certezza le motivazioni. Comprensibilmente, lo staff di Hillary e la stessa candidata hanno reagito in maniera dura all’annuncio dell’FBI, chiedendo in primo luogo al direttore Comey di chiarire al più presto la natura del materiale in esame e se vi siano documenti legati al caso già archiviato.
La decisione dell’FBI dimostra comunque come all’interno della classe dirigente degli Stati Uniti continuino a esserci profonde divisioni e pressioni contrapposte in reazione alle scosse prodotte dalla crisi politica in cui è precipitato il paese dopo la conquista della nomination per la Casa Bianca di due candidati ampiamente screditati e visti con ostilità dalla grande maggioranza della popolazione.
Le diverse posizioni che animano ad esempio l’agenzia federale di polizia e di intelligence diretta da James Comey sono emerse dai racconti dei giornali americani in questi giorni. Il Dipartimento di Giustizia, da cui dipende l’FBI, avrebbe avvertito il direttore della pericolosità dell’annuncio, dal momento che esso viola la tradizionale politica di evitare iniziative che possano influenzare elezioni imminenti. Comey avrebbe deciso invece di agire ugualmente proprio per evitare di subire critiche se la notizia fosse uscita dopo il voto.
Altre fonti giornalistiche hanno parlato al contrario di pressioni su Comey dopo la chiusura senza incriminazioni dell’indagine sulle e-mail di Hillary la scorsa estate. Ciò dimostrerebbe forse che vi è almeno una fazione all’interno dell’FBI che intende far naufragare la sua candidatura. Un’eventualità, quest’ultima, che risulta apparentemente difficile da credere, poiché la ex first lady sembra essere la candidata alla presidenza di gran lunga preferita dall’apparato militare e della sicurezza nazionale.
La situazione dietro le quinte potrebbe essere dunque più complicata di quanto appare. Se un’eventuale vittoria di Donald Trump viene vista come un serio pericolo per la stabilità degli Stati Uniti e per la prosecuzione delle aggressive politiche nei confronti di paesi come Russia e Cina, è altrettanto vero che le svariate polemiche, i danni di immagine e le grane legali subite da Hillary Clinton rischiano di riflettersi sulla nuova amministrazione Democratica fin dal primo giorno.
Gli scandali che hanno coinvolto Hillary in questi mesi, così come le indagini e una possibile incriminazione, graveranno sulla sua eventuale presidenza, distogliendola dall’implementazione di quelle politiche relativamente alle quali, sia sul fronte interno sia su quello internazionale, i poteri che la sostengono, o l’hanno sostenuta finora, intendono vedere risultati concreti in tempi brevi.Se anche lo scenario avesse questi contorni, resta difficile comprendere quali siano gli obiettivi esatti delle forze che sono dietro alla decisione dell’FBI di penalizzare Hillary Clinton. Nella più grave delle ipotesi, la riapertura delle indagini sulla candidata Democratica potrebbe essere volta a farle perdere le elezioni dell’8 novembre.
Oppure, visti i timori suscitati da una presidenza Trump, a colpire fin da subito un’eventuale amministrazione Clinton, così da logorarla con le controversie legali in corso e, una volta spazzata via la minaccia Trump, costringere magari Hillary a farsi da parte ben prima della fine del suo mandato.
Nonostante le incognite, quel che è certo è che l’annuncio del direttore dell’FBI non ha nulla a che vedere con la giustizia o il dovere di fare luce su una candidata che, pure, presenta fin troppi lati oscuri. L’intervento della polizia federale nelle elezioni per la Casa Bianca rappresenta piuttosto la più recente ingerenza della classe dirigente degli Stati Uniti, o di una parte di essa, in un processo apparentemente democratico per manipolarlo, secondo i propri interessi, dietro le spalle dei cittadini americani.