di Michele Paris

La disputa attorno alle elezioni generali in Cambogia del 28 luglio scorso continua a pesare sulle sorti del paese del sud-est asiatico anche dopo i colloqui dei giorni scorsi tra il primo ministro, Hun Sen, e il leader dell’opposizione, Sam Rainsy. Pur avendo fatto segnare una netta flessione, il partito al potere - Partito Popolare Cambogiano (CPP) - è riuscito a conservare la maggioranza in Parlamento, ma le accuse di brogli e irregolarità hanno dato vita a manifestazioni di protesta e richieste di riforma in un paese ancora fermamente situato nell’orbita di Pechino ma sempre più esposto agli approcci degli Stati Uniti nel quadro della cosiddetta “svolta” asiatica pianificata dall’amministrazione Obama in funzione anti-cinese.

I dati ufficiali resi noti solo l’8 settembre scorso dalla Commissione Elettorale Nazionale hanno sostanzialmente confermato quelli provvisori diffusi nel mese di agosto. Il CPP ha cioè conquistato 68 dei 123 seggi dell’Assemblea Nazionale cambogiana, mentre il Partito della Salvezza Nazionale (CNRP) dell’ex ministro delle Finanze Rainsy si sarebbe fermato a 55.

Quest’ultimo e i suoi sostenitori avevano subito contestato i risultati, affermando che le urne, se le operazioni di voto fossero state regolari, avrebbero dovuto premiare il CNRP con almeno 63 seggi, sufficienti a conquistare la maggioranza assoluta e a rimuovere dal potere il CPP - o il suo predecessore, il Partito Rivoluzionario del Popolo Kampucheano - per la prima volta dalla fine del regime di Pol Pot e dei Khmer Rossi.

I ricorsi presentati da Rainsy, tuttavia, sono stati respinti sia dalla Commissione Elettorale che dalla Corte Costituzionale, due organi peraltro composti da fedelissimi del premier. Irregolarità nelle operazioni di voto sono state in realtà riscontrate ma non tali da giustificare l’annullamento del voto o da confermare i risultati proposti dall’opposizione.

Le proteste di piazza scoppiate dopo il voto si sono così intensificate nei giorni scorsi fino a sfociare in scontri violenti tra i manifestanti e la polizia. Nella giornata di domenica, si sono contati cinque feriti e un morto nella capitale, Phnom Penh, mentre le manifestazioni sono proseguite in maniera relativamente pacifica fino a martedì.

Già sabato scorso, tuttavia, Hun Sen e Sam Rainsy erano stati ricevuti dal capo nominale dello stato cambogiano, il re Norodom Sihamoni, il quale aveva invitato i due leader politici a superare i propri disaccordi e i deputati dell’opposizione a lasciar cadere la loro minaccia di boicottare l’inaugurazione dei lavori della nuova Assemblea Nazionale prevista per il 23 settembre prossimo.

Come già anticipato, Hun Sen e Rainsy si sono poi incontrati lunedì e martedì ma senza risultati significativi se non il raggiungimento di un vago accordo per riformare la Commissione Elettorale. Il primo ministro, invece, non ha accolto la richiesta principale dell’opposizione, cioè l’avvio di un’inchiesta indipendente - oppure condotta dalle Nazioni Unite - sulla regolarità delle elezioni di fine luglio.

Presentatosi martedì di fronte a circa 20 mila sostenitori a Phnom Penh, Rainsy ha ammesso che le trattative si sono risolte in un nulla di fatto ma ha minacciato nuove manifestazioni nel caso il Parlamento venisse convocato senza un accordo sulle discusse elezioni. Sempre possibile sarebbe infine anche il boicottaggio dell’Assemblea Nazionale, nonostante i tentativi di sventare questa ipotesi da parte del sovrano.

Se Hun Sen non sembra finora intenzionato a cedere terreno e continua così a dare l’impressione di volere trattare da una posizione di forza, sono in molti a pensare che il premier finirà per fare più di una concessione all’opposizione, soprattutto nel caso le proteste di piazza dovessero riprendere o diffondersi dalla capitale al resto del paese.

Già l’avere accettato di trattare con i leader dell’opposizione rappresenta d’altra parte una sorta di novità per lo stile di governo autoritario dell’ex ufficiale dei Khmer Rossi, fuggito in Vietnam nel 1977 per sottrarsi ad una purga interna al regime e successivamente installato al potere dall’esercito di quest’ultimo paese dopo l’invasione della Cambogia nel 1979 che pose fine alla dittatura di Pol Pot.

Il risultato della quinta elezione multipartitica in Cambogia dal 1993 è stato comunque estremamente negativo per il CPP, il quale ha perso ben 22 seggi rispetto al voto del 2008, vinto a valanga contro un’opposizione frammentata.

Quest’ultima, nella tornata elettorale di luglio ha invece beneficiato della fusione tra il Partito dei Diritti Umani dell’attivista Kem Sokha e del Partito Sam Rainsy, ma soprattutto ha cavalcato sapientemente il malcontento ampiamente diffuso in Cambogia per gli elevati livelli di povertà e disoccupazione, le crescenti disparità sociali, la corruzione endemica e, negli ultimi tempi, le sempre più frequenti concessioni terriere garantite spesso arbitrariamente agli investitori stranieri.

Sam Rainsy, inoltre, ha goduto di una certa popolarità dopo essere stato accolto trionfalmente dai suoi sostenitori quando lo scorso mese di luglio era tornato in patria grazie ad un provvedimento di clemenza del re cambogiano. Questa misura del sovrano aveva messo fine ad un esilio volontario per sfuggire ad una serie di condanne, a detta di Rainsy, politicamente motivate. La grazia nei suoi confronti era stata con ogni probabilità decisa dallo stesso premier Hun Sen il quale, per il timore delle crescente tensioni sociali, aveva acconsentito al suo ritorno nel paese alla vigilia delle elezioni.

Già dirigente di svariati istituti finanziari in Francia prima del suo ritorno in Cambogia nel 1992, Rainsy non ha però potuto candidarsi per le elezioni concluse qualche settimana fa ma ha comunque condotto una breve e aggressiva campagna elettorale, fatta spesso di invettive anti-cinesi e anti-vietnamite.

Se il suo partito ha saputo trovare il gradimento soprattutto di buona parte degli elettori più giovani e sfiduciati, le politiche economiche proposte da Rainsy non si discostano particolarmente da quelle di Hun Sen. Per entrambi, infatti, la Cambogia deve continuare ad attrarre il capitale straniero attraverso la messa a disposizione di manodopera indigena a costi irrisori.

Se, però, Hun Sen e il CPP sono stati finora fedeli alleati della Cina, le inclinazioni di Rainsy e del CNRP risultano essere decisamente filo-occidentali, come dimostrano gli appelli lanciati agli Stati Uniti e all’Europa per sostenere la loro battaglia volta a ribaltare l’esito del voto di luglio.

Gli Stati Uniti, da parte loro, non hanno nascosto negli ultimi anni la volontà di stabilire rapporti cordiali con il governo di Phnom Penh e Washington ha trovato in Hun Sen un interlocutore disponibile a valutare un possibile graduale sganciamento da Pechino, così da bilanciare la propria politica estera tra le prime due economie del pianeta, secondo alcuni sull’esempio del percorso intrapreso dalla ex Birmania (Myanmar).

L’amministrazione Obama, in particolare, nel quadro della nuova strategia asiatica messa in atto per contenere l’espansionismo di Pechino, ha rivolto la propria attenzione anche alla Cambogia, con cui la cooperazione militare era stata avviata già nel 2006. Gli aiuti economici destinati a questo paese sono così aumentati sensibilmente negli ultimi anni, mentre a suggellare la fase ascendente dei rapporti diplomatici bilaterali nel novembre del 2012 Barack Obama è diventato il primo presidente americano in carica a recarsi in visita ufficiale in Cambogia.

Sul fronte delle elezioni, la Casa Bianca e il Dipartimento di Stato hanno per ora mantenuto una posizione cauta, verosimilmente in attesa di verificare gli sviluppi della situazione. La settimana scorsa, ad esempio, una portavoce del Dipartimento di Stato si era limitata a chiedere una “revisione trasparente” delle presunte irregolarità del voto, senza però appoggiare le proteste dell’opposizione.

La circospezione dell’amministrazione Obama non esclude in ogni caso il favore di Washington per un rafforzamento del partito filo-occidentale di Rainsy, anche se il sostanziale silenzio in relazione ai presunti brogli rivela allo stesso tempo una certa soddisfazione per i rapporti stabiliti con l’attuale regime, nonché la fiducia nella possibilità di allentare comunque il legame tra la Cambogia e la Cina in un futuro non troppo lontano.

di Fabrizio Casari

Le rivelazioni fornite da Edward Snowden circa l’intesa ed estesa attività di spionaggio degli Stati Uniti a danno tanto dei paesi ritenuti “ostili” come di quelli “amici”, ha procurato un deciso smacco diplomatico per Barak Obama, che si è visto rifiutare con nettezza dal Brasile l’unico incontro fino ad ora programmato nell’agenda di Obama entro la fine del 2013. La data fissata era quella del prossimo 23 Ottobre. Era prevista una visita di Stato, cioè il massimo livello che gli Stati Uniti offrono ai loro ospiti stranieri. Ma Dijlma Roussef, energica ed orgogliosa Presidente del Brasile, ha rifiutato l’invito.

Poteva annullare l’incontro attraverso le sole vie diplomatiche e poteva farlo scegliendo una motivazione qualunque e già la cosa in sé avrebbe destato scalpore, non essendo certo una consuetudine quella di rifiutare una visita di Stato a Washington. Ma Dijlma ha invece scelto di rendere pubblico il gran rifiuto, facendolo accompagnare da un comunicato breve ma durissimo nel quale spiega le ragioni del rifiuto all’invito alla Casa Bianca. “Le pratiche illegali delle intercettazioni delle comunicazioni e dati dei cittadini, aziende e membri del governo brasiliano costituiscono un fatto grave, un attentato alla sovranità nazionale e sono incompatibili con la convivenza democratica tra paesi amici”.

Le rivelazioni di Snowden, pubblicate con particolare evidenza dal The Guardian e, successivamente, dal gigante televisivo brasiliano Rede Globo, dimostrano come la NSA si sia dedicata a spiare soprattutto la presidenza e la principale azienda petrolifera pubblica, la Petrobras, e le rivelazioni erano state oggetto di una presa di posizione durissima sia da parte della Presidente Roussef che del suo predecessore Lula Da Silva. Proprio la scorsa settimana, i due avevano sostenuto un incontro ed entrambi avevano convenuto come fossero indispensabili le scuse formali da parte di Obama.

Il Presidente statunitense, però, non ha ritenuto di pronunciarsi nei termini richiesti dal Brasile e si è limitato ad affidare ad una nota diffusa dalla Casa Bianca la sua “comprensione e dispiacere per le preoccupazioni che le rivelazioni di presunte attività di intelligence degli USA generino in Brasile”. Ma rifiutandosi di assumersi le proprie responsabilità e di indicare le misure che dovrebbe prendere al riguardo, si limita ad annunciare che “cercherà di superare questa fonte di tensioni bilaterali per le vie diplomatiche”. Riguardo il cosa fare e quando, il comunicato della Casa Bianca informa che Obama ha chiesto un’ampia revisione delle attività d’intelligence statunitensi, ma che il processo richiede "tempi lunghi”.

Non poteva bastare e non è bastato. Il Brasile non è disponibile a recitare la parte della zolla d’erba nel "giardino di casa" e fa capire come il rifiuto da parte di Dijlma potrebbe essere solo l’inizio di una fase di rivisitazione dei rapporti politici e commerciali con gli Stati Uniti, benché da Washington si sarebbe fatta trapelare la disponibilità statunitense ad appoggiare la candidatura del Brasile ad un seggio permanente nel Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite. Disponibilità difficile da credere e comunque tutta da verificare.

Brasilia ritiene però che l'eventuale disponibilità USA, ancorchè dubbia, non andrebbe sopravvalutata, giacchè un seggio gli spetterebbe di diritto non solo vista la sua dimensione ed il rilievo internazionale, ma anche perché sarebbe una posizione dalla quale parlerebbe l’intera comunità latinoamericana. Ed é proprio qui, infatti, che risiede la diffidenza di Washington, che vorrebbe utilizzare il Brasile come contraltare parziale alla Cina ma che teme che dare voce e rappresentanza formale in sede Onu alla nuova America Latina possa rappresentare un boomerang per i suoi disegni imperiali. Inoltre, la diplomazia brasiliana ha una storia di grande rilevanza e prestigio e già in diverse occasioni ha rappresentato un ostacolo ai piani di Washington.

L’ultima fu nel 2010, quando insieme alla Turchia il Brasile riuscì a proporre una via d’uscita diplomatica alla tensione crescente tra Occidente e Teheran sul nucleare iraniano. Gli Usa dovettero fare buon viso a cattiva sorte e Lula vide accrescere il suo prestigio internazionale. Ne seguì un significativo incremento del suo scambio commerciale tra Brasile e Iran, cosa certamente poco gradita a Washington.

Ed ora, una delle conseguenze possibili nell’immediato, almeno sul piano della cooperazione commerciale a fini militari, potrebbe essere la sospensione della commessa per i caccia F16 che Brasilia avrebbe dovuto acquistare dagli Stati Uniti. Che senso avrebbe, affermano a Brasilia, fare affari sul terreno strategico con chi ci spia per controllarci e per procurarsi vantaggi illegittimi nelle trattative commerciali?

L’affaire Snowden, così, rallenta inevitabilmente la marcia di riavvicinamento di Washington verso il Cono Sud dell’America Latina. Nel Vertice delle Americhe del 2009, Obama aveva promesso “un nuovo inizio” ai governi latinoamericani, ma non sembra esserci niente di nuovo nelle sue politiche, che anzi uniscono sinistramente identici metodi per “nemici” e “amici”.

Se per i paesi ostili restano in piedi le vecchie fobìe (come il blocco contro Cuba, rinnovato per un altro anno tre giorni orsono in quanto utile per “gli interessi nazionali” ) per quelli che si vorrebbero “amici” si montano nuove intromissioni tramite le agenzie di spionaggio.

Al punto che persino due amici storici come Messico e Colombia hanno preso posizioni durissime circa le prove che hanno dimostrato come i loro rispettivi governi siano stati spiati dalla NSA. Ma se per la Colombia risultano ipocrite le proteste, viste le basi militari e la sovranità politica da tempo consegnate a Washington e per il Messico di Pena Nieto, ultimo dei burattini del circo di Salinas De Gortari, il rischio è quello che la DEA possa decidere di non chiudere tutti e due gli occhi sul matrimonio tra narcos, forze armate e governo, nel caso del Brasile le cose sono decisamente diverse. La dignità e la sovranità del gigante carioca non sembrano acquistabili con una manciata di parole e qualche commessa industriale.

di Michele Paris

Nella giornata di sabato, il ministro degli Esteri russo, Sergei Lavrov, e il Segretario di Stato americano, John Kerry, hanno annunciato il raggiungimento di un accordo sullo smantellamento delle armi chimiche in possesso del regime siriano. I progressi diplomatici registrati a Ginevra faranno comunque ben poco per ridurre il livello di violenza nel paese mediorientale e, nel prossimo futuro, potrebbero anzi essere sfruttati dall’amministrazione Obama proprio per giustificare un intervento militare volto a rimuovere il governo di Bashar al-Assad.

Dopo intensi colloqui portati avanti fin da venerdì nella città svizzera, Lavrov e Kerry hanno tenuto una conferenza stampa congiunta per rendere noti i punti principali di un accordo che dovrebbe ora essere seguito da una risoluzione del Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite.

A favorire un esito per il momento favorevole era stata la rinuncia da parte della delegazione statunitense alla richiesta di includere nel testo della risoluzione l’uso della forza in caso di mancato rispetto da parte della Siria delle condizioni poste per la consegna del proprio arsenale. Vista l’impossibilità di ottenere l’approvazione di Russia e Cina per un’eventuale operazione militare, la risoluzione da presentare all’ONU dovrebbe contenere un riferimento soltanto a possibili sanzioni nei confronti di Damasco.

Secondo quanto affermato da Kerry, la prima ispezione internazionale delle armi chimiche di Assad è prevista per il mese di novembre e l’intero arsenale dovrebbe essere distrutto entro la metà del 2014. Già la prossima settimana, il governo di Damasco dovrà fornire una lista delle proprie armi chimiche, comprese le località in cui esse vengono conservate e i siti di ricerca e produzione. Alle Nazioni Unite, intanto, il segretario generale Ban Ki-moon ha fatto sapere che la Siria ha formalmente aderito alla Convenzione sulle Armi Chimiche ed entrerà a farne parte in maniera definitiva il 14 ottobre.

I dubbi sull’effettiva implementazione dell’accordo di Ginevra alle condizioni decise da Washington e Mosca sono comunque parecchi e legati in primo luogo ai tempi estremamente accelerati che sono stati previsti per un processo che, come risulta chiaro dai precedenti, in condizioni normali dovrebbe durare svariati anni.

Come ha spiegato domenica al New York Times l’esperta di armi chimiche, Amy Smithson, la situazione è “senza precedenti”, visto che si vorrebbe mandare in porto in pochi mesi un procedimento per il quale “servono probabilmente cinque o sei anni”, oltretutto in un paese dove è in corso una sanguinosa guerra civile.

Proprio le difficoltà e gli ostacoli facilmente prevedibili lasciano intravedere la possibilità da parte americana di utilizzare l’accordo sulle armi chimiche di Assad come un nuovo strumento per giungere ad un’aggressione contro la Siria. L’entusiasmo con cui Kerry ha dato l’annuncio dell’intesa nella giornata di sabato e la responsabilità conferita in gran parte alla Russia per la sua implementazione sembrano rispondere perciò ad una strategia ben precisa.

In caso di rallentamento o stallo nello smantellamento dell’arsenale siriano, cioè, gli Stati Uniti potrebbero giustificare la necessità di attaccare il governo di Assad poiché la strada diplomatica sarebbe già stata battuta senza successo nonostante il pieno appoggio dato ad essa dal governo di Washington.

La possibilità dell’uso della forza, d’altra parte, non è svanita nonostante le richieste di Damasco e Mosca di negoziare senza la minaccia di un attacco. Subito dopo le parole di Kerry e Lavrov, infatti, il presidente Obama ha tenuto a precisare che gli USA continueranno a valutare l’ipotesi di agire militarmente in Siria anche senza l’approvazione del Consiglio di Sicurezza dell’ONU.

Se, infine, l’accordo sulle armi chimiche di Assad dovrebbe servire, secondo alcuni osservatori, a facilitare l’avvio di negoziati di pace attraverso la convocazione di una conferenza a Ginevra più volte rimandata negli ultimi mesi, gli Stati Uniti e i loro alleati non sembrano ancora  impegnati seriamente per questo fine.

Ben lontani dal tentare di convincere i “ribelli” a sedersi al tavolo delle trattative con un regime che sta prevalendo dal punto di vista militare, così come dall’interrompere forniture di armi e finanziamenti destinati a formazioni in buona parte affiliate al terrorismo internazionale, i governi che li sostengono hanno lanciato segnali tutt’altro che pacifici in questi giorni.

La scorsa settimana, ad esempio, è stata diffusa la notizia non solo che l’Arabia Saudita avrebbe incrementato il proprio impegno nel sostenere l’opposizione armata, ma che gli stessi Stati Uniti in concomitanza con il faccia a faccia Kerry-Lavrov hanno iniziato a trasferire armi direttamente ai “ribelli” dopo la promessa fatta pubblicamente qualche mese fa dal presidente Obama.

Washington, inoltre, continuerà a subire le pressioni sia dei “ribelli” che di paesi come Turchia o la stessa Arabia Saudita - per non parlare degli ambienti interni che da tempo vogliono una resa dei conti con il regime di Damasco - per decidere di intervenire militarmente in Siria e rimuovere Assad.

I vertici dell’opposizione sostenuta dall’Occidente non hanno infatti atteso a lungo per manifestare la loro contrarietà all’accordo di Ginevra, con i media di tutto il mondo che nel fine settimana hanno ampiamente riportato i malumori del presunto comandante delle forze “ribelli” secolari, generale Salim Idriss.

Gli Stati Uniti, in definitiva, saranno esposti a enormi pressioni nei prossimi mesi per sganciarsi dall’accordo con la Russia e tornare ai preparativi di un’aggressione militare che essi stessi hanno fin dall’inizio auspicato non tanto per punire Assad di un attacco con armi chimiche condotto con ogni probabilità proprio dai “ribelli”, bensì per determinare quel cambio di regime a Damasco che rimane in cima agli obiettivi americani per il Medio Oriente.

di Michele Paris

Tra i più accesi sostenitori della presunta battaglia per la democrazia in corso da oltre due anni in Siria spicca uno dei principali alleati degli Stati Uniti in Medio Oriente: il regno Wahabita dell’Arabia Saudita. Se la monarchia assoluta del Golfo Persico continua ad operare attivamente per rimuovere un regime, come quello di Assad, da loro definito dittatoriale e intento a reprimere senza scrupoli la propria popolazione, le condizioni politiche, sociali e giudiziarie del regno non collocano certo il secondo produttore di petrolio del pianeta tra i modelli democratici. Ciononostante, il regime saudita continua ad essere tra i meno esposti alle pressioni internazionali per migliorare il rispetto dei diritti umani entro i propri confini.

A mettere in piazza una delle scomode realtà del sistema saudita, così come l’ipocrisia della retorica occidentale in merito alla promozione dei valori democratici, è stato un reportage pubblicato questa settimana dal quotidiano libanese Al Akhbar. Nel lungo articolo si cerca di fare luce su alcuni dei meccanismi repressivi del regime di Riyadh attraverso un’indagine sui detenuti politici che popolano le carceri del regno.

Le difficoltà incontrate dall’autore della ricerca sono state molteplici a causa della chiusura del paese mediorientale e dell’estrema segretezza con cui vengono attuate le politiche relative alla “sicurezza nazionale”. In primo luogo, è tutt’altro che certo il numero di prigionieri politici attualmente ospitati nelle carceri saudite. Svariati resoconti giornalistici indicano numeri estremamente diversi, che vanno dai duemila ai 40 mila detenuti, anche se alcuni attivisti locali stimano un totale di oltre 30 mila.

Waleed Abu al-Khair, fondatore dell’organizzazione indipendente Monitor of Human Rights in Saudi Arabia, afferma che è impossibile conoscere il numero esatto, poiché in questo paese esistono numerose carceri segrete. Inoltre, le informazioni sui detenuti vengono tenute nascoste non solo alle associazioni umanitarie ma spesso anche ai loro stessi familiari.

Secondo le autorità saudite, i detenuti politici sarebbero poco più di 2.300 e, ovviamente, essi non sono classificati come tali ma considerati indistintamente “terroristi”. Secondo al-Khair, coloro che effettivamente avrebbero legami con al-Qaeda o altre organizzazioni fondamentaliste violente sono solo una parte dei detenuti e nemmeno la più numerosa. Oltre a costoro ci sono infatti almeno altre due categorie di detenuti e cioè i “riformisti” - che si battono per la creazione di una monarchia costituzionale - e gli attivisti per i diritti umani. Le autorità, in definitiva, “non sostengono mai di avere arrestato riformatori o attivisti per i diritti umani, bensì sempre terroristi”.

Oltre a nascondere la costante repressione ai danni di chiunque venga percepito come una minaccia al regime, l’apparenza di una lotta condotta esclusivamente contro il terrorismo islamista serve anche ad occultare i legami quanto meno ambigui che Riyadh mantiene con i gruppi fondamentalisti stessi, di fatto appoggiati e finanziati nelle loro attività in paesi stranieri per promuovere gli interessi del regno, come in Cecenia o in Siria.

Nella ricostruzione fatta da Al Akhbar delle politiche per la “sicurezza nazionale” saudite emerge come una buona parte dell’attuale popolazione carceraria del paese sia stata arrestata un decennio fa, in particolare in seguito all’esplosione di una ribellione interna, mentre solo negli ultimi anni è stato creato un apposito apparato pseudo-legale culminato nelle recenti leggi “anti-terrorismo”.

La monarchia saudita deve fare i conti soprattutto con la persistente inquietudine che attraversa le proprie province orientali dove vive una consistente e repressa minoranza sciita e dove si trovano ingenti giacimenti petroliferi. Il timore del contagio a queste zone delle proteste scoppiate nel 2011 nel Bahrain spinse anche il governo di Riyadh a inviare le proprie forze armate nel paese vicino per reprimere nel sangue la ribellione contro la casa regnante sunnita.

Tra le poche notizie che filtrano dall’Arabia Saudita, negli ultimi mesi ce ne sono state alcune che hanno confermato come la repressione del dissenso prosegua senza soste. Solo nel corso dell’estate, ad esempio, sette attivisti locali sono stati condannati fino a dieci anni di carcere per avere espresso le proprie opinioni sui social media. Tra le vicende riportate dalla stampa, vanno ricordate anche quelle di alcuni noti difensori dei diritti umani finiti agli arresti, assieme a decine di manifestanti che lo scorso mese di luglio chiedevano notizie sui loro familiari in carcere, spesso senza processo o addirittura dopo avere già scontato la loro pena.

La mano pesante delle autorità saudite si è fatta sentire specialmente dopo la diffusione in molti paesi mediorientali e nordafricani della cosiddetta “Primavera araba” nei primi mesi del 2011. Per prevenire contestazioni sul proprio territorio, le forze di sicurezza hanno così intensificato la repressione, soffocando sul nascere e in maniera violenta qualsiasi manifestazione di protesta e arrestando chiunque fosse anche solo sospettato di avere criticato il regime o avesse chiesto pacificamente delle riforme per il paese.

In Arabia Saudita è comunque la situazione generale dei diritti umani ad essere estremamente preoccupante. Svariati rapporti di organizzazioni internazionali hanno messo in luce in questi anni come nel regno siano diffuse, tra l’altro, violenze e discriminazioni contro le donne, traffico di persone, violazioni sistematiche dei diritti dei minori ma anche dei lavoratori e della libertà religiosa.

Di fronte all’evidenza di questa inquietante macchina della repressione, l’Arabia Saudita non viene punita in nessun modo dalla comunità internazionale. Al contrario, grazie soprattutto alle proprie riserve petrolifere e al ruolo di garante degli interessi occidentali in Medio Oriente, essa figura tra i più fedeli alleati degli Stati Uniti e dei governi europei. Oltre a garantire a Riyadh puntuali forniture degli armamenti più sofisticati, Washington ostenta spesso la partnership con il regno nell’ambito delle proprie campagne imperialiste nascoste dietro la retorica umanitaria e dei diritti democratici, come è avvenuto in Libia e sta avvenendo in Siria.

Secondo l’autore dell’indagine di Al Akhbar, nonostante sia ampiamente nota la situazione delle libertà politiche e sociali nel regno Wahabita, quest’ultimo gode del raro privilegio di non ricevere praticamente alcuna critica da parte dei governi occidentali, potendo così non solo “violare impunemente norme e convenzioni internazionali”, ma anche “svolgere in maniera aggressiva un ruolo di spicco nel condannare altri paesi della regione per i loro abusi”.

Infatti, come ha spiegato alla stessa testata libanese il ricercatore di Human Rights Watch per l’Arabia Saudita e la Giordania, Adam Coogle, tutto quello che il Dipartimento di Stato americano o l’Unione Europea esprimono nei confronti delle pratiche repressive di Riyadh è al massimo “preoccupazione” ma mai un’esplicita condanna.

Per Sevag Kechichian di Amnesty International, infine, i motivi della “copertura” garantita dagli USA e dai loro alleati all’Arabia Saudita sono chiarissimi e hanno a che fare “con il petrolio, con l’influenza esercitata nella regione e con la stretta partnership che la lega all’Occidente fin dai tempi della Guerra Fredda”. Questi sono alcuni dei motivi principali per cui una monarchia assoluta e oscurantista come quella saudita, qualsiasi abuso commetta, continua ad essere a tutt’oggi “praticamente intoccabile”.

di Mario Lombardo

Le rivelazioni legate alle attività incostituzionali di sorveglianza dell’Agenzia per la Sicurezza Nazionale americana (NSA) stanno continuando incessantemente in queste settimane nonostante l’attenzione dei media di tutto il mondo sia concentrata sulla crisi in Siria. La più recente notizia relativa all’indifferenza dell’NSA per le più normali regole democratiche e della privacy è stata diffusa martedì e descrive come l’agenzia con sede a Fort Meade, nel Maryland, abbia avuto accesso alle informazioni telefoniche di migliaia di utenti in contravvenzione anche delle già deboli limitazioni imposte dalla legge degli Stati Uniti.

Grazie al "Freedom of Information Act", una serie di documenti riservati sono stati finalmente declassificati in seguito ad una richiesta presentata dall’American Civil Liberties Union e dall’Electronic Frontier Foundation, tra cui un atto ufficiale del cosiddetto Tribunale per la Sorveglianza dell’Intelligence Straniera (FISC) - incaricato di valutare e autorizzare segretamente le richieste di intercettazione sottoposte dalle varie agenzie governative - insolitamente critico dell’operato dell’NSA.

Nel documento, il giudice del FISC Reggie Walton rimprovera l’agenzia per avere setacciato dati telefonici di migliaia di americani senza ragione e in violazione delle esili norme sulla privacy fissate dallo stesso tribunale. Il periodo di tempo entro il quale ciò è avvenuto va dal maggio del 2006 al gennaio del 2009.

La condotta illegale degli agenti dell’NSA sarebbe stata rilevata dal Dipartimento di Giustizia che ha poi segnalato i fatti al FISC. Come fa notare eufemisticamente il Washington Post, il fatto che i vertici dell’NSA non abbiano mosso un dito per impedire questa ennesima violazione della privacy dei cittadini contraddice le loro pretese di condurre scrupolosi controlli interni per garantire la messa in atto di operazioni esclusivamente “legali”.

Le anomalie riscontrate dal Dipartimento di Giustizia di Washington su cui si basa il documento firmato dal giudice Walton riguardano la compilazione da parte dell’NSA di una lista di quasi 18 mila numeri di telefono di individui potenzialmente collegati a minacce alla sicurezza nazionale che venivano confrontati con le conversazioni di praticamente tutti gli americani intercettate ogni giorno.

Secondo il FISC, l’NSA aveva creato la suddetta lista di numeri da tenere sotto osservazione senza prestare la dovuta attenzione ai limiti di legge, vale a dire senza che vi fosse un “ragionevole sospetto” che gli stessi numeri telefonici fossero collegati ad attività terroristiche.

Per il giudice Walton, infatti, solo il 10% di queste utenze sollevavano dubbi legittimi di terrorismo, mentre gli altri erano finiti sotto la lente d’ingrandimento dell’NSA senza ragione o, più probabilmente, perché relativi a persone considerate una “minaccia” per la sicurezza del paese a causa di attività non legate al terrorismo e quindi intercettate in maniera illegittima anche secondo gli standard del governo americano.

Le critiche del giudice del FISC rivelano un sistematico superamento dei limiti imposti all’NSA, tanto che “le procedure per la difesa della privacy non hanno mai funzionato pienamente”, così che gli agenti hanno avuto regolarmente accesso ai dati telefonici “in violazione degli ordini del Tribunale”. Questa considerazione smentisce clamorosamente le dichiarazioni rilasciate dai rappresentanti dell’apparato della sicurezza nazionale degli Stati Uniti nelle quali è stato più volte assicurato lo scrupoloso rispetto dei limiti fissati dal governo e dal Congresso nella raccolta di informazioni sensibili.

Le irregolarità, come è facile prevedere, non hanno riguardato solo la questione sollevata dal giudice Walton, visto che un’indagine interna dell’NSA iniziata nel febbraio del 2009 e condotta in collaborazione con il Dipartimento di Stato aveva rilevato svariate altre infrazioni alle norme.

Le regole violate in questa circostanza dall’NSA, oltretutto, risultano esse stesse quanto meno discutibili e sono state al centro di accese polemiche nei mesi scorsi in quanto autorizzano la raccolta e la conservazione di “metadati” telefonici di qualsiasi utente americano o straniero.

La giustificazione addotta per queste attività illegali dal direttore dell’NSA, generale Keith Alexander, risulta a dir poco assurda, come scrisse lo stesso giudice Walton, e cioè che il personale dell’agenzia riteneva che gli svariati database dei numeri telefonici a loro disposizione non fossero coperti dalle stesse norme della privacy e, quindi, quello contenente i già ricordati 18 mila numeri poteva essere consultato liberamente.

Un esponente dell’intelligence americana sentito nei giorni scorsi dal New York Times ha affermato invece, altrettanto assurdamente, che il comportamento illegale dell’NSA condannato nei documenti del FISC appena pubblicati non sarebbe stato intenzionale, bensì conseguenza soltanto di incomprensioni dovute a complesse problematiche di natura tecnica.

Come ha confermato in questi mesi una lunga serie di rivelazioni emerse grazie all’ex contractor Edward Snowden, L’NSA opera in realtà pressoché integralmente al di fuori non solo di qualsiasi principio democratico ma anche delle stesse norme di legge create appositamente dal Congresso americano per legittimare il calpestamento delle garanzie costituzionali in nome della “guerra al terrore”.

A mettere in luce l’aspetto più inquietante della vicenda è stato lo stesso giudice del FISC, Reggie Walton, il quale nel suo parere del marzo 2009 esprimeva un profondo scetticismo circa l’utilità del programma di sorveglianza dell’NSA, sottolineando come simili operazioni fossero sfociate in appena tre “indagini preliminari” dell’FBI basate su intercettazioni raccolte nei modi descritti.

Quest’ultimo commento conferma dunque ancora una volta come l’apparato degno di uno stato di polizia creato da oltre un decennio negli Stati Uniti non abbia come scopo principale quello di combattere o prevenire minacce terroristiche, ma di esercitare un controllo pervasivo sulla popolazione per contrastare qualsiasi minaccia ad un governo sempre più screditato.

Le più recenti rivelazioni diffuse martedì seguono di meno di un mese la pubblicazione di un altro parere del Tribunale per la Sorveglianza dell’Intelligence Straniera, questa volta risalente al 2011 e nel quale veniva nuovamente criticata l’NSA per ulteriori violazioni della legge in relazione ad un diverso programma di sorveglianza.

La settimana scorsa, infine, il britannico Guardian e il New York Times avevano pubblicato alcuni documenti ottenuti da Snowden che dimostravano come l’NSA abbia la facoltà di abbattere ogni protezione della privacy teoricamente garantita nelle comunicazioni Internet, essendo riuscita da tempo a neutralizzare i sistemi di crittografia comunemente usati sia negli USA che a livello internazionale.


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