di Fabrizio Casari

L’attacco americano alla Siria è imminente. Obama ha già dato il via libera, a detta della Nbc, mentre stando alla Reuters non avrebbe ancora deciso. Ma tutto sembra indicare che la guerra sta per avere inizio: la procedura normalmente utilizzata a scopi mediatici per convincere gli americani dell’indispensabile nuova aggressione ad uno Stato sovrano è già in marcia. Il Segretario di Stato Kerry si è già scatenato in minacce di fronte ai taccuini aperti degli impiegati embedded della grande stampa d'Oltreoceano, e lo stesso ha fatto il portavoce della Casa Bianca.

Sono cominciate le finte indiscrezioni dei giornali e le interviste ai presunti esperti militari e d’intelligence, utili a saggiare il clima, ma i risultati non sono stati esaltanti: oltre il 60% degli statunitensi non approvano la nascita di un nuovo fronte di guerra.


Come sempre, il casus belli è sostanzialmente costruito ad arte; dal Golfo del Tonchino al famoso arsenale di Saddam denunciato da Colin Powell in sede ONU e poi rivelatosi miseramente falso, la propaganda bellica statunitense non va tanto per il sottile. Il privilegio di controllare la grande maggioranza dei media planetari, sia in quanto proprietari, sia in quanto direzione politica e ideologica, permette agli Stati Uniti di poter dire e negare tutto e il contrario di tutto senza dover ricorrere all’obbligo di dimostrarne la fondatezza. Nel caso specifico, non vi sono prove sull’uso di armi chimiche da parte del regime di Assad, che anzi, a rigor di logica, risulta difficile immaginare, dal momento che il luogo dove l’attacco chimico si sarebbe svolto vedeva la presenza massiccia di forze lealiste.

Ancora più bizzarro appare l’attacco al convoglio degli ispettori ONU, dal momento che Damasco ha proprio nel ruolo delle Nazioni Unite l’unica deterrenza politica e giuridica nei confronti della scalata interventista di Stati Uniti, Francia e Gran Bretagna. Quale interesse avrebbe avuto nell'aprire il fuoco contro l'ONU? Lo avrebbero avuto semmai i ribelli, come del resto sono interessati a incolpare il governo dell'uso delle armi chimiche. Il che non significa che effettivamente il regime siriano non le abbia utilizzate, ma un’inchiesta approfondita sarebbe utile, dal momento che l’unica fonte al riguardo è rappresentata dai ribelli islamici, non proprio affidabili e certamente non neutrali. Prima di scatenare un’altra guerra varrebbe la pensa sapere cosa è avvenuto e di chi sono le responsabilità.

Come quelle venute fuori - solo per fare un esempio - dalla pubblicazione da parte della rivista Foreign Policy della declassificazione dei documenti segreti del Pentagono relativi alla guerra che, 23 anni orsono, l’allora buon amico Saddam Hussein scatenò contro l’Iran di Khomeini. L’Iraq utilizzò massicciamente armi chimiche - gas Sarin per la precisione - contro la popolazione iraniana, in particolare nell’operazione definita “Sacro Ramadan” e lo fece con il consenso degli Stati Uniti. I morti si contarono a migliaia.

Lo rivelano alti ufficiali della US Army e membri della CIA in pensione. La proibizione dell’uso delle armi chimiche risale al 1925 e al Protocollo di Ginevra del 1925, cioè di 55 anni prima della guerra tra Iraq e Iran (1980-1988), ma nella circostanza gli USA non sembrarono scandalizzarsi, dato che come disse l’allora presidente genocida Ronald Reagan, “sarebbe intollerabile una vittoria iraniana”.

La strada del diritto internazionale è preclusa ai fini della guerra. L’ONU non approverà nessuna risoluzione del Consiglio di Sicurezza che presti legalità internazionale all’aggressione, il veto di Russia e Cina è scontato. Dunque l’operazione sarà sotto egida Nato. I servi storici di Washington, Gran Bretagna e Canada, seguiti dall’Australia e Nuova Zelanda, costituiranno il gruppone di testa per la corsa ai bombardamenti prima e ai contratti dopo. Perché il piatto siriano è troppo succulento per i piani di destabilizzazione mediorientali e l’occasione è ghiotta, dal momento che la congregazione di forze ribelli non riesce a deporre Assad, tantomeno a spostare la popolazione contro il regime.

Nonostante gli sforzi finanziari degli Emirati, nonostante l’aiuto militare di turchi e consiglieri britannici e francesi, l’esercito di Assad, grazie anche al contributo degli Hezbollah libanesi e al sostegno iraniano, ha dimostrato infatti di saper invertire a proprio favore i pronostici che dalle capitali occidentali e del Golfo pochi mesi orsono prevedevano la caduta del regime. Il dilatarsi della guerra ha invece messo a nudo le contraddizioni e la litigiosità interna delle diverse bande di integralisti islamici che combattono in Siria e, senza l’intervento straniero, la guerriglia non durerebbe ancora molto al lungo. Proprio a questo si deve l’accelerazione di queste ore.

Le opzioni in campo sembrano riguardare i cosiddetti attacchi mirati, cioè una significativa quota di Tomahawk e Cruise lanciati dalle flotte americane, inglesi e francesi più prossime alla Siria, seguite da raid aerei. Successivamente, é facile prevederlo, si darà vita alla no-fly zone, destinata in teoria ad impedire l’uso dell’aviazione militare ai lealisti.

Ma, come già avvenuto in Libia, la no-fly zone diverrà subito ben altro, e cioè un vero e proprio susseguirsi di raid aerei destinati ad attaccare le forze di terra dell’esercito siriano. Fatta piazza pulita della capacità militare dei lealisti, la guerriglia avrà gioco facile nel conquistare città e siti strategici del paese, dando il via al racconto dell’insurrezione popolare che sconfisse il regime a cui tutti o quasi fingemmo di credere.

Le ripercussioni politiche internazionali all’aggressione alla Siria saranno comunque rilevanti e il prossimo G20 di Mosca difficilmente riuscirà ad appianarle. Mosca e Pechino difficilmente accetteranno di dimostrare in modo palese la loro impotenza nello scenario globale. Non è in discussione l’esito militare della vicenda, anche se si scoprirà rapidamente come la Siria è territorio non semplice da conquistare; sarà difficile assistere ad una passeggiata di salute degli integralisti islamici aiutati dell'Occidente, visto che una significativa parte della popolazione ha ben presente cosa gli potrebbe succedere in caso di presa del potere di al-Queda e propaggini varie al seguito.

Non c’è nessuna ragione umanitaria dietro la scelta dell’Occidente di attaccare la Siria. Se così fosse, la ricerca della soluzione politica al conflitto sarebbe stata perseguita. Che si bombardino città, si scateni la guerra nei cieli e si colpiscano le infrastrutture del paese non pare avere molto a che fare con le preoccupazioni per la popolazione civile. Nel mondo alla rovescia, che sceglie il paradosso sfacciato come arma principale della propaganda, la guerra è diventata la ricerca della pace. Il business della guerra e del saccheggio continua a determinare le scelte della politica. Il presidente Nobel per la pace ha già il dito sul grilletto. Una nuova avventura coloniale, tragica e ingiusta, sta per cominciare.


di Fabrizio Casari

Il massacro quotidiano di islamici in onda nelle piazze d’Egitto genera sdegno diffuso. Al quale ovviamente non c’è seguito, dal momento che l’opinione pubblica internazionale non ha nessun ruolo attivo possibile nella vicenda egiziana e le autorità internazionali sono ferme al balbettìo sterile. Non solo perché incapaci di intervenire celermente in quella che ormai è una autentica guerra civile, bensì perché in qualche modo le grandi potenze occidentali sono soddisfatte.

Vorrebbero certo maggiore attenzione, meno macelleria è più discrezione, ma il risultato finale - l’uscita di scena dei Fratelli Musulmani - è obiettivo condiviso con i generali egiziani. Le minacce della UE, circa l’interruzione delle forniture di armi al Cairo fanno ridere: non solo perché il principale fornitore di armi sono gli USA, ma perché l’Egitto fabbrica da solo una quota consistente del suo apparato bellico. La Bonino, che vanta una approfondita conoscenza del paese arabo, dovrebbe saperlo.

Protagonisti principali della rivolta popolare che diede il via alla cacciata di Mubarak, le organizzazioni islamiche non hanno certo dato il meglio alla prova del governo e, vinte di stretta misura le elezioni, sono stati svelti a ricorrere anch’essi alla repressione dinanzi alle manifestazioni antigovernative che chiedevano le dimissioni di Morsi. La presidenza di quello che è sembrato più un funzionario della confraternita che non il leader di una nazione, è stata un disastro totale.

Centrifugati in una dinamica di crescente islamizzazione della legislazione, indifferenti al dramma socio-economico del Paese, i Fratelli Musulmani sono risultati incapaci e ingenui nella lettura della fase politica e, una dimostrata inclinazione verso l’autoritarismo crescente, ha determinato progressivamente il venir meno del consenso ottenuto durante la rivolta e nelle elezioni ad essa succedutesi.

Pensavano forse che chiudere i varchi attraverso i quali giungevano i riferimenti al governo palestinese e ad Hamas in particolare, oppure schierarsi al fianco dei ribelli siriani, gli avrebbe garantito le simpatie israelo-statunitensi e che la nomina del generale al-Sisi, gradito all’establishmente militare dell’Occidente e da Morsi considerato “un buon musulmano”, avrebbe ulteriormente rafforzato l’appoggio di Washington.

Ma il miliardo e mezzo di dollari che gli USA versano annualmente all’Egitto è destinato proprio alle loro forze armate e la scelta di al-Sisi, da parte di Morsi, è stato un errore clamoroso. Ricorda tristemente quella di Allende che nel Cile del ‘73 nel pieno della campagna orchestrata da Kissinger e Nixon contro il governo di Unidad Popular, decise di nominare Pinochet al vertice delle forze armate; era convinto della sua lealtà alla Costituzione e che avrebbe utilizzato i suoi buoni rapporti con il Pentagono per ridurre la pressione della Casa Bianca sulla Moneda.

Ingenuità che si pagano a caro prezzo: i militari che si formano nelle accademie degli eserciti dove gli USA svolgono il ruolo di direzione politica e militare, obbediscono al Pentagono, non alla propria Carta Costituzionale. Non c’è nemmeno il doppio livello d’obbedienza tipico dei paesi europei, ma solo uno: quello verso gli USA.

Si possono analizzare diversi aspetti della cosiddetta “primavera” egiziana, finita sotto i cingoli dei carri armati e nel mirino dei cecchini in uniforme, e si può anche registrare un quadro d’insieme che va ben oltre la vicenda politica interna del più grande paese arabo. Nello scontro definitivo tra i militari e la porzione laica della popolazione da una parte e i Fratelli Musulmani dal’altra, non c’è infatti solo la resa dei conti interna tra le diverse componenti del Paese; l’eco di quanto accade al Cairo o ad Alessandria si riflette anche sul riposizionamento del quadro regionale, che vede i rispettivi sponsor - Arabia Saudita al fianco dei militari e Qatar che sostiene i Fratelli Musulmani - ridefinire attraverso l’affaire Egitto il ruolo di direzione politica nel Golfo Persico.

Il generale al-Sisi ordina ora la messa fuorilegge dei Fratelli Musulmani, così come fece Nasser 85 anni fa. Ma se il disegno del leader panarabista era comunque dotato di una vision mediorientale, quello di al-Sisi è puro impulso da sbirro. Inutile fu metterli fuorilegge allora e inutile è riproporlo adesso: i Fratelli Musulmani rappresentano comunque una parte importante della popolazione e sono insediati in maniera profonda nelle viscere del paese. Sono privi di classe dirigente, di classe imprenditoriale e di appartenenti alla casta militare, ma non per questo non sono in grado d’incidere.

Magari non sanno governare, ma sanno benissimo come impedire di governare agli altri. Per l’Egitto si apre dunque uno scenario difficilissimo e gli inviti alla riconciliazione sono parole al vento degne di un enciclica più che di un disegno politico.

Il dato ineludibile che una onesta analisi dei fatti dovrebbe considerare, è comunque quello della governance internazionale. Risulta evidente l’incompatibilità tra il controllo politico occidentale sull’area e la democrazia. La democrazia, anche quella formale, è ormai insostenibile per un modello di governance che non prevede aree di autonomia politica ma solo l’adesione assoluta al comando unico globale. L’Occidente, per riottenere il controllo quando la situazione gli sfugge, ricorre da diversi anni alla stessa mossa sullo scacchiere: quando ha bisogno di destabilizzare paesi non conformi al suo modello di comando internazionale lancia grandi campagne sui diritti umani.

Lo fa con una notevole faccia di bronzo, giacché chiede diritti umani mentre difende regimi barbari ed anacronistici come gli Emirati che i diritti umani li calpestano quotidianamente. Sceicchi pieni di oro ed ignoranza tribale che coniugano complotti e repressione per rimanere saldamente in sella.

Nella consapevolezza di essere solo tribù sedute su giacimenti di petrolio, alla ricerca di una leadership regionale, lanciano offensive politiche in tutto il Medio Oriente che prevedono guerre e destabilizzazioni ovunque. Non è un caso che, anche nella vicenda egiziana, l’Arabia saudita sia pronta a sopperire immediatamente con le proprie risorse all’eventuale riduzione degli aiuti americani.

C’è poi l’altra opzione occidentale, normalmente utilizzata quando si ritiene di dover solo abbattere governi ritenuti ostili o non più utili allo scopo; si da respiro internazionale al malcontento e alle proteste e, quando si ritiene che il momento del ribaltamento sia giunto, sì invocano democrazia ed elezioni. Anche qui l’ipocrisia regna, dal momento che le elezioni sono riconosciute e rispettate solo se terminano con il successo degli amici e la sconfitta dei nemici.

Dalla Turchia del colpo di Stato (Nato) del 1980 all’Algeria del 1991, fino alla storia di questi giorni, ci sono esempi impossibili da non considerare. Ovunque le elezioni vengono vinte dai partiti islamici, dal giorno seguente comincia il processo di delegittimazione, normalmente articolato in due grandi linee: o un intervento dei militari che ripristina immediatamente il controllo dell’Occidente, o, nel caso non siano propizie le condizioni, l’inizio di una enorme campagna di delegittimazione delle formazioni religiose vincitrici delle elezioni, allo scopo di creare le condizioni per una protesta di massa che veda poi l’intervento dei militari come ineludibile.

Le due diverse strade con le rispettive tempistiche vengono perseguite a seconda di quali siano i rapporti di forza interni e si misurano soprattutto con il grado di affidabilità dei vertici militari locali, cioè la disponibilità delle autorità castrensi ad allinearsi sotto il comando unico dell’Occidente.

In molti sostengono che Obama ha sbagliato tutte le mosse: con Mubarak prima, con Morsi poi e con al-Sisi ora. Che la sua confusione ed indecisione politica abbia dato alibi alle giravolte della società e dell’establishment egiziano causando il disordine di oggi. Certo, Obama non ha dimostrato grande abilità nella geopolitica all’epoca del 2.0. La questione di fondo sembrerebbe però una: possono dei partiti religiosi aspirare a governare con il consenso dell’Occidente in generale e degli USA in particolare?

La possibilità di sorvolo dello spazio aereo egiziano, necessaria per i rifornimenti alle truppe in Afghanistan, il controllo del Canale di Suez e la necessità di controllare strettamente il più grande paese arabo anche in funzione di protezione di Israele, possono essere garantite da un governo islamico, a maggior ragione in un momento in cui la guerra in Siria rischia di far deflagrare ulteriormente il caos nella regione?

Una lettura semplificata della politica estera degli Stati Uniti e dei suoi maggiordomi europei potrebbe indurre a ritenere di no, in forza di una considerazione apparentemente logica: da sempre, in particolare dopo l’11 Settembre, l’impegno dell’Occidente è rivolto alla lotta contro il fondamentalismo islamico e non sarebbe realistico ipotizzare un qualunque consenso da parte statunitense ad un governo islamista.

Niente di più inesatto. Gli Stati Uniti, dagli anni ’80 in poi, hanno sempre avuto rapporti strettissimi ed intese ampie con il mondo islamico, anche con le fazioni più radicali. La condizione necessaria e sufficiente di ogni patto tra gli USA e gli islamici è determinato dall’essere questi ultimi fermamente contrari ad ogni orientamento progressista.

E’ con l’Islam laico e con venature socialiste ( vedi Baath in Iraq e Siria o OLP in Palestina) che gli Stati Uniti sono entrati da sempre in rotta di collisione. Prima per la partita con i sovietici in Medio Oriente, poi, dopo la caduta dell’Urss, per ridisegnare la mappa in funzione delle esigenze parallele dei suoi amici israeliani e sauditi. Gli uni decisi a mantenere il controllo militare sul Medio Oriente, gli altri impegnati a costruire a suon di dollari la loro leadership politica sul mondo musulmano.

A ben vedere, la vicinanza tra Washington e l’Islam radicale è stata una costante dell’ultimo trentennio. Cominciò con il sostegno sfacciato delle monarchie saudite, proseguì con l’alleanza con Teheran per la fornitura di armi ai Contras in Nicaragua e con il finanziamento e l’addestramento dai mujaheddin afgani in guerra contro i sovietici prima e contro i serbi in Bosnia poi. Insieme a questo - e forse sopra - il sostegno al Pakistan in funzione di antagonista principale dell’India (un tempo leader dei Non Allineati e vicina a Mosca), quindi l’aiuto diretto alle milizie jahidiste libiche e irachene. Washington, insomma, non ha mai avuto scrupoli ad allearsi tatticamente e strategicamente con l’Islam, per radicale che fosse.

E il fatto che le monarchie del Golfo siano finanziatrici di ogni fazione islamica in armi, che il regime pakistano organizzi l’addestramento e la struttura d’intelligence dei talebani contro i quali l’Occidente combatte in Afghanistan e che i ribelli in Siria (come accadde in Libia) siano diretti in buona parte da quella al-Queda che dovrebbe essere l’obiettivo principale della “war or terror”, sono dettagli che non turbano affatto i piani statunitensi di controllo geostrategico dell’area. Solo una pubblicistica sdraiata e velinara può bypassare tutto ciò.

D’altra parte, se davvero gli USA avessero voluto ridurre l’influenza dell’Islam nel movimento politico mediorientale, non avrebbe dichiarato guerra ad Iraq, Libia e Siria, dove i regimi di Saddam, Gheddafi e Assad hanno sempre rappresentato un nemico giurato degli integralisti islamici.

Ma, appunto, il timore dell’America non è l’integralismo islamico, ma le sue derivazioni politiche che coniugano l’irredentismo e l’anti-imperialismo con la fede, che tengono insieme la solidarietà sociale insita nella cultura islamica e l’individuazione dell’Occidente come usurpatore di risorse e libertà.

Sarebbe quindi sbagliato accusare Obama di confusione ed inadeguatezza con la vicenda egiziana nel modo in cui ha affrontato la rivolta prima, le elezioni poi e la guerra civile ora. Obama è figlio legittimo di quel complesso militar-industriale che decide quali siano gli interessi politici ed economici da tenere sotto controllo ed alla sua logica ispira la sua politica estera. La guerra permanente, oltre a riaffermare il ruolo di leadership militare degli USA, rappresenta la possibilità di allungare le mani sulle risorse dei paesi coinvolti ed è, ancora oggi, il miglior volano per l’economia del paese.

Lì risiede la garanzia di sopravvivenza e crescita del settore militare e dell’intelligence statunitense, vero cuore pulsante di un sistema che, senza contrappesi né bilanciamenti, ha assunto ormai il volto di un regime. Che si serve del terrore e delle guerre per ridefinire ed aggiornare la sua identità. Invasivo verso l’interno ed invasore all’esterno.

di Michele Paris

L’ennesimo massacro messo in atto mercoledì dai militari egiziani per porre fine alla resistenza dei sostenitori dei Fratelli Musulmani ha smascherato impietosamente i reali scrupoli democratici degli Stati Uniti e dei loro alleati in Occidente, così come la vera natura delle forze secolari e “progressiste” indigene che avevano di fatto appoggiato il golpe del 3 luglio scorso ai danni del presidente islamista Mohamed Mursi.

Le centinaia o forse migliaia di morti nel corso dell’ultimo atto della repressione andata in scena al Cairo e nelle principali città del più popoloso paese arabo sono state seguite dall’imposizione dello stato di emergenza, una misura grazie alla quale Hosni Mubarak aveva governato con il pugno di ferro per tre decenni e che era stata già minacciata qualche settimana fa durante il precedente round di scontri tra i Fratelli Musulmani e le forze di sicurezza.

Lo stato di emergenza rimarrà in vigore per un mese, anche se il possibile radicalizzarsi dello scontro interno potrebbe giustificare un prolungamento indefinito del provvedimento da parte dei militari. Questo strumento, d’altra parte, riattivando le leggi di emergenza del 1958 consentirà al regime, come è accaduto in passato, di reprimere ogni forma di opposizione interna, principalmente autorizzando l’arresto di cittadini senza il mandato di un tribunale.

Le vittime di mercoledì e le misure prese dal governo espressione dei vertici militari, guidati dal generale Abdel Fattah al-Sisi, smontano dunque definitivamente la pretesa di un regime intento a rimettere l’Egitto sulla strada della democrazia dopo la deposizione di Mursi sull’onda di oceaniche dimostrazioni di piazza.

Il percorso intrapreso dal paese nord-africano sembra essere piuttosto quello dell’autoritarismo dell’era Mubarak, come dimostra anche la nomina, avvenuta il giorno prima dello sgombero del sit-in dei sostenitori di Mursi, di 25 nuovi governatori provinciali, tra i quali vi sono 19 generali e due giudici noti per la loro fedeltà al presidente rimosso in seguito alla rivoluzione del 2011.

Soltanto ai primi di agosto, questa evoluzione era stata invece definita in altri termini dal segretario di Stato americano, John Kerry. In una discussa intervista rilasciata nel corso di una visita in Pakistan, quest’ultimo aveva lasciato chiaramente intravedere la predisposizione di Washington verso i generali egiziani, i quali a suo dire, nel deporre Mursi, avevano “in effetti ristabilito la democrazia” nel paese.

Anche se la presunta strada verso la democrazia in Egitto sotto la guida dei militari appare sempre più inondata di sangue, l’amministrazione Obama continua a non mostrare alcuna intenzione di modificare la propria politica nei confronti del regime golpista. Le uniche reazioni provenienti da Washington in seguito al massacro di mercoledì sono state ciniche dichiarazioni di “condanna”, espresse, secondo i media ufficiali, in termini “insolitamente duri”.

Lo stesso Kerry ha così definito “deplorevoli” le violenze al Cairo, nonché “contrarie alle aspirazioni degli egiziani alla pace, all’inclusione e ad una democrazia genuina”. Il presidente Obama, invece, inizialmente non ha ritenuto nemmeno necessario sospendere le vacanze nel lusso di Martha’s Vineyard per parlare della situazione in Egitto, preferendo continuare a giocare a golf con un suo facoltoso finanziatore. Solo giovedì l’inquilino della Casa Bianca ha affrontato l’argomento con la stampa, affermando che “il ciclo della violenza deve terminare”.

Le reazioni ufficiali erano state in precedenza affidate, oltre che al Dipartimento di Stato, ad un portavoce di secondo piano della Casa Bianca, John Earnest, il quale di fronte alle centinaia di morti aveva assurdamente invitato i militari egiziani e le forze di sicurezza “a mostrare moderazione e a rispettare i diritti universali dei propri cittadini”.

In maniera altrettanto patetica, la Casa Bianca ha poi fatto sapere di essere intenzionata a cancellare l’esercitazione militare “Bright Star” con le forze armate egiziane in programma a settembre e che si tiene regolarmente dall’inizio degli anni Ottanta. Secondo la versione ufficiale, simili misure “punitive” dovrebbero servire ad esercitare pressioni sui militari al Cairo per mettere fine ad una repressione con ogni probabilità messa ampiamente in preventivo da Washington in seguito alla decisione di sottrarre il proprio appoggio ai Fratelli Musulmani e di dare il via libera al colpo di stato del 3 luglio scorso per prevenire una possibile seconda rivoluzione popolare.

Un finto e tardivo rammarico per la situazione egiziana è stato prevedibilmente espresso anche dai governi europei. La responsabile della politica estera dell’Unione Europea, Catherine Ashton, ha ad esempio “condannato fermamente” le violenze in Egitto e chiesto la fine al più preso dello stato di emergenza. Il ministro degli Esteri britannico, William Hague, ha anch’egli espresso la propria preoccupazione per la crisi nel paese nordafricano e il suo disappunto per il mancato raggiungimento di un compromesso tra le parti in lotta per evitare una resa dei conti.

Quest’ultimo aspetto è stato messo in risalto anche da una serie di resoconti giornalistici, in particolare della Reuters nella giornata di giovedì, nei quali si racconta come diplomatici europei e statunitensi avrebbero cercato fino all’ultimo di evitare una soluzione di forza contro le proteste degli islamisti, proponendo una via d’uscita condivisa.

In realtà, tramite una serie di visite al Cairo di inviati dei governi occidentali - a cominciare dalla Ashton - gli sforzi di Bruxelles e Washington per giungere ad un accordo prevedevano condizioni chiaramente inaccettabili per i Fratelli Musulmani, come l’accettazione sia del golpe ai danni del proprio presidente sia della “road map” dei militari per il ristabilimento dell’autorità civile.

Come si comprende chiaramente da una serie di dichiarazioni quasi sempre anonime di membri delle delegazioni diplomatiche inviate al Cairo, i governi occidentali erano ben consapevoli dell’impossibilità da parte dei Fratelli Musulmani ad acconsentire a quello che sarebbe stato un vero e proprio suicidio politico con i propri sostenitori già nelle piazze a chiedere il reinsediamento di Mursi.

Per questa ragione, gli appelli alla riconciliazione sono apparsi da subito vuoti e hanno a malapena nascosto la sostanziale volontà dell’Occidente di appoggiare il progetto contro-rivoluzionario dei vertici militari, considerati gli unici sicuri garanti in Egitto dei propri interessi e di quelli di Israele nel mondo arabo.

Una simile strategia è stata possibile solo grazie al ruolo giocato dalle forze di opposizione al governo di Mursi e dei Fratelli Musulmani. La galassia di partiti teoricamente di sinistra, liberali, nasseriti e le varie organizzazioni della società civile hanno infatti fornito la necessaria copertura “democratica” al colpo di stato militare, sfruttando il crescente malcontento popolare per le politiche reazionarie del gabinetto guidato dal primo presidente eletto nel dopo-Mubarak.

I leader di tutte queste formazioni erano significativamente apparsi a fianco del generale al-Sisi subito dopo la rimozione di Mursi e avevano appoggiato la repressione scatenata da subito contro gli islamisti. Il sangue dei morti di questa settimana è perciò anche sulle mani di coloro che in Egitto si sono presentati come difensori della rivoluzione del 2011 entrando a far parte di un governo-fantoccio manovrato dalle Forze Armate, a cominciare dal premio Nobel per la Pace, Mohamed ElBaradei.

Alcuni leader liberali come l’ex direttore generale dell’Agenzia Internazionale per l’Energia Atomica stanno cercando in questi giorni di prendere le distanze dai generali nel tentativo di occultare le loro responsabilità nelle violenze in corso. ElBaradei, in particolare, ha rassegnato le proprie dimissioni da vice-presidente per gli Affari Internazionali, indirizzando una lettera al presidente ad interim, Adly Mansour.

La decisione di ElBaradei è stata concordata quasi certamente con Washington, come confermerebbe un colloquio telefonico dell’ormai ex vice-presidente egiziano con John Kerry subito dopo l’inizio della repressione delle forze armate di mercoledì. Per gli Stati Uniti, infatti, ElBaradei rappresenta una risorsa importante per i propri interessi in Egitto e la sua permanenza all’interno di un governo responsabile di ripetuti massacri lo avrebbe irrimediabilmente compromesso.

L’annientamento della resistenza dei Fratelli Musulmani, se anche avrà successo, non determinerà in ogni caso l’apertura di un nuovo capitolo sulla strada della democrazia per l’Egitto, bensì rappresenterà il primo passo dell’offensiva dei militari contro il reale obiettivo del loro progetto contro-rivoluzionario, cioè la grandissima maggioranza della popolazione che chiede un autentico cambiamento e la possibilità di svolgere finalmente un ruolo da protagonista nel futuro del proprio paese.

di Michele Paris

Il capo di Stato Maggiore USA, generale Martin Dempsey, è stato protagonista questa settimana di una trasferta in Medio Oriente dove ha incontrato i leader politici e militari di due degli alleati più stretti degli Stati Uniti nella regione. La visita in Israele e in Giordania dell’ufficiale più alto in grado delle Forze Armate americane è apparsa a molti come la prova generale di un possibile prossimo intervento diretto di Washington per dare una svolta definitiva alla crisi in Siria.

Atterrato lunedì in territorio israeliano, Dempsey ha incontrato il proprio omologo Benny Gantz, il ministro della Difesa Moshe Yaalon e, ovviamente, il primo ministro Benjamin Netanyahu. Secondo i comunicati ufficiali, le discussioni sono state incentrate sulle “minacce che vengono dalla regione e su come lavorare assieme per rendere più sicuri i due paesi” alleati.

Netanyahu - capo del governo di un paese che dispone dell’unico arsenale nucleare in Medio Oriente e che nella propria storia ha ripetutamente aggredito militarmente i paesi vicini senza essere provocato - ha inoltre ricordato a Dempsey come Israele debba “fronteggiare numerose minacce”, tra le quali la più grande sarebbe rappresentata dal nucleare iraniano.

In un vertice al ministero della Difesa di Tel Aviv, Gantz ha invece sottolineato ripetutamente la saldezza della partnership con gli Stati Uniti e l’identità di vedute tra i due alleati riguardo la situazione mediorientale, confermando come le azioni di Washington nella regione continuino ad essere coordinate con i vertici israeliani.

L’importanza delle questioni militari in relazione alla Siria era apparsa evidente anche dalla visita in Israele del comandante dell’aviazione USA, generale Mark Welsh, andata in scena segretamente tra il 4 e l’8 di agosto in preparazione dell’arrivo di Dempsey. Welsh aveva anch’egli incontrato Benny Gantz e il suo omologo israeliano, generale Amir Eshel, con il qualche è stata probabilmente presa in considerazione una delle misure di cui si parla da tempo nonostante le smentite dell’amministrazione Obama, vale a dire l’imposizione di una no-fly zone senza il mandato ONU in territorio siriano al confine meridionale.

La seconda tappa del viaggio di Dempsey - la Giordania - risulta poi come Israele una pedina fondamentale nella strategia americana in Siria, soprattutto nell’eventualità di un’operazione militare su larga scala. In questo paese sono infatti già posizionati centinaia di soldati USA, nonché aerei F-16 e batterie di missili Patriot, tutti ufficialmente pronti ad essere attivati per prevenire eventuali “minacce” provenienti dal regime di Assad.

L’attenzione sulla Siria alla vigilia della trasferta in Medio Oriente di Dempsey era stata riportata qualche giorno fa da un’intervista ampiamente citata del vice-direttore uscente della CIA, Michael Morrell, rilasciata al Wall Street Journal, nella quale descriveva un eventuale successo in Siria delle forze legate ad Al-Qaeda come la principale minaccia odierna alla sicurezza nazionale degli Stati Uniti.

Le parole di Morrell, il cui senso viene peraltro ripetuto da tempo da vari membri dell’amministrazione Obama, sono state prontamente utilizzate allo scopo di promuovere ancora una volta un maggiore coinvolgimento in Siria da parte americana per evitare uno scenario catastrofico. In realtà, a provocare il caos in cui versa il paese mediorientale sono state precisamente le politiche dissennate degli USA e dei loro alleati che stanno finanziando e armando formazioni fondamentaliste, utilizzate di fatto come avanguardie per l’abbattimento del regime di Assad.

Lo stesso generale Dempsey in Israele ha definito il conflitto in Siria come la conseguenza dello “scatenarsi degli scontri religiosi, etnici e tribali”, senza spiegare come quest’ultimo scenario sia stato alimentato precisamente dalle mire imperialiste del suo governo in Medio Oriente, dove le storiche divisioni settarie vengono puntualmente sfruttate proprio per promuovere gli interessi strategici di Washington.

Per occultare questa realtà imbarazzante e le loro responsabilità nell’avere contribuito a crearla, esponenti del governo e dell’apparato militare americano come Dempsey insistono nel sottolineare la necessità di sostenere le forze “moderate” all’interno dell’opposizione siriana, anche se lo stesso capo di Stato Maggiore USA ha ammesso che i gruppi “moderati” e quelli “radicali collaborano gli uni con gli altri” nel combattere il regime di Damasco.

Una simile caratterizzazione è sintomatica delle apprensioni diffuse a Washington circa il futuro della Siria ma, in effetti, non si avvicina nemmeno lontanamente alla realtà sul campo, dove a prevalere sono le milizie islamiste radicali che beneficiano degli sforzi economici e militari di paesi come Arabia Saudita, Qatar, Emirati Arabi e Turchia, sotto la diretta supervisione di Washington.

Mentre in Occidente si ripete da mesi la volontà di rafforzare gli elementi secolari o moderati del fronte anti-Assad, praticamente ogni offensiva che ha avuto successo contro le forze del regime ha visto come protagonisti i gruppi radicali, comprese la recente occupazione di una base aerea nei pressi di Aleppo e l’offensiva della scorsa settimana nella provincia costiera di Latakia.

Dopo avere scritto a lungo delle imprese del Fronte al-Nusra, i media occidentali nelle ultime settimane hanno analizzato le attività di un’altra e, se possibile, ancora più sanguinaria formazione estremista attiva in Siria, il cosiddetto Stato Islamico dell’Iraq e del Levante. Quest’ultimo fa parte della rete internazionale di Al-Qaeda ed è tra l’altro impegnato, secondo quanto scritto un paio di giorni fa dal Washington Post, nell’espansione della propria influenza “sui territori strappati ad altri gruppi ribelli” grazie al supporto di migliaia di guerriglieri stranieri provenienti dalla regione mediorientale e non solo.

La situazione che si sta delineando, come ha affermato sempre al Washington Post Bruce Hoffman, direttore degli studi sulla sicurezza presso l’università di Georgetown, potrebbe fare della Siria “una variante più temibile di ciò che era l’Afghanistan più di tre decenni fa”, dove l’impegno contro il regime filo-sovietico di Kabul da parte di Stati Uniti, Arabia Saudita e Pakistan gettò le basi per la creazione di un movimento integralista le cui attività avrebbero avuto effetti destabilizzanti ben al di là del paese centro-asiatico.

Lo Stato Islamico dell’Iraq e del Levante ha le proprie origini nel vicino Iraq, dove gli Stati Uniti sostenevano di avere sconfitto le formazioni legate ad Al-Qaeda, ed in Siria opera prevalentemente nella zona settentrionale di Raqqah. Qui negli ultimi tempi sono stati segnalati duri scontri con i gruppi dell’opposizione più moderati che hanno causato decine di vittime anche tra la popolazione civile. Tra le ripetute proteste degli abitanti dell’area, lo Stato Islamico continua poi ad organizzare rapimenti, tra cui quello del gesuita italiano vicino all’opposizione, Paolo Dall’Oglio.

In definitiva, nonostante la propaganda dei media occidentali, i territori della Siria “liberati” dalla presenza del regime di Assad vengono in buona parte occupati da gruppi integralisti che impongono su una popolazione in larga misura ostile un sistema teocratico amministrato da leader e guerriglieri stranieri, i quali si dedicano allo stesso tempo ad una serie di attività criminali, compresi assassini ed esecuzioni.

Ben lontani dal sostenere una lotta per una Siria democratica, gli Stati Uniti e i loro alleati stanno quindi operando per abbattere un regime sgradito unicamente per promuovere i propri interessi in Medio Oriente tramite l’appoggio più o medo diretto a forze ultra-reazionarie legate al terrorismo islamico, contribuendo così in maniera determinante a creare una situazione sempre più esplosiva che avrà conseguenze gravissime sulla stabilità dell’intera regione.

di Antonio Rei

I cittadini greci potrebbero quasi reclamare diritto di voto in Germania. Non solo perché il destino del loro Paese è da anni in mano a Berlino, ma anche perché le sorti di Atene sono diventate un argomento centrale della campagna elettorale tedesca. Nel mirino c'è la cancelliera Angela Merkel, accusata di minimizzare la crisi ellenica per non perdere consensi a un mese dal voto.

Il caso è scoppiato dopo che la testata Der Spiegel ha parlato di un misterioso rapporto redatto dalla Bundesbank e trasmesso al ministero delle Finanze. Stando alle indiscrezioni, la Banca centrale tedesca ritiene che la Grecia avrà bisogno "in ogni caso" di nuovi aiuti entro la primavera del 2014. Gli sforzi compiuti fin qui dal governo Samaras sono definiti "insufficienti" e "forti dubbi" vengono espressi sulla possibilità che Atene riesca a portare a termine le riforme promesse a Ue e Fmi.

Dal rapporto emergono anche critiche indirette al governo di Angela Merkel, soprattutto nel passaggio in cui la Bundesbank sostiene che il via libera della Troika alla più recente tranche di aiuti da 5,7 miliardi di euro sia arrivato "per motivi politici".

La Banca centrale non ha smentito la ricostruzione della stampa, mentre il governo tedesco è riuscito soltanto a prodursi in una replica piuttosto goffa: "L’ultimo rapporto della Troika afferma che la Grecia sta facendo buoni progressi con le riforme - ha detto Martin Kotthaus, portavoce del ministro delle Finanze -. Il piano attuale arriva fino al 2014, quindi, al momento, mi pare difficile discutere di ciò che accadrà l’anno prossimo".

In realtà, "difficile" è l'aggettivo meno appropriato. Che la Grecia avrà bisogno di nuovi aiuti per sostenere il debito non è una profezia da novelli Tiresia, ma una banalità nota a tutti da diverso tempo. Il mese scorso si erano diffuse le prime voci di un buco da 3,8 miliardi nei conti ellenici del 2014 e lo stesso Fondo monetario internazionale aveva chiesto all'Eurozona di adottare "misure addizionali". Perfino il presidente Jeroen Dijsselbloem aveva assicurato la disponibilità dell'Eurogruppo ad aiutare Atene "ancora una volta" l'anno prossimo. Perché mai allora la cancelliera prova tanto imbarazzo ad ammettere un'ovvietà?

La spiegazione elettorale non sembra avere alternative. Il 22 settembre i tedeschi andranno alle urne per rinnovare il Bundestag ed è evidente che il governo Merkel voglia evitare qualsiasi discussione pericolosa sulla Grecia: che si tratti dell'ennesimo piano di salvataggio o del nuovo taglio del debito chiesto con insistenza dal Fondo monetario.

Stando ai sondaggi, i cristiano democratici guidati dalla cancelliera (Cdu) dovrebbero confermarsi come primo partito, ma il terzo mandato della Merkel dipenderà anche dal risultato dei suoi alleati Liberali, che da anni vedono calare i propri consensi.

A questo sottile filo sono appese le speranze del principale partito d'opposizione, la socialdemocratica Spd, che in questi giorni punta proprio sul caso greco per sottrarre voti agli avversari. "Ci sarà un brusco risveglio dopo l'elezione - ha detto Carsten Schneider, la voce più autorevole in materia di bilancio nelle fila dell'Spd -. Negando la necessità di ulteriori aiuti alla Grecia, la cancelliera sta mentendo alla gente prima delle elezioni".

Intanto, da Atene arrivano i conti del secondo trimestre. Fra aprile e giugno il Pil greco è calato del 4,6% su base annua, registrando così il ventesimo trimestre consecutivo con il segno meno. Il dato è migliore rispetto alle stime degli analisti (-5%) e al -5,6% registrato fra gennaio e marzo, ma difficilmente da numeri di questo tipo si può trarre una qualche forma di sollievo.

Nei primi sette mesi dell'anno, inoltre, Atene ha messo a segno un avanzo primario (ovvero una differenza positiva tra entrate e uscite al netto degli interessi) di 2,6 miliardi di euro. Si tratta di un dato essenziale per il futuro abbattimento del debito, ma è stato ottenuto solo grazie ai soldi concessi dalla Ue e dal Fmi, agli interessi sui titoli di Stato restituiti dalle banche centrali e alle spese per investimenti più basse del previsto.

La Grecia è ormai in recessione da cinque anni e dal 2010 viene tenuta in vita artificialmente con piani che hanno imposto misure mortifere per l'economia reale. In condizioni del genere il debito greco sarà sostenibile soltanto finché l'Europa e l'Fmi non si faranno da parte. Nel breve e nel medio periodo è molto difficile immaginare come Atene possa tornare a rifinanziarsi da sola sui mercati con titoli pluriennali. Gli aiuti dovranno quindi proseguire e a trarne beneficio sarà anche la Germania, visto che le banche tedesche sono le più esposte in terra ellenica.

A questo punto non rimane che attendere il prossimo round dell'incontro. Le trattative fra la Troika e il governo greco riprenderanno il 29 settembre, vale a dire una settimana dopo le elezioni tedesche. Una fortunata coincidenza per la cancelliera.  


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