di Michele Paris

In risposta alla profonda avversione suscitata tra gli americani dalle rivelazioni dei programmi illegali di sorveglianza dell’Agenzia per la Sicurezza Nazionale (NSA), il presidente Obama ha annunciato nei giorni scorsi una serie di modifiche puramente cosmetiche delle modalità di monitoraggio delle comunicazioni elettroniche, lasciando invariati i poteri del governo di Washington di violare sistematicamente la privacy dei cittadini degli Stati Uniti e di qualsiasi altro paese del pianeta.

Allo sforzo propagandistico della Casa Bianca stanno dando come al solito un contributo decisivo i media ufficiali, impegnati nel raccontare i tentativi di Obama di rassicurare gli americani circa la legalità dell’operato dell’NSA o nel descrivere fantomatiche “riforme” in cantiere dell’agenzia con sede a Fort Meade.

Quelle che, ad esempio, il Wall Street Journal ha definito come le “proposte più significative” del presidente sono la possibile “ristrutturazione” del cosiddetto Tribunale per la Sorveglianza dell’Intelligence Straniera (FISC), incaricato di valutare le richieste di intercettazione presentate dal governo, e generici cambiamenti al Patriot Act, la principale legge del Congresso che ha gettato le fondamenta di uno stato di polizia negli USA con il pretesto della necessità di creare strumenti adeguati per combattere la “guerra al terrore”.

La prima iniziativa dovrebbe servire a porre rimedio ad una situazione insostenibile da un punto di vista legale e cioè l’apparizione di fronte al Tribunale soltanto dell’accusa, vale a dire i rappresentanti del governo, nel corso delle udienze per l’autorizzazione delle intercettazioni. Secondo l’attuale sistema, infatti, le agenzie di intelligence federali presentano le loro istanze al FISC in tutta segretezza, addirittura senza che gli individui interessati dalle intercettazioni siano a conoscenza del procedimento nei loro confronti.

Con la sua proposta, Obama vorrebbe ora creare una figura, verosimilmente sempre di nomina governativa, addetta alla valutazione delle implicazioni relative alla privacy dei cittadini, cosa che peraltro dovrebbe già fare lo stesso Tribunale. Dalla presunta “riforma” del FISC, invece, continuerebbe a rimanere esclusa qualsiasi forma di rappresentanza di fronte al Tribunale delle persone colpite da un provvedimento di intercettazione, perpetuando così la farsa giuridica dell’intero sistema e la violazione delle garanzie costituzionali.

Per quanto riguarda le modifiche al Patriot Act, le promesse di Obama sono apparse estremamente vaghe e nessun provvedimento concreto è stato avanzato. Eventuali improbabili variazioni alla legge seguita agli attentati dell’11 settembre e successivamente emendata dovrebbero teoricamente riguardare la “Sezione 215”, utilizzata dal governo per giustificare la raccolta indiscriminata delle comunicazioni elettroniche dei cittadini americani anche senza specifici sospetti di attività legate al terrorismo.

Le due proposte suddette dovrebbero poi accompagnarsi ad una maggiore “trasparenza” dell’operato dell’NSA, sempre allo scopo di convincere l’opinione pubblica che tutto viene condotto secondo la legge. Tra le manovre di facciata volte a legittimare un sistema palesemente incostituzionale ci sarebbero la pubblicazione di informazioni sul funzionamento dei programmai di sorveglianza, l’emissione di documenti che dovrebbero formare una sorta di “manuale operativo” per porre l’attività dell’NSA “nel giusto contesto” e la creazione di un gruppo di lavoro addetto alla revisione degli “sforzi” del governo nell’ambito del monitoraggio delle comunicazioni elettroniche.

In definitiva, nonostante l’ostilità diffusa tra la popolazione per la condotta dell’NSA rivelata da Edward Snowden, Obama e l’intera classe dirigente americana non hanno nessuna intenzione di interrompere i programmi illegali di sorveglianza che vengono condotti da anni in maniera clandestina.

Tutto ciò nonostante lo stesso presidente abbia di fatto riconosciuto gli eccessi di cui è responsabile il suo governo, come dimostra il cambiamento di rotta di queste settimane. Mentre subito dopo la pubblicazione dei primi documenti riservati dell’NSA Obama aveva definito i programmi di sorveglianza come perfettamente legali così come sufficienti le “garanzie” predisposte dal Congresso, ora viene infatti riconosciuta la necessità di mettere in atto provvedimenti per correggere almeno qualche abuso.

Simili ammissioni confermano anche l’assurdità delle accuse rivolte allo stesso Snowden, le cui rivelazioni hanno messo in luce una rete di sorveglianza la cui illegalità viene ora ammessa da esponenti del governo di Washington, sia pure indirettamente e in maniera molto cauta.

L’operazione propagandistica della Casa Bianca, per stessa ammissione del presidente democratico, ha comunque come vero obiettivo quello di “mettere gli americani a proprio agio”, convincendoli in sostanza ad accettare la realtà di un governo che tiene sotto controllo praticamente ogni aspetto della loro vita.

Tutte le proposte avanzate da Obama dovranno in ogni caso passare attraverso un complicato processo parlamentare. Se al Congresso e soprattutto alla Camera dei Rappresentanti si è creata una certa unità di vedute tra repubblicani di tendenze libertarie e democratici “progressisti” che vedono con sospetto l’ampliamento delle prerogative del governo in questo ambito, le possibilità di vedere approvato anche soltanto un provvedimento di limitatissima efficacia appaiono alquanto remote, in particolare alla luce delle divisioni all’interno dei due partiti attorno alle questioni della sicurezza nazionale.

Nel frattempo, nel tentativo di superare la crisi di credibilità in cui il governo degli Stati Uniti è precipitato in seguito alle rivelazioni di Edward Snowden, il presidente in prima persona ha avviato una campagna di pubbliche relazioni fatta in gran parte di menzogne, da affiancare ai recenti allarmi per possibili quanto vaghe minacce terroristiche, guarda caso rilevate proprio grazie all’intercettazione delle comunicazioni di membri di spicco dell’integralismo islamista.

In una conferenza stampa dalla Casa Bianca nel fine settimana, Obama ha così negato pubblicamente quanto è stato esposto in queste settimane con la diffusione di documenti ufficiali dell’NSA, affermando ad esempio che “gli Stati Uniti non sono interessati a spiare la gente comune”. Allo stesso tempo, il presidente ha finto un certo stupore quando ha sostenuto che “tra l’opinione pubblica americana e nel resto del mondo ha preso piede l’impressione che, in qualche modo, il nostro governo è impegnato nella raccolta indiscriminata di informazioni su chiunque e a nostro piacimento”.

Come risulta ormai evidente, ciò che sta facendo il governo degli Stati Uniti è esattamente quanto ha smentito il presidente Obama, il cui più recente tentativo di disorientare l’opinione pubblica domestica e internazionale è coinciso con l’apparizione sul New York Times di nuove rivelazioni che, in questo caso, hanno raccontato di come l’NSA abbia la facoltà di leggere e copiare il contenuto delle e-mail dei cittadini americani nell’ambito di un qualsiasi scambio di messaggi con una persona che si trovi in un paese straniero.

di Mario Lombardo

Come diretta conseguenza della concessione dell’asilo provvisorio in Russia a Edward Snowden da parte del Cremlino, questa settimana l’amministrazione Obama ha annunciato la cancellazione di una visita programmata da tempo del presidente americano a Mosca. Se la controversia legata alla sorte dell’ex analista dell’NSA ha fornito l’occasione a Washington per innalzare il livello dello scontro con Vladimir Putin, le relazioni tra i due paesi sono in realtà deteriorate da tempo in seguito ad una serie di divergenze attorno a varie questioni strategiche sullo scacchiere internazionale.

Come è noto, la Casa Bianca aveva esercitato forti pressioni nelle scorse settimane sul governo russo per convincerlo a rispedire Snowden negli Stati Uniti dove quest’ultimo è già stato formalmente incriminato per avere rivelato i programmi segreti di monitoraggio delle comunicazioni elettroniche dell’Agenzia per la Sicurezza Nazionale.

Dopo la decisione di Mosca di consentire a Snowden di lasciare l’aeroporto Sheremetyevo di Mosca, la settimana scorsa erano cominciate a circolare le indiscrezioni sulla possibilità che Obama avrebbe potuto annullare il vertice di Mosca, inizialmente fissato dopo la riunione del G-20 a San Pietroburgo tra il 5 e il 6 settembre. Vista la fermezza della Russia nel respingere le richieste di restituire Snowden agli USA, la notizia della cancellazione del faccia a faccia con Putin è apparsa tutt’altro che sorprendente.

Obama parteciperà comunque al G-20 in territorio russo ma non incontrerà Putin nemmeno a margine di questo summit, come è consuetudine in simili occasioni. La decisione annunciata mercoledì rappresenta la prima cancellazione di un vertice bilaterale tra gli Stati Uniti e la Russia dal crollo dell’Unione Sovietica. Come ulteriore sgarbo al Cremlino, la Casa Bianca ha inoltre sostituito quella prevista a Mosca con una visita in Svezia e, contemporaneamente, i leader dei paesi baltici sono stati invitati a Washington.

I rapporti diplomatici di alto livello tra i due paesi non saranno comunque interrotti. Un vertice già previsto per venerdì tra il segretario di Stato, John Kerry e quello alla Difesa, Chuck Hagel, e il ministro degli Esteri russo, Sergey Lavrov, e quello della Difesa, Sergey Shoygu, andrà infatti in scena regolarmente.

Ad elencare i motivi di attrito tra le due potenze sono stati gli stessi giornali americani, i quali continuano a descrivere quasi con incredulità la risolutezza di Mosca nel respingere le presunte offerte di dialogo del governo americano. Tra le ragioni di scontro più rilevanti ci sono le questioni legate alla difesa missilistica, al controllo degli armamenti, alle relazioni commerciali, ai diritti umani, al nucleare iraniano e alla crisi in Siria.

Secondo le ricostruzioni ufficiali, il presidente Obama si sarebbe detto “esasperato” dal comportamento di Putin, prendendo alla fine atto dell’impossibilità di fissare un’agenda su cui basare la discussione da tenere a settembre.

A detta di un anonimo membro dell’amministrazione Obama sentito dal New York Times, la vicenda di “Snowden è stata un fattore, ma la decisione trae origine da considerazioni più ampie e da un profondo disappunto”. Secondo questa interpretazione, i russi “non erano pronti a confrontarsi seriamente sulle questioni ritenute fondamentali” dagli Stati Uniti.

In sostanza, media e politici americani attribuiscono al Cremlino la responsabilità di avere fatto naufragare la strategia di avvicinamento o di “resettaggio” dei rapporti bilaterali messa in atto dalla Casa Bianca fin dal 2009, anche se, a ben vedere, le crescenti tensioni tra USA e Russia si spiegano in gran parte con la volontà americana di piegare il governo di Mosca ai propri interessi strategici e con la comprensibile resistenza mostrata da quest’ultimo.

Il comportamento di questi giorni dell’amministrazione Obama è stato così riassunto efficacemente dal consigliere di Putin, Yuri Ushakov, il quale ha spiegato che “gli Stati Uniti non sono ancora pronti a costruire relazioni paritarie con il nostro paese”, dal momento che Washington nutre ben poco riguardo per le aspirazioni e gli interessi di Mosca.

Fin dall’ingresso di Obama alla Casa Bianca, d’altra parte, l’intenzione del governo americano è stata quella di utilizzare la Russia per raggiungere i propri obiettivi strategici, come ad esempio in Afghanistan, ma anche riguardo all’Iran e alla Siria. Da parte sua, il Cremlino aveva mostrato una certa disponibilità a collaborare con Washington, in particolare con la presidenza Medvedev, durante la quale è stato ad esempio siglato il rinnovo del trattato START sulla riduzione delle armi nucleari.

Il ritorno di Putin alla presidenza ha coinciso però con un inasprirsi delle ostilità tra i due paesi, aggravate dal persistente sostegno russo garantito al regime di Bashar al-Assad in Siria, frustrando i tentativi da parte degli Stati Uniti di convincere Mosca ad accettare il cambio di regime a Damasco.

Se la ricerca dello scontro con la Russia indica, tra l’altro, una probabile escalation militare degli USA in Medio Oriente per risolvere la crisi siriana, più in generale la cancellazione del vertice Obama-Putin rivela il prevalere all’interno dell’establishment statunitense delle voci di coloro che vedono sempre più la Russia come un ostacolo al raggiungimento degli obiettivi strategici del proprio paese nel mondo. Per questa ragione, un atteggiamento sempre più aggressivo sembrerebbe essere l’opzione più appropriata per aumentare le pressioni sul Cremlino.

In questo disegno rientrano quindi i tentativi di attribuire ai rivali la propria intransigenza, come è apparso evidente dalla retorica dei media “mainstream” di questi giorni e dalle parole pronunciate dallo stesso Obama in un’apparizione televisiva poche ore prima dell’annuncio ufficiale dell’annullamento del vertice con Putin.

Al “Tonight Show” della NBC, l’inquilino della Casa Bianca ha infatti affermato che “talvolta, i russi tornano a mostrare una mentalità da Guerra Fredda”, nonostante egli stesso abbia invitato Putin e il governo di Mosca “a guardare al futuro”, poiché “non esistono motivi per i quali i nostri paesi non dovrebbero essere in grado di cooperare più efficacemente”.

Come è consuetudine per la politica estera americana, dunque, dietro alle offerte di disponibilità al dialogo e ai propositi di distensione continua a nascondersi la volontà di intimidire, quando non addirittura di minacciare, i propri interlocutori, così che qualsiasi percorso di riconciliazione  avvenga solo alle proprie condizioni e serva a promuovere esclusivamente gli interessi dell’imperialismo a stelle e strisce.

di Michele Paris

L’acquisto del Washington Post da parte del fondatore di Amazon è stato questa settimana l’ultimo di una serie di annunci di acquisizioni di importanti testate americane finite nelle mani di esponenti dell’élite economico e finanziaria d’oltreoceano. Il più importante giornale della capitale degli Stati Uniti è stato ceduto dalla famiglia Graham, la quale ne deteneva la proprietà da ottant’anni, a Jeffrey Bezos per 250 milioni di dollari.

A darne notizia nella giornata di lunedì sono stati l’amministratore delegato della Washington Post Company, Donald Graham, e l’editore del giornale nonché nipote di quest’ultimo, Katharine Weymouth. Graham ha definito Bezos come una sorta di benefattore, in grado di salvare la gloriosa testata dalle difficoltà economiche in cui versa da tempo.

Come ha spiegato un articolo dello stesso Post di qualche giorno fa, visto che “i proventi sono in calo da sette anni di fila” e che le previsioni per il 2013 indicavano altre perdite per 40 milioni di dollari, alla proprietà restavano soltanto tre strade da percorrere. La prima era continuare a gestire una compagnia in declino, la seconda operare tagli ai costi e ai dipendenti in maniera “aggressiva” e l’ultima, appunto, vendere uno dei giornali simbolo del progressismo americano per renderlo nuovamente “prospero”. Con la scelta di cedere il giornale al numero uno di Amazon, la famiglia Graham ha così in sostanza delegato al nuovo padrone la più che probabile ristrutturazione del giornale.

I problemi del Washington Post che hanno portato all’arrivo di Bezos, in ogni caso, sono comuni alla maggior parte delle tradizionali testate americane e non solo, costrette a fare i conti con un netto calo delle entrate e del numero di lettori, sempre più orientati verso il web per il reperimento di notizie.

Negli ultimi anni sono stati molti i giornali ad avere chiuso i battenti negli Stati Uniti, mentre altri sono stati rilevati da investitori multi-miliardari, spesso a prezzi decisamente vantaggiosi. Tra gli acquisti più rilevanti in tempi recenti ci sono quelli effettuati dalla compagnia Berkshire Hathaway di Warren Buffett, la quale in questi due anni ha messo le mani su decine di giornali, soprattutto locali, per poche centinaia di milioni di dollari.

Solo di settimana scorsa è stata invece la notizia del passaggio del Boston Globe per 70 milioni di dollari dalla New York Times Company all’investitore John Henry, già proprietario, tra l’altro, della squadra di calcio del Liverpool e di baseball dei Boston Red Sox.

Nelle scorse settimane, infine, era circolata un’indiscrezione circa la possibile vendita da parte della Tribune Company di un altro giornale storico, il Los Angeles Times, ai fratelli Koch. La notizia aveva suscitato forti preoccupazioni nella metropoli californiana, per il timore del passaggio di una testata di orientamento tradizionalmente “liberal” ad una famiglia di businessmen legati all’estrema destra repubblicana e tra i principali finanziatori dei Tea Party.

Per quanto riguarda Jeffrey Bezos, le sue simpatie politiche rimangono avvolte in un relativo mistero. Se ex dirigenti di Amazon lo definiscono di tendenze libertarie, Bezos ha elargito modeste donazioni sia a politici repubblicani che, soprattutto, democratici. La sua donazione più consistente finora registrata ammonta a 2,5 milioni di dollari a favore di una campagna per la legalizzazione dei matrimoni gay nello stato americano di Washington.

Ciò che più contraddistingue il nuovo padrone del Washington Post sono forse però le politiche aziendali di Amazon, colosso delle vendite on-line noto sia per le discutibili pratiche messe in atto per abbattere il carico fiscale nei paesi in cui opera, sia per le retribuzioni da livelli di povertà offerte ai propri dipendenti e le pessime condizioni di lavoro nelle proprie sedi.

A detta di Bezos, la sua gestione del Washington Post non comporterà alcuna intromissione nella linea editoriale. In realtà, il controllo di uno dei giornali più importanti degli Stati Uniti gli garantirà una profonda influenza sul flusso di notizie che raggiungono un pubblico molto vasto.

Più in generale, l’acquisizione di questa testata da parte di una delle maggiori corporation del pianeta conferma la tendenza in atto da tempo negli Stati Uniti come altrove, quella cioè della progressiva concentrazione dei media nelle mani di un ristretto gruppo di ultra-miliardari, con la conseguente subordinazione della libertà di stampa agli interessi di classe di coloro che detengono il controllo sull’informazione.

Con l’acquisto di un giornale come il Washington Post, poi, Bezos trarrà benefici non indifferenti per la propria immagine di imprenditore con una “coscienza civile”, in particolare dopo il recente discorso di propaganda tenuto dal presidente Obama in un magazzino di Amazon in Tennessee per promuovere il proprio progetto teoricamente destinato a rilanciare la “classe media” americana.

Il Washington Post può infatti vantare ben 47 premi Pulitzer nella propria storia e deve la sua autorevolezza soprattutto alla pubblicazione dei Pentagon Papers nel 1971 e alla scoperta dello scandalo Watergate che portò alle dimissioni del presidente Nixon nel 1974.

Va detto però che come quasi tutti i giornali della galassia “liberal” negli Stati Uniti, a cominciare dal New York Times, anche il Washington Post è stato tuttavia protagonista negli ultimi anni di un inesorabile spostamento a destra della propria linea editoriale. Da baluardo del progressismo a stelle e strisce, questa testata è diventata un’aperta sostenitrice, ad esempio, delle guerre in Afghanistan e in Iraq, mentre più recentemente si sono sprecati sulle proprie pagine gli editoriali che invitano l’amministrazione Obama a prendere iniziative più decise in Siria.

Infine, se il Washington Post nelle scorse settimane ha pubblicato assieme al britannico Guardian alcuni dei documenti segreti rivelati da Edward Snowden sui programmi clandestini e illegali dell’NSA, il suo comitato editoriale ha costantemente difeso la legittimità dell’apparato della sicurezza nazionale americana, schierandosi di fatto a fianco dell’amministrazione Obama nella progressiva opera di smantellamento delle garanzie democratiche negli Stati Uniti in nome della “guerra al terrore”. La fine della sua tradizione ha fatto da prologo a quella della sua proprietà.

di Michele Paris

L’insediamento nel fine settimana del nuovo presidente iraniano, Hassan Rouhani, si è accompagnato all’annuncio di un nuovo gabinetto composto in buona parte da esponenti moderati vicini all’ex presidente Ali Akbar Hashemi Rafsanjani. La scelta dei membri del proprio governo e le parole pronunciate negli ultimi giorni da Rouhani hanno indicato una chiara volontà distensiva nei confronti dell’Occidente e, in particolare, di Washington, da dove però continuano a giungere messaggi quanto meno contradditori sulla possibile apertura di un percorso di riconciliazione nel prossimo futuro.

La stessa presenza di Rafsanjani a fianco del presidente entrante nella cerimonia andata in scena domenica a Teheran ha anticipato la probabile influenza che il quasi 79enne ex leader iraniano eserciterà sul governo che sta per nascere, nonostante la sua esclusione dalle elezioni dello scorso giugno da parte del Consiglio dei Guardiani.

Grande attenzione è stata data in Occidente soprattutto alla scelta di Mohammad Javad Zarif come ministro degli Esteri. Quest’ultimo ha trascorso buona parte della sua vita negli Stati Uniti ricoprendo svariati incarichi, tra cui quello di ambasciatore della Repubblica Islamica alle Nazioni Unite. Zarif ha ottenuto anche un dottorato presso l’università di Denver, nel Colorado, e secondo la stampa americana sarebbe ben conosciuto da importanti membri dell’amministrazione Obama, a cominciare dal vice-presidente, Joe Biden, e dal segretario alla Difesa, Chuck Hagel.

Ancora più significativo è stato il suo ruolo nel team di negoziatori iraniani guidato proprio dal neo-presidente Rouhani che nel 2003 raggiunse un accordo con alcuni governi europei per la sospensione temporanea del programma di arricchimento dell’uranio del proprio paese.

Al ministero del Petrolio dovrebbe finire invece Bijan Namdar Zangeneh, definito come un tecnico che ha però fatto parte di vari governi moderati o riformisti in qualità di ministro dell’Energia e del Petrolio sotto la guida di Mir-Hossein Mousavi, Rafsanjani e Mohammad Khatami tra il 1988 e il 2005. Tra i risultati di Zangeneh visti con maggiore interesse in Occidente ci sarebbe il suo impegno nel portare in Iran svariati miliardi di dollari sotto forma di investimenti di compagnie straniere per sviluppare il settore energetico domestico prima dell’imposizione delle sanzioni internazionali.

Il prossimo ministro dell’Economia, infine, sarà Ali Tayyeb-Nia, anch’egli già facente parte dei governi Rafsanjani e Khatami, ma anche di quello del presidente uscente Ahmadinejad. Tayyeb-Nia viene accreditato come uno specialista nello studio dell’inflazione, uno dei problemi più gravi causati in Iran dalle sanzioni economiche attualmente in vigore.

Tutti i ministri del nuovo governo dovranno essere in ogni caso approvati dal Parlamento di Teheran (Majilis), dominato dai conservatori e protagonista negli ultimi anni di ripetuti scontri con il presidente Ahmadinejad e il suo gabinetto. Per il momento, i membri del Parlamento iraniano hanno mostrato una certa propensione a volere attendere lo sviluppo degli eventi, come ha evidenziato la disponibilità registrata nei confronti di Rouhani nel corso del suo insediamento di domenica scorsa.

Il neo-presidente ha poi lanciato un chiaro messaggio di apertura verso gli Stati Uniti, aggiungendo però che “per stabilire rapporti con l’Iran, dovrà esserci un dialogo basato su posizioni di uguaglianza e fiducia reciproca”. In riferimento ai modesti segnali di disponibilità dell’amministrazione Obama, Rouhani ha invitato le proprie controparti occidentali a “parlare il linguaggio del rispetto e non quello delle sanzioni”.

Da parte sua, la Casa Bianca nella giornata di domenica ha emesso un comunicato ufficiale nel quale l’insediamento di Rouhani è stato definito “un’opportunità per l’Iran ad agire rapidamente per fugare i dubbi della comunità internazionale sul suo programma nucleare”. Per Washington, “se il nuovo governo dovesse scegliere di impegnarsi in maniera sostanziale per rispettare i propri obblighi internazionali e per cercare una soluzione pacifica, gli Stati Uniti si mostreranno disponibili”.

L’intenzione di mettere fine al confronto con l’Occidente appare dunque uno degli obiettivi principali del gabinetto Rouhani e in questo sforzo sembra avere almeno la tacita approvazione della Guida Suprema, ayatollah Ali Khamenei. La prevalenza di uomini con passate esperienze nel campo riformista o moderato, nonché legati ad una personalità come Rafsanjani che non incontra i favori dell’establishment conservatore, potrebbe però consentire a Khamenei e ai suoi fedelissimi di sganciarsi rapidamente dal nuovo presidente in caso di un possibile fallimento diplomatico, lasciando il nuovo governo in una posizione simile a quello di Ahmadinejad nel suo secondo mandato, cioè privo dell’appoggio politico necessario per incidere non solo in politica estera ma anche in ambito economico.

Oltre ai delicati equilibri del sistema iraniano e alle reazioni di una popolazione che si attende in tempi brevi significativi miglioramenti delle proprie condizioni di vita in continuo declino, a pesare sul futuro di Rouhani e del suo governo sarà anche e soprattutto l’atteggiamento dell’Occidente e, in particolare, degli Stati Uniti.

Le ragioni per sperare in una risoluzione pacifica dello scontro non sono però molte, anche perché le condizioni imposte da Washington solo per aprire un qualche negoziato di alto livello appaiono difficilmente accettabili a Teheran.

Inoltre, il grado di disponibilità di alcune sezioni della classe politica americana - più interessate ad un cambio di regime che a riconoscere le legittime aspirazioni dell’Iran - sono risultate ancora una volta evidenti la scorsa settimana, quando la Camera dei Rappresentanti ha approvato a vastissima maggioranza un nuovo pacchetto di sanzioni contro la Repubblica Islamica che appaiono senza precedenti.

Queste misure, su cui dovrà esprimersi ora il Senato, se implementate restringerebbero infatti i rimanenti mercati dell’export petrolifero dell’Iran, renderebbero impossibile l’accesso al denaro di questo paese depositato su conti bancari esteri e penalizzerebbero ulteriormente numerosi settori industriali di importanza strategica.

di Mario Lombardo

I risultati ufficiali delle elezioni del 31 luglio in Zimbabwe hanno assegnato una chiara vittoria al partito al potere nel paese africano fin dall’indipendenza (Unione Nazionale Africana Zimbabwe-Fronte Patriottico, ZANU-PF) e al suo anziano leader, Robert Mugabe, decretando invece una pesantissima sconfitta per il Movimento per il Cambiamento Democratico (MDC) filo-occidentale del premier ed ex leader sindacale Morgan Tsvangirai. Se il voto per il rinnovo del Parlamento e per la scelta del nuovo presidente è stato indubbiamente segnato da brogli e intimidazioni, l’esito della discussa consultazione della scorsa settimana riflette in gran parte la relativa persistente popolarità del presidente Mugabe e il discredito sempre più marcato del principale partito di opposizione.

A differenza della crisi esplosa dopo le elezioni del 2008, l’appuntamento con le urne nel paese dell’Africa del sud è apparso in questa occasione sostanzialmente privo di scontri e violenze. Attivisti locali e osservatori internazionali hanno però evidenziato una serie di problematiche, dall’eccessivo numero di schede elettorali stampate in svariate località alla quantità sproporzionata di votanti che necessitavano di assistenza all’interno della cabina elettorale.

A un certo numero di elettori è stato poi impedito di esprimere la propria preferenza una volta presentatisi ai seggi, soprattutto nelle principali città del paese dove l’MDC di Tsvangirai dovrebbe raccogliere il maggior numero di consensi. Le delegazioni dell’Unione Africana e della Comunità per lo Sviluppo dell’Africa Meridionale (SADC), pur avendo anch’esse segnalato irregolarità, nelle proprie dichiarazioni ufficiali hanno escluso che esse abbiano raggiunto livelli tali da chiedere l’annullamento del voto. Ai rappresentanti di Europa e Stati Uniti è stato invece impedito l’ingresso nel paese per monitorare lo svolgersi delle elezioni.

Le due organizzazioni africane hanno poi invitato Tsvangirai e i vertici del suo partito ad accettare il risultato finale, anche se “doloroso”. Il primo ministro, infatti, non appena si era profilata la sconfitta, aveva definito il voto una “farsa”, aggiungendo che se le operazioni fossero state condotte in maniera regolare il suo partito avrebbe senza dubbio trionfato. L’MDC aveva peraltro contestato le stesse elezioni, la cui data era stata anticipata da Mugabe dopo il passaggio di un referendum costituzionale nel marzo di quest’anno

La credibilità delle elezioni in Zimbabwe è stata subito messa in discussione anche dall’Occidente, con in particolare i governi di Londra e Washington che hanno chiesto indagini sui brogli. Il segretario di Stato americano, John Kerry, ha affermato che “gli Stati Uniti ritengono che i risultati annunciati sabato non rappresentino l’espressione della volontà del popolo dello Zimbabwe”. Simili prese di posizione rischiano di infiammare gli animi nel paese africano, dove gli scontri elettorali nel 2008 fecero più di 200 morti.

L’MDC ha comunque manifestato per ora l’intenzione di percorrere le vie legali per contestare il risultato del voto. Secondo la legge dello Zimbabwe, qualsiasi reclamo può essere presentato alla Corte Costituzionale entro sette giorni dall’annuncio ufficiale dei risultati. La Corte ha poi due giorni per emettere una sentenza, anche se un esito favorevole all’opposizione appare improbabile, anche perché i suoi membri sono in gran parte fedeli a Mugabe.

I risultati ufficiali diffusi dalla Commissione Elettorale, in ogni caso, hanno assegnato 158 seggi sui 210 totali della Camera bassa del Parlamento allo ZANU-PF di Mugabe, vale a dire una maggioranza di oltre i due terzi che consentirà al partito al potere di modificare a piacimento la Costituzione. L’MDC di seggi ne ha ottenuti invece 51, dimezzando la propria rappresentanza conquistata nel 2008.

Il voto per le presidenziali ha inoltre premiato l’89enne eroe dell’indipendenza con il 61% dei consensi, mentre Morgan Tsvangirai si è fermato al 34%. Nelle elezioni di cinque anni fa, quest’ultimo aveva ricevuto un numero maggiore di consensi rispetto a Mugabe nel primo turno delle presidenziali ma si era poi ritirato dal ballottaggio per fermare le violenze commesse dalle forze di sicurezza ai danni dei propri sostenitori.

Dopo gli scontri, la comunità internazionale aveva negoziato un fragile accordo tra i due rivali, i quali erano entrati in un governo di coalizione con Mugabe presidente e Tsvangirai premier. Da allora, il tracollo dell’economia dello Zimbabwe è stato in parte arrestato, mentre la decisione del 2009 di abbandonare la valuta locale per il dollaro USA aveva invertito una spirale inflattiva che aveva raggiunto livelli stratosferici. Secondo molti osservatori, tuttavia, l’accordo con lo ZANU-PF ha logorato l’MDC, esponendolo alle manovre dell’anziano presidente e determinando una rapida disaffezione tra gli elettori.

Se la formazione di un governo di unità nazionale nel 2008 con Mugabe ha in parte contribuito al declino elettorale dell’MDC, il principale partito di opposizione ha pagato soprattutto, da un lato, l’adattamento ai vantaggi della posizione di potere conquistata e, dall’altro, la percezione in gran parte giustificata di essere un partito che rappresenta gli interessi dei governi occidentali e del capitale internazionale.

Un’analisi del New York Times dello scorso mese di aprile aveva ad esempio descritto il crescente malcontento diffuso nel paese nei confronti di leader di partito coinvolti in numerosi episodi di corruzione e che si circondano di ricchezze e comodità, mentre la maggior parte della popolazione deve sopravvivere con un reddito di 2 dollari al giorno.

Lo stesso premier Tsvangirai è stato quest’anno al centro di polemiche per il proprio matrimonio faraonico e la costruzione di un’abitazione costata qualcosa come 3 milioni di dollari. Il partito è stato poi coinvolto in una serie di scandali, tra cui uno nel quale i suoi membri sono stati accusati di avere ceduto terreni pubblici in cambio di compensi per svariate migliaia di dollari.

Le pretese di Tsvangirai di avere partecipato ad un’elezione manipolata non trovano poi riscontro in un sondaggio condotto qualche mese fa da una ONG americana - Freedom House - tutt’altro che insensibile agli interessi di Washington all’estero. Secondo questa indagine, infatti, i consensi per l’MDC erano scesi dal 38% del 2010 al 20%, mentre lo ZANU-PF era salito nelle intenzioni di voto dal 17% al 31%.

Se Mugabe e il suo partito vengono poi incessantemente definiti dai meda occidentali come i cardini di un regime opprimente e dittatoriale, il movimento che ha portato lo Zimbabwe all’indipendenza dalla Gran Bretagna nel 1980 e il suo leader beneficiano tuttora di un certo gradimento tra la popolazione, in particolare grazie alla storica riforma dei terreni agricoli, nonché alle politiche di nazionalizzazione e di “indigenizzazione” messe in atto.

La redistribuzione delle terre ha permesso a quasi 250 mila agricoltori di colore di lavorare aziende in precedenza nelle mani di appena seimila imprenditori bianchi. Se inizialmente una simile rivoluzione ha creato problemi enormi, essa non solo ha una valenza simbolica fondamentale nella storia post-coloniale dello Zimbabwe ma ha anche prodotto recentemente risultati migliori, con alcuni studi che hanno evidenziato come la produzione agricola stia lentamente tornando ai livelli di due decenni fa.

Un’altra iniziativa di Mugabe sgradita all’Occidente e ai grandi interessi economici internazionali è stata quella che ha stabilito come la maggioranza della proprietà delle aziende operanti in settori strategicamente fondamentali per l’interesse nazionale debba rimanere nelle mani di cittadini dello Zimbabwe.

Se la redistribuzione delle terre e l’indigenizzazione dell’economia hanno indubbiamente creato una rete clientelare attorno al regime dello ZANU-PF, entrambi i programmi sono risultati decisivi per gettare le basi di un sistema di crescita indipendente.

Queste misure sono state fortemente combattute dall’MDC, le cui politiche economiche, al contrario, si basano fondamentalmente sull’integrazione dello Zimbabwe nei circuiti del capitale internazionale, così da mettere a disposizione dell’Occidente le risorse del paese e trasformarlo in una piattaforma per lo sfruttamento di manodopera a bassissimo costo.

A influire sul rovescio elettorale di Tsvangirai è stata anche l’immagine di un politico e di un partito irrimediabilmente legati a Washington e a Londra. Alcuni documenti pubblicati nel 2010 da WikiLeaks avevano addirittura spinto le autorità dello Zimbabwe ad aprire un’indagine per cospirazione e tradimento contro il primo ministro, il quale aveva chiesto segretamente al governo americano di mantenere le sanzioni economiche applicate al suo paese nonostante avesse sostenuto pubblicamente di volersi battere per la loro soppressione.

Le vaghe promesse di “trasparenza”, “democrazia” e “cambiamento” dell’MDC di Tsvangirai sono apparse perciò a molti soltanto slogan per nascondere gli obiettivi dei grandi interessi stranieri nel paese sudafricano, ostacolati dal nazionalismo economico promosso da Robert Mugabe. Non a caso, la prospettiva di “cambiamento” avanzata dal principale partito di opposizione è stata respinta proprio da quella fascia di popolazione che avrebbe dovuto risultare maggiormente sensibile a questa promessa, cioè gli elettori più giovani che, secondo i dati ufficiali, hanno invece premiato in larga misura lo ZANU-PF.

Se le proteste dell’MDC contro i risultati del voto della scorsa settimana dovessero proseguire nei prossimi giorni, è probabile dunque che lo Zimbabwe assisterà a nuove violenze, come conferma in questi giorni il dispiegamento di forze di sicurezza nella capitale, Harare, e nelle altre più importanti città. A gettare benzina sul fuoco potrebbero essere ancora una volta anche i governi occidentali, a cominciare da quello americano, i cui progetti di espansione nel continente africano continuano ad essere parzialmente frustrati da regimi come quello guidato da oltre trent’anni da Robert Mugabe.


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