di Michele Paris

Un tribunale federale americano ha emesso qualche giorno fa un’importantissima sentenza nell’ambito di una fuga di notizie dalla CIA, gettando una nuova lunga ombra sulla garanzia della libertà di stampa negli Stati Uniti. La vicenda che ha portato venerdì all’inquietante verdetto ha infatti imposto ad un noto giornalista del New York Times di testimoniare nel processo contro la fonte interna al governo di una rivelazione che lo stesso reporter aveva raccontato in suo libro dedicato alle questioni della sicurezza nazionale.

Tre giudici della corte d’Appello per il “Quarto Circuito” di Richmond, in Virginia, hanno in sostanza stabilito che il Primo Emendamento della Costituzione americana - che garantisce, tra l’altro, la libertà di parola e di stampa - non può essere applicato ai giornalisti che ottengono notizie riservate e la cui diffusione non è stata autorizzata dall’autorità di governo. I giornalisti, perciò, possono essere costretti a testimoniare contro le persone sospettate di avere rivelato loro le informazioni in questione.

Nella sentenza, i due giudici di maggioranza hanno scritto che “chiaramente, un resoconto diretto e di prima mano da parte di [James] Risen sulla condotta criminale oggetto di indagini di un Grand Jury non può essere ottenuto con mezzi alternativi, dal momento che Risen è indubitabilmente l’unico testimone in grado di offrire questa fondamentale testimonianza”.

James Risen è un giornalista premio Pulitzer del New York Times ma la vicenda in cui è coinvolto riguarda esclusivamente il suo volume “State of War” del 2006, in un capitolo del quale raccontava come la CIA durante l’amministrazione Clinton avesse cercato di ingannare gli scienziati iraniani, spingendoli ad accettare da un doppio agente russo un progetto per un meccanismo di innesco nucleare appositamente alterato.

L’autore della rivelazione era stato individuato nel dicembre del 2010 nell’ex agente della CIA Jeffrey Sterling, prontamente incriminato dall’amministrazione Obama secondo il dettato dell’Espionage Act, la legge reazionaria del 1917 che il governo USA avrebbe successivamente utilizzato per accusare Bradley Manning e Edward Snowden. Contro Sterling, lo stesso Risen sarà ora costretto a testimoniare di fronte ad un Grand Jury, anche se il giornalista ha affermato di essere disposto ad andare in carcere piuttosto che rivelare la propria fonte o, quanto meno, di portare il proprio caso fino alla Corte Suprema degli Stati Uniti.

Sul caso Risen si era espressa nel 2011 una corte federale di primo grado, la quale aveva opportunamente limitato il potere dell’esecutivo nel richiedere ad un giornalista l’identità delle proprie fonti riservate. Secondo l’amministrazione Obama, tuttavia, non esisterebbe alcun diritto alla riservatezza garantito dal Primo Emendamento in casi simili ed ha quindi fatto appello, ottenendo la sentenza favorevole di venerdì scorso.

L’interpretazione proposta dalla corte d’appello mette così in grave pericolo il principio della riservatezza delle fonti giornalistiche e rappresenta un altro passo verso la totale criminalizzazione dei cosiddetti “whistleblowers”, coloro cioè che forniscono un servizio di inestimabile valore all’opinione pubblica, rivelando alla stampa le malefatte e i crimini del governo a cui essi hanno assistito. Queste fonti, oltretutto, dovrebbero essere teoricamente protette dalla legge, come stabilisce il “Whistleblower Protection Act” del 1989.

Per l’amministrazione Obama, al contrario, la protezione della legge deve essere garantita solo a coloro che all’interno del governo si sono macchiati dei crimini esposti, mentre per quanti mettono a rischio la propria carriera se non addirittura la libertà o la vita per rendere noti questi stessi crimini, vengono riservati procedimenti giudiziari, ma anche torture - come è accaduto a Manning - e misure estreme per metterli a tacere, come nel caso di Snowden.

La sentenza di venerdì fissa dunque un precedente preoccupante per la libertà di informazione negli Stati Uniti che, assieme allo sforzo senza precedenti per mettere le mani su Edward Snowden e alla corte marziale in atto contro Bradley Manning, intende scoraggiare future fughe di notizie sulle attività illegali del governo.

Teoricamente, la decisione della corte d’Appello di Richmond avrebbe effetto soltanto all’interno del “circuito” sul quale essa esercita la propria giurisdizione. Se anche così fosse, però, l’autorità di questa corte copre stati come Maryland e Virginia, dove si trovano istituzioni come il Pentagono, la CIA e la National Security Agency (NSA), all’interno delle quali viene elaborata e messa in atto la grande maggioranza delle azioni illegali di cui si macchia il governo, con effetti su tutti gli Stati Uniti e non solo.

La sentenza che ha accolto l’appello del Dipartimento di Giustizia contribuisce infine a smascherare il vero significato della decisione presa recentemente dal ministro Eric Holder in risposta agli scandali che hanno coinvolto in questi mesi l’amministrazione Obama, tra cui la notizia dell’intercettazione segreta delle comunicazione telefoniche di decine di giornalisti dell’Associated Press nell’ambito di un’indagine sulla rivelazione di una notizia riservata relativa ad un attentato terroristico sventato.

Secondo i principali media d’oltreoceano, le nuove “linee guida” adottate dal governo una decina di giorni fa servirebbero a ridurre significativamente le circostanze nelle quali le informazioni ottenute dai giornalisti possono essere requisite. In realtà, come dimostrano i procedimenti giudiziari ai danni di un numero record di “whistleblowers” avviati dal 2009 ad oggi e l’appello contro la sentenza di primo grado nel caso del giornalista James Risen, l’amministrazione Obama non ha alcun interesse nella difesa della libertà di stampa.

Infatti, le direttive del Dipartimento di Giustizia non fanno altro che stabilire limiti ingannevoli alle facoltà del governo, confermando il potere di controllare e limitare la libertà di stampa ogniqualvolta vengano rivelate informazioni riservate, la cui provenienza debba essere individuata ai fini di un’indagine su questioni considerate “essenziali” per la sicurezza nazionale.

di Michele Paris

Le indagini condotte dalle autorità di polizia americane dopo l’attentato alla maratona di Boston del 15 aprile scorso continuano a sollevare numerosi interrogativi e risultano caratterizzate da un costante tentativo di occultare l’inquietante realtà che sembra nascondersi dietro le esplosioni che provocarono 3 morti e centinaia di feriti. I sospetti per una probabile colossale operazione di insabbiamento in corso sono tornati ad emergere in questi giorni dopo l’intervento dell’FBI per bloccare la pubblicazione dei risultati dell’autopsia condotta sul corpo di un giovane ceceno amico di Tamerlan Tsarnaev, il maggiore dei due fratelli accusati dei fatti di Boston.

Nel pressoché totale disinteresse dei principali media d’oltreoceano per una vicenda dai molti lati oscuri, i medici legali di un laboratorio di Orlando, in Florida, martedì hanno fatto sapere di essere stati invitati dall’FBI a non divulgare l’esito dell’autopsia relativa a Ibragim Todashev, poiché la sua morte, avvenuta il 22 maggio nel suo appartamento, è tuttora al centro di un’indagine interna della polizia federale statunitense.

Il 27enne Todashev era stato infatti ucciso proprio da agenti dell’FBI nella sua abitazione durante un interrogatorio in relazione alle bombe di Boston. I resoconti dei giornali americani sull’accaduto nell’appartamento di Orlando in cui risiedeva sono stati estremamente confusi negli ultimi tre mesi. Inizialmente, la sua morte sembrava essere dovuta all’iniziativa di uno o più agenti, i quali avevano sparato al giovane come autodifesa dopo che quest’ultimo aveva cercato di assalirli. Quale arma Todashev avesse impugnato non appare del tutto chiaro, visto che i giornali hanno parlato alternativamente di un coltello, di una “spada da samurai”, di un bastone di metallo e, addirittura, di un manico di scopa, mentre altri avevano sostenuto invece che la vittima fosse disarmata.

Il Washington Post, a sua volta, pochi giorni dopo i fatti, aveva scritto che, prima dell’esecuzione e dopo circa otto ore di interrogatorio, tutti gli agenti dell’FBI presenti avevano abbandonato l’appartamento tranne uno che avrebbe poi sparato a Todashev. Per quanto è noto finora, nessuno degli agenti coinvolti nella vicenda è stato arrestato o incriminato per questo omicidio.

Il rapporto ufficiale dell’FBI, pubblicato lo stesso 22 maggio, attribuiva semplicemente la morte di Todashev al risultato di uno scontro violento con gli agenti scatenato dalla stessa vittima. Qualche giorno più tardi, dalla Russia il padre di Todashev aveva organizzato una conferenza stampa mostrando delle fotografie del figlio dopo l’autopsia. In esse appariva evidente il segno di un colpo di pistola alla testa da distanza ravvicinata “in stile mafioso”, sparato quando il giovane giaceva sul pavimento per assicurarsi della sua morte.

Prima dell’interrogatorio con l’FBI, Todashev aveva inoltre confidato alla sua co-inquilina, Tatiana Gruzdeva, di temere per la propria vita. Todashev, in ogni caso, aveva collaborato con i federali nelle settimane precedenti, rimandando anche un viaggio in Cecenia per parlare con l’FBI in relazione ai fratelli Tsarnaev e all’attentato di Boston. Alla stessa Gruzdeva, nel frattempo, è stato di fatto impedito di discutere con i media dell’accaduto, visto che recentemente è stata arrestata e nei suoi confronti è iniziata la procedura di espulsione dagli Stati Uniti.

I particolari emersi legittimano dunque il sospetto che Ibragim Todashev sia stato messo a tacere perché in possesso di informazioni che avrebbero potuto rivelare i legami tra l’apparato della sicurezza nazionale americano e Tamerlan Tsarnaev, i cui rapporti con il fondamentalismo ceceno che combatte il governo russo si intrecciavano forse con le operazioni segrete condotte dagli USA. Oppure, lo stesso Todashev, così come Tsarnaev, poteva essere anch’egli legato all’intelligence statunitense, la quale utilizzava i due ceceni per i propri obiettivi.

Secondo quanto riportato a maggio dalla NBC, infatti, funzionari anonimi del governo americano avrebbero affermato che Todashev aveva un qualche legame con i ribelli ceceni, mentre il Boston Globe qualche giorno fa ha raccolto il parere di alcuni esperti che avevano definito “senza ragione” apparente la concessione nel 2008 dell’asilo politico negli USA allo stesso 27enne ucciso dall’FBI in Florida.

Le attività di destabilizzazione del governo americano tramite il sostegno clandestino alla guerriglia cecena sono d’altra parte risapute, così come è provata la presenza di militanti ceceni in Siria a fianco dei “ribelli” anti-Assad che ricevono l’appoggio finanziario e militare dagli Stati Uniti e dai loro alleati.

Ulteriori dubbi sulla vicenda sono poi emersi la settimana scorsa in seguito alla pubblicazione sul New York Times di un devastante atto d’accusa contro le autorità di polizia americane. Queste ultime, infatti, avevano sistematicamente boicottato le indagini su un triplice omicidio avvenuto nel settembre del 2011 a Waltham, in Massachusetts, tra le cui vittime figurava un amico intimo di Tamerlan Tsarnaev.

L’indagine del NYT ha messo in luce come il maggiore dei fratelli Tsarnaev non fosse nemmeno stato interrogato all’indomani degli omicidi nonostante le altre perone sentite dalla polizia in merito ai fatti avessero inequivocabilmente testimoniato dei rapporti di amicizia tra Tamerlan e una delle tre vittime, Brendan Mess.

Tamerlan Tsarnaev, inoltre, era un assiduo frequentatore dell’appartamento di Mess, dove furono ritrovati i corpi e la cui porta di ingresso non presentava alcun segno di scasso. I loro amici hanno anche descritto sia all’FBI che ai media in questi quasi due anni che Tamerlan Tsarnaev non si era nemmeno presentato ai funerali di Mess e, durante le successive discussioni sul suo assassinio, non aveva mostrato alcuna emozione, giungendo in alcune occasioni anche a scherzare sull’accaduto.

Come se non bastasse, svariati mesi prima degli omicidi di Waltham, Tamerlan Tsarnaev era stato segnalato all’FBI e alla CIA dai servizi di sicurezza russi e sauditi, i quali avevano fornito informazioni “molto precise” sui suoi rapporti con l’estremismo jihadista, aggiungendo oltretutto che possibili attentati erano in preparazione in una delle più importanti città degli Stati Uniti.

Ciononostante, oltre a non essere stato disturbato dalla polizia dopo i tre omicidi in Massachusetts, Tsarnaev ha potuto recarsi liberamente in Daghestan e in Cecenia nel gennaio del 2012 e rientrare sei mesi più tardi negli Stati Uniti pur essendo stato messo su una lista di possibili sospettati di legami con il terrorismo internazionale.

L’FBI, da parte sua, ha sempre sostenuto di avere condotto indagini scrupolose sulla famiglia Tsarnaev dopo le segnalazioni di Russia e Arabia Saudita ma che non erano emersi elementi per un’incriminazione. L’unico errore ammesso dall’FBI sarebbe stato perciò quello di non avere informato dei precedenti di Tsarnaev le forze di polizia locali e dello stato del Massachusetts, vale a dire un’innocente omissione - accettata sia dai media che dai politici di Washington - che nasconde con ogni probabilità le manovre segrete del governo e i rapporti a dir poco ambigui intrattenuti con gli autori dell’attentato di Boston.

I rapporti tra le agenzie del governo USA e i membri della famiglia Tsarnaev non sono comunque limitati ai fatti appena esposti. Alcune rivelazioni apparse sui media americani nelle settimane successive all’attentato di Boston avevano mostrato come Ruslan Tsarni, zio di Tamerlan e Dzhokhar Tsarnaev, avesse fondato nel 1995 il cosiddetto Congresso delle Organizzazioni Internazionali Cecene (CCIO), verosimilmente uno strumento della CIA per fornire armi ai ribelli della repubblica autonoma russa nel Caucaso.

La sede del CCIO risultava essere presso un indirizzo di Rockville, nel Maryland, corrispondente all’abitazione di Graham Fuller, vice-direttore del Consiglio per l’Intelligence Nazionale della CIA durante la presidenza Reagan e agente segreto operativo in molti paesi, tra cui Afghanistan, Yemen e Arabia Saudita, prima di lasciare ufficialmente l’agenzia nel 1988 a causa del suo coinvolgimento nello scandalo Iran-Contras. A conferma dei legami tra Tsarni e Fuller, entrambi hanno poi confermato che la figlia di quest’ultimo era stata sposata con lo zio dei fratelli Tsarnaev negli anni Novanta.

Contrariamente alla versione ufficiale - che definisce i fratelli Tsarnaev come due individui isolati e disturbati, passati attraverso un processo di radicalizzazione autonomo e impossibile da individuare - gli accusati dell’attentato alla maratona di Boston erano ben noti da tempo alle autorità di polizia americane, come quasi sempre è accaduto da un decennio a questa parte in occasione di episodi simili sventati o portati a termine.

Dietro all’apparenza di errori inevitabili o della mancanza di comunicazione tra i vari organi della sicurezza nazionale, sembra nascondersi dunque anche dietro ai fatti di Boston una realtà ben diversa. Una realtà, cioè, che potrebbe rivelare la doppiezza del governo americano nei confronti dei gruppi estremisti indicati da oltre un decennio come nemici giurati degli Stati Uniti e che, secondo le necessità, vengono invece utilizzati per i propri fini strategici, finendo talvolta per sfuggire di mano alle agenzie incaricate di gestirne i rapporti, con conseguenze tragiche come la strage alla maratona di Boston.

di Michele Paris

Nelle elezioni di domenica prossima per il rinnovo della metà dei seggi della camera alta del parlamento (Dieta) giapponese, il partito Liberal Democratico (LDP) di governo dovrebbe riuscire a conquistare la maggioranza assoluta senza troppe difficoltà, bissando il nettissimo successo nel voto per la camera bassa dello scorso dicembre che aveva riportato alla guida dell’esecutivo l’ex premier Shinzo Abe. L’imminente appuntamento con le urne metterà così fine al parlamento diviso, consentendo al primo ministro di provare a perseguire con più agio le politiche all’insegna del militarismo e della liberalizzazione dell’economia annunciate da mesi.

Secondo un recentissimo sondaggio di opinione condotto a inizio settimana da alcuni media nipponici, l’LDP e il suo partner di governo - il partito Nuovo Komeito - dovrebbero assicurarsi almeno 70 dei 121 seggi in palio alla Camera dei Consiglieri. Al contrario, il Partito Democratico del Giappone (DPJ) di centro-sinistra sembra essere avviato ad incassare una nuova pesantissima batosta, essendo accreditato di meno della metà dei 44 seggi attualmente detenuti e messi in palio domenica.

La metà dei seggi totali (242) della camera alta del Parlamento di Tokyo viene rinnovata ogni tre anni. Nel voto del 2010, il DPJ allora al governo aveva perso terreno rispetto a tre anni prima, impedendo però ai liberal democratici di conquistare la maggioranza e mantenendo, dopo il passaggio di consegne al governo a fine 2012, la facoltà di ostacolare l’avanzamento della legislazione approvata dalla camera bassa.

A determinare il praticamente certo successo di Abe e del suo partito nelle elezioni del 21 luglio sarà soprattutto la persistente ostilità nutrita dalla maggioranza dei giapponesi per il DPJ. Quest’ultimo partito, infatti, dopo il trionfo nel voto del 2009, aveva mancato tutte le principali promesse di cambiamento, abbandonando ben presto le politiche di spesa prospettate in campagna elettorale, così come i tentativi di prendere relativamente le distanze dagli Stati Uniti e operare un certo ravvicinamento alla Cina.

Inoltre, il governo Abe potrà beneficiare di alcuni segnali di ripresa economica nel paese dopo due decenni di stagnazione e l’ulteriore battuta d’arresto seguita allo tsunami e al conseguente disastro nucleare del 2011.

Questo artificioso e, con ogni probabilità, momentaneo successo sarebbe dovuto ad una serie di misure propagandate dalla stampa locale e internazionale col nome di “Abenomics” che consistono sostanzialmente nell’immissione di denaro nel sistema finanziario grazie all’intervento della Banca centrale del Giappone e all’adozione di provvedimenti di libero mercato.

La politica monetaria simile al cosiddetto “quantitative easing” promosso da qualche anno dalla Fed statunitense ha determinato una svalutazione dello yen, favorendo sensibilmente le esportazioni giapponesi a discapito dei più immediati concorrenti (Cina, Corea del Sud, Taiwan). L’obiettivo della banca centrale è quello di giungere ad un livello di inflazione pari al 2%, così da interrompere la persistente tendenza deflattiva degli ultimi vent’anni.

Nonostante l’entusiasmo di commentatori e giornali economici, la ricetta Abe ha però finora portato qualche beneficio solo alle grandi compagnie esportatrici e ai detentori di titoli finanziari grazie all’ingente quantità di denaro immesso sui mercati. L’annunciato aumento generalizzato degli stipendi e dei consumi, al di là di quelli relativi ai beni di lusso, non sembra invece essersi ancora materializzato. Oltretutto, le politiche promosse dal governo liberal democratico includono una serie di “riforme” per flessibilizzare ulteriormente il mercato del lavoro che avranno un impatto pesantissimo sulle fasce più basse della popolazione, prevedibilmente escluse dai presunti benefici generati dalle liberalizzazioni.

La scommessa di Abe, secondo alcuni, rischia anche di peggiorare ulteriormente i problemi del Giappone. Innanzitutto, il debito pubblico, superiore al 200% del PIL, potrebbe raggiungere livelli insostenibili se non venisse innescata una solida ripresa economica. Come ha spiegato mercoledì l’ex “trader” Satyajit Das sul sito di informazione economica MarketWatch, l’aggressiva politica monetaria della Banca centrale giapponese e la svalutazione dello yen potrebbero poi causare la fuga di capitali privati dal paese, alla ricerca di “interessi più alti e del mantenimento del potere d’acquisto”.

Le “Abenomics”, il cui eventuale fallimento avrebbe conseguenze ben oltre i confini del Giappone, rischiano anche di innescare una guerra di valute in Estremo Oriente e non solo. I paesi vicini, infatti, potrebbero mettere in atto misure monetarie simili dopo che la loro competitività è già stata colpita con una riduzione dell’export e dei tassi di crescita delle rispettive economie.

Dall’ambito economico, questi conflitti potrebbero facilmente sfociare in scontri militari, come è già apparso chiaro dal riesplodere di una serie di contese territoriali nella regione, in particolare tra Tokyo e Pechino attorno alle isole Senkaku (Diaoyu per i cinesi), alimentate anche dalla “svolta” asiatica degli Stati Uniti in funzione di contenimento dell’espansionismo cinese.

Non a caso, proprio l’impulso al militarismo è l’altra faccia del progetto del premier Abe per il suo paese, sottolineato in primo luogo dalla volontà di modificare la costituzione nipponica per abolire gli “articoli pacifisti”, quelli cioè che assegnano alle forze armate una funzione esclusivamente difensiva. Per raggiungere questo obiettivo, Abe intende cambiare le regole previste per apportare modifiche alla costituzione. Mentre ora qualsiasi emendamento deve essere approvato dai due terzi di entrambe le camere del parlamento e da un referendum popolare, secondo la proposta del governo basterebbe invece un voto della maggioranza semplice dei due rami della Dieta.

Per giustificare una simile svolta militarista tutt’altro che popolare tra i giapponesi, l’esecutivo liberal democratico sta mettendo in atto una strategia volta ad ingigantire le minacce esterne che graverebbero sul paese. L’annuale rapporto del ministero della Difesa giapponese, diffuso settimana scorsa, ha ad esempio elencato le crescenti minacce alla sicurezza nazionale del paese, a cominciare proprio dalle dispute territoriali con la Cina e dall’atteggiamento sempre più bellicoso della Corea del Nord.

L’insistenza su questi presunti pericoli che graverebbero sul Giappone si accompagna ad una retorica nazionalista sempre più marcata da parte del governo Abe ed ha portato al primo aumento del bilancio destinato alla difesa da 11 anni a questa parte, salito quest’anno a 46 miliardi di dollari.

Oltre a dipingere l’ascesa militare della Cina in termini particolarmente critici, il rapporto della Difesa mette in luce due punti fondamentali: la necessità di assegnare alle forze armate giapponesi la facoltà di intraprendere azioni militari “preventive” contro nemici stranieri e la maggiore cooperazione con l’alleato americano come punto fermo della strategia legata alla sicurezza nazionale.

I suggerimenti contenuti del rapporto annuale sono stati ribaditi dal ministro della Difesa, Itsunori Onodera, in un’intervista rilasciata martedì al Wall Street Journal, nella quale sono state ricordate le questioni più delicate che i paesi dell’Estremo Oriente devono fronteggiare, senza peraltro notare come esse siano in gran parte aggravate proprio dall’atteggiamento sempre più aggressivo mostrato da Tokyo - così come di Washington - in questi ultimi mesi.

In ogni caso, le modifiche allo status delle forze armate giapponesi sono in gran parte rimaste fuori dal dibattito elettorale di questi giorni pur essendo allo studio di una speciale task force nominata dal premier Abe poco dopo il suo ritorno al potere nel dicembre scorso. Il nuovo approccio del governo liberal democratico ai temi della sicurezza nazionale verrà reso noto in maniera ufficiale entro la fine dell’anno, per poi concretizzarsi in un disegno di legge che, secondo la stampa locale, verrà discusso in parlamento nel 2014.

Le politiche messe in atto finora dal governo Abe sia in ambito economico che militare, insomma, subiranno un’accelerata dopo il voto di domenica, con il rischio tuttavia di vedere svanire in fretta il consenso attualmente goduto dal partito di maggioranza, così come di andare incontro ad un’esplosione del conflitto sociale sul fronte interno e di provocare la dura reazione dei paesi percepiti come rivali da un Giappone con rinnovate e pericolose ambizioni da grande potenza.

di Mario Lombardo

L’avanzata dell’esercito fedele al regime siriano di Bashar al-Assad in numerose località del paese mediorientale sta contribuendo ad aggravare le divisioni all’interno di un’opposizione armata alla quale l’Occidente sta cercando disperatamente di dare il proprio sostegno materiale per ribaltare le sorti del conflitto senza rafforzare le frange più estremiste.

Lo scivolamento verso uno scontro aperto tra le varie fazioni che compongono l’opposizione al regime è apparso evidente la scorsa settimana con l’assassinio nella provincia occidentale di Latakia di un comandante del cosiddetto Libero Esercito della Siria. L’uccisione di Kamal Hamami è stata opera di una milizia integralista legata ad Al-Qaeda, denominata Stato Islamico dell’Iraq e della Siria (ISIS), in seguito ad una disputa con uno dei leader locali di quest’ultima.

Tra le varie motivazioni per l’accaduto riportare dai media, ci sarebbe una dichiarazione emessa dal Libero Esercito della Siria nella quale veniva affermato il rispetto delle minoranze alauita e cristiana nel paese. Alla base dello scontro tra bande rivali potrebbe però anche esserci il controllo dei posti di frontiera nel nord della Siria, da cui transitano armi e beni di prima necessità per la popolazione e che spesso i “ribelli” sfruttano per imporre pesanti tributi sul loro passaggio.

Solo poche ore dopo l’assassinio del comandante Hamami, scontri a fuoco tra gruppi armati anti-Assad sono esplosi anche ad Aleppo, in particolare nella località di Bustan al-Qasr, nuovamente a causa di dispute legate al controllo dei vari quartieri della città. L’impopolarità delle milizie è stata poi confermata da una sorta di rivolta andata in scena qualche giorno fa e che ha avuto come protagonisti alcuni abitanti della parte orientale di Aleppo. Questi ultimi hanno infatti contestato duramente le formazioni “ribelli” che impedivano il transito di cibo e medicinali destinati ai loro familiari che vivono nelle aree sotto il controllo del governo.

Questi ed altri scontri interni all’opposizione - come il bombardamento di un deposito di armi del Libero Esercito da parte dei jihadisti a Idlib nella giornata di sabato - indicano una più che probabile resa dei conti nel prossimo futuro tra le fazioni secolari più vicine all’Occidente e quelle di orientamento fondamentalista. Il quotidiano britannico Daily Telegraph, ad esempio, ha scritto che in seguito alla morte del comandante Hamami, il Libero Esercito della Siria starebbe preparando una ritorsione contro l’ISIS nella provincia di Latakia.

La crescente aggressività dei gruppi integralisti è stata in ogni caso sfruttata dai vertici dell’opposizione “moderata” per lanciare nuove suppliche all’Occidente e, in particolare, agli Stati Uniti per accelerare il promesso invio di armi pesanti, così da emarginare le formazioni fondamentaliste e provare a contrastare l’offensiva in corso in quasi tutto il paese da parte del regime.

Dopo avere ripreso il controllo della città di Qusayr al confine con il Libano nel mese di giugno, le forze di Assad sarebbero infatti ora sul punto di liberare Homs dalla presenza dei “ribelli”, mentre in questi giorni gli scontri si sono intensificati anche in alcuni quartieri di Damasco controllati dall’opposizione, tra cui quello di Qaboun. Sempre a Damasco, poi, un’autobomba fatta esplodere nei pressi di una stazione di polizia ha ucciso almeno 13 persone nella giornata di lunedì, allungando l’elenco delle vittime causate da attentati terroristici ad opera dei gruppi jihadisti.

Le difficoltà che stanno attraversando le fazioni “ribelli” sono apparse in ogni caso evidenti anche dalla persistente incapacità a formare quello che dovrebbe fungere da governo provvisorio a Damasco dopo l’eventuale caduta di Assad. Ciò viene da tempo richiesto dai loro sponsor in Occidente e in Medio Oriente, così da dare una parvenza di efficienza e unità ad un’opposizione che rimane al contrario profondamente divisa tra le varie correnti che la compongono.

Le divisioni sono peraltro la conseguenza non solo della loro sostanziale impopolarità tra la popolazione ma anche del conflitto tra i paesi che le sostengono e che operano per esercitare la maggiore influenza possibile in Siria.

A questo proposito, la recente elezione a capo della cosiddetta Coalizione Nazionale delle Forze della Rivoluzione Siriana e dell’Opposizione di Ahmed al-Jarba è stata universalmente considerata come una vittoria per l’Arabia Saudita e gli Stati Uniti ai danni del Qatar, rafforzata oltretutto dalle successive dimissioni di colui che avrebbe dovuto fungere da primo ministro, Ghassan Hitto, personaggio al contrario vicino allo stesso emirato e ai Fratelli Musulmani.

Il rovescio patito dal Qatar nella competizione in corso per il dopo-Assad e l’installazione al vertice della Coalizione di un uomo di Riyadh sono legati con ogni probabilità anche al rovesciamento da parte dei militari del presidente islamista Mohamed Mursi in Egitto, anch’egli appoggiato da Doha, e suggeriscono forse un ripensamento generale della strategia dei governi occidentali, sempre più preoccupati per le conseguenze della loro politica irresponsabile che in due anni e mezzo ha fatto confluire in Siria decine di migliaia di guerriglieri integralisti che potrebbero addirittura finire per controllare un intero paese nel cuore del Medio Oriente.

Un qualche ripensamento sulla fornitura di armi ai “ribelli” è stato espresso così dal primo ministro britannico, David Cameron, il quale lunedì si sarebbe finalmente reso conto dei vari effetti collaterali che comporterebbe una scelta simile. In primo luogo, hanno riportato i giornali del Regno Unito, Cameron ha riconosciuto il rischio concreto - per non dire la certezza - che le armi finirebbero nella mani delle formazioni jihadiste attive in Siria. Inoltre, senza probabilmente incidere sulle sorti del conflitto, la decisione coinvolgerebbe Londra in una vera e propria guerra, facendo aumentare sensibilmente il rischio per la sicurezza del paese.

Sulla frenata di Cameron potrebbe avere influito non solo la resistenza della Camera dei Comuni di Londra ad approvare una misura che consenta al governo di inviare armi all’opposizione anti-Assad ma forse anche una notizia diffusa qualche giorno fa dalla Reuters che ha rivelato la presenza in Siria di centinaia di talebani pakistani (Tehrik-i-Taliban), impegnati a combattere a fianco dei “ribelli” sostenuti dall’Occidente.

Anche negli Stati Uniti sembra regnare l’incertezza, visto che l’annuncio del mese scorso del presidente Obama di inviare armi ai “ribelli” è rimasto per ora senza seguito a causa delle perplessità di molti membri del Congresso a Washington, i quali continuano ad impedire lo sblocco delle forniture destinate all’opposizione siriana.

Un articolo del Wall Street Journal di domenica scorsa ha anche rivelato come un gruppo di consulenti legali dell’amministrazione Obama abbia messo in guardia il presidente dalla possibile violazione del diritto internazionale se si dovesse dare il via libera alla spedizione di armi all’opposizione siriana. Una tale eventualità, commenta il quotidiano newyorchese, potrebbe addirittura legittimare una reazione di Assad nei confronti degli Stati Uniti.

Il via libera alle armi, infatti, dovrebbe avvenire senza l’autorizzazione del Consiglio di Sicurezza dell’ONU - dove Cina e Russia continueranno a porre il veto ad ogni risoluzione che apra la strada ad un intervento esterno in Siria - e metterebbe gli USA in una posizione legalmente ingiustificabile, vale a dire di sostenitori materiali di una parte coinvolta in una guerra civile in un paese estero.

Un tale scenario finirebbe per produrre una situazione paradossale rispetto ai principi che ufficialmente ispirano le azioni di Washington, mettendo cioè gli Stati Uniti fuori legge e legittimando invece un’eventuale ritorsione armata di Assad contro obiettivi americani.

Che una mossa di questo genere possa risultare contraria al diritto internazionale non comporta comunque l’abbandono di essa da parte americana. A Washington, anzi, sono in corso da tempo manovre pseudo-legali per fare apparire legittima non solo la decisione di fornire armi all’opposizione in Siria ma anche quella di imporre una fly-zone sul paese mediorientale o di sferrare attacchi aerei e bombardamenti mirati contro le difese del regime di Assad.

La volontà degli USA di rispettare le norme del diritto internazionale è d’altra parte risaputa, così come lo è quella di Israele, le cui forze sottomarine lo scorso 5 luglio hanno per l’ennesima volta agito al di fuori di ogni giustificazione legale lanciando un nuovo attacco contro un obiettivo in territorio siriano, ormai il quarto dall’inizio dell’anno.

A rivelarlo sono state fonti governative americane e britanniche, le quali hanno confermato come Tel Aviv - in assenza di qualsiasi provocazione dalla Siria - abbia colpito un deposito di missili anti-nave di fabbricazione russa in dotazione del regime di Damasco e conservato nella città costiera di Latakia.

di Michele Paris

L’assoluzione del vigilante George Zimmerman in un tribunale statale della Florida per l’assassinio del 17enne di colore Trayvon Martin ha scatenato nei giorni scorsi una serie di manifestazioni di protesta in numerose città degli Stati Uniti per denunciare un procedimento che è apparso, a tutti gli effetti, come una tragica parodia della giustizia.

Organizzate in buona parte da gruppi e attivisti che si battono per i diritti delle minoranze di colore, le proteste sono andate in scena nelle piazze di New York, Los Angeles, San Francisco, Chicago, Miami, Atlanta, Philadelphia e di molte altre città, dove le forze di polizia hanno cercato di disperdere i manifestanti per evitare un’esplosione della rabbia popolare.

Secondo quanto riportato dalla Associated Press, inoltre, nella mattinata di lunedì a Los Angeles sono state arrestate 80 persone dopo che un raduno pacifico ma non autorizzato di dimostratori sul Sunset Boulevard, a Hollywood, si è scontrato con un centinaio di agenti anti-sommossa.

Il verdetto nel caso di Trayvon Martin era stato raggiunto e comunicato nella serata di sabato da una giuria composta da sei donne, nessuna delle quali afro-americana. La giuria ha riconosciuto la legittima difesa di George Zimmerman, il quale la sera del 26 febbraio 2012 aveva sparato con la propria pistola - detenuta legalmente - al giovane adolescente disarmato mentre si stava recando verso l’abitazione del padre e della sua convivente in una “gated community” di Sanford, in Florida.

Secondo l’opinione dei media, dopo tre settimane di udienze in un tribunale della contea di Seminole, i legali di Zimmerman avrebbero svolto un lavoro decisamente più meticoloso ed efficace rispetto all’accusa, nonostante i fatti emersi avessero messo in luce la debolezza della tesi dell’autodifesa del responsabile dell’omicidio.

Ad influire sul verdetto è stato anche l’atteggiamento delle forze di polizia, le quali hanno sostanzialmente simpatizzato per Zimmerman e per il suo incarico di coordinatore delle ronde che vigilavano sul quartiere residenziale dove è stato assassinato Trayvon Martin. La predisposizione delle autorità di polizia e giudiziarie nei confronti di Zimmerman era risultata poi evidente dal fatto che, in seguito all’assassinio, la procura lo aveva tardivamente incriminato per omicidio colposo e omicidio di secondo grado solo dopo una campagna pubblica sostenuta dai genitori del 17enne di colore.

Zimmerman e i suoi legali, da parte loro, hanno sempre sostenuto la legittimità dell’accaduto, appellandosi al contenuto di una legge ultra-reazionaria definita “stand your ground”, la quale consente a chiunque abbia facoltà di portare con sé un’arma, grazie alla legislazione permissiva dello stato della Florida, di utilizzare la forza quando sussiste una minaccia alla propria vita, invece di “fare un passo indietro” e riparare in un luogo sicuro.

Nella notte del 26 febbraio 2012, in ogni caso, George Zimmerman aveva chiamato il 911 dopo avere notato per strada Trayvon Martin, da lui definito “un tipo realmente sospetto”, deducendo ciò soltanto dal colore della pelle e da una felpa che indossava con il cappuccio portato sopra la testa per ripararsi dalla pioggia. Zimmerman avrebbe poi detto al servizio emergenze che il giovane stava dirigendosi nella sua direzione per poi affermare subito dopo che si stava invece allontanando.

Dall’altro capo del telefono venne detto chiaramente a Zimmerman di non inseguire il 17enne afro-americano ma, pochi minuti più tardi, quest’ultimo sarebbe finito vittima di un unico colpo di pistola diretto al cuore. Poco prima di morire, Trayvon Martin aveva parlato al telefono con un’amica che ha successivamente testimoniato come il giovane le avesse detto di sentirsi inseguito da “un bianco in atteggiamento ostile”.

Lo sparo di Zimmerman è avvenuto dopo una colluttazione che non ha avuto nessun testimone oculare. Il 28enne vigilante - la cui ricostruzione degli eventi è apparsa spesso contraddittoria - ha sostenuto di essere stato aggredito e di avere utilizzato la sua pistola per legittima difesa, anche se, ad esempio, le ferite riportate erano state giudicate superficiali, mostrando come la sua vita non fosse stata messa in pericolo in nessun modo.

Le prove e la ricostruzione dei fatti indicano dunque come Trayvon Martin, tutt’al più, abbia agito per difendersi da una persona armata che non aveva alcun motivo per inseguirlo, oltretutto dopo che il 911 gli aveva chiesto di astenersi dal farlo.

Di fronte alla reazione popolare per il verdetto di assoluzione e in risposta ad un appello lanciato dall’Associazione Nazionale per la Promozione delle Persone di Colore (NAACP), il Dipartimento di Giustizia di Washington ha fatto sapere di volere studiare la possibilità di avviare un procedimento civile contro George Zimmerman. Un’indagine federale nei suoi confronti era peraltro già stata aperta dopo l’assassinio di Trayvon Martin ma venne successivamente abbandonata per consentire l’avanzamento del processo nel tribunale statale della Florida.

Un’eventuale causa civile potrebbe essere intentata solo se il Dipartimento di Giustizia dovesse constatare l’esistenza di prove che indichino motivazioni di tipo razziale nelle azioni di Zimmerman. Nella giornata di lunedì, tuttavia, i media americani hanno riportato il parere di agenti dell’FBI che hanno indagato sul caso e che hanno escluso che il responsabile della morte del teenager abbia agito in base a motivazioni di ordine razziale.

L’annuncio dell’amministrazione Obama appare quindi come un tentativo di placare la rabbia ampiamente diffusa tra la popolazione di colore e, sia pure senza avere seguito, il fatto di prospettare una possibile causa civile di questo genere contribuisce a mantenere convenientemente l’intera vicenda all’interno dei confini del delitto impunito di stampo razzista.

Le critiche al verdetto di assoluzione di attivisti storici per i diritti dei neri come Jesse Jackson o Al Sharpton - entrambi non a caso impegnati a chiedere che le manifestazioni di protesta non sfocino in episodi di violenza - si basano soltanto su considerazioni di ordine morale, come se il razzismo fosse un fattore indipendente dalla realtà sociale in cui si svolgono i fatti e attorno alla quale un qualsiasi dibattito pubblico continua ad essere boicottato.

Se, in effetti, la componente razzista ha con ogni probabilità influito sia sulle azioni di George Zimmerman sia sul verdetto che gli consentirà di tornare libero nonostante l’assassinio di un ragazzo di 17 anni, i drammatici eventi del febbraio 2012 in una cittadina della Florida e la farsa del procedimento legale conclusosi qualche giorno fa hanno a che fare soprattutto con l’evoluzione stessa della società americana, sottoposta a processi di trasformazione modellati da politiche reazionarie come quelle che legittimano, se non addirittura esaltano, il militarismo e l’uso di armi da fuoco.

Uno scenario, quest’ultimo, che produce inevitabilmente una sottocultura alimentata dalle stesse azioni del governo e dalla retorica dei politici di Washington di cui si è nutrito lo stesso Zimmerman e che, come dimostra la sostanziale complicità delle forze di polizia, gli ha permesso fin dall’inizio di essere certo di potere continuare a vivere da libero cittadino con una pistola alla cintura dopo avere tolto la vita senza ragione ad un adolescente di colore che non aveva commesso alcun crimine.


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