di Michele Paris

Dopo le incertezze e il relativo stallo delle ultime settimane, le manovre degli Stati Uniti e dei loro alleati in Europa e in Medio Oriente per rovesciare il regime siriano sono riprese a pieno ritmo con la chiusura della campagna elettorale per la Casa Bianca che ha portato alla rielezione di Barack Obama. Nonostante le divisioni che persistono a Washington sull’approccio alla crisi in Siria, i nuovi sviluppi registrati già negli ultimi giorni sembrano prospettare un maggiore coinvolgimento di un’amministrazione democratica impegnata in un rimpasto di governo che potrebbe avere riflessi importanti anche sulle prossime scelte di politica estera.

A preparare i nuovi scenari che stanno prendendo forma era stato il vero e proprio ordine emesso a fine ottobre a Zagabria dal Segretario di Stato, Hillary Clinton, con il quale gli USA hanno di fatto scaricato il Consiglio Nazionale Siriano (CNS). Quest’ultimo organismo, che godeva fino ad allora del pieno appoggio delle potenze occidentali, è diventato improvvisamente, agli occhi di Washington, totalmente incapace di rappresentare la popolazione siriana e le sue aspirazioni democratiche.

Il governo americano, una volta preso atto anche dell’inadeguatezza del CNS nel conseguire significativi successi militari sul campo, ha perciò imposto la sua sostituzione con una nuova struttura di più ampio respiro, teoricamente in grado di includere tutte le varie voci dell’opposizione a Bashar al-Assad. Nell’elenco di nomi redatto dal Dipartimento di Stato hanno continuato però a figurare uomini della CIA, oppositori al regime più o meno screditati, islamisti, ma anche personalità scelte tra le minoranze del paese, in particolare di fede alauita come Assad e la sua cerchia, così da dare una parvenza di pluralismo e di rappresentanza di tutta la società siriana.

Sotto la diretta supervisione dei loro protettori occidentali e arabi, i vari gruppi di opposizione al regime di Damasco si sono riuniti lo scorso fine settimana in un hotel di lusso a Doha, in Qatar, dove tra scontri e divergenze sono alla fine riusciti a partorire una nuova organizzazione unitaria, denominata Coalizione Nazionale delle Forze della Rivoluzione Siriana e dell’Opposizione.

L’accordo sulla formazione del gruppo è stato subito propagandato dai governi e dai media occidentali come una svolta verso la creazione di un’opposizione che parlerà con una sola voce, difendendo gli interessi del popolo siriano. Ciò che rimane, in ogni caso, è però la sostanziale impopolarità in patria dei suoi membri e l’incapacità, o la mancanza di volontà, da parte di questi ultimi, di tenere a freno i gruppi jihadisti che continuano a rendersi responsabili di efferati episodi di violenza in Siria.

La nuova Coalizione è stata riconosciuta lunedì dal Consiglio di Cooperazione del Golfo come il “legittimo rappresentante del popolo siriano” e dalla Lega Araba per il momento solo come “rappresentante delle aspirazioni” di quest’ultimo. Martedì, invece, a riconoscerla ufficialmente è stata la Francia, il cui presidente Hollande, da Parigi, ha definito la “Coalizione Nazionale il solo legittimo rappresentante del popolo siriano e futuro governo di una Siria democratica”.

La Coalizione, in sostanza, servirà a dare una facciata di democrazia e unità tra le numerose fazioni che compongono l’opposizione ad Assad, in modo da giustificare agli occhi dell’opinione pubblica occidentale l’aumentato appoggio militare e finanziario che si sta preparando per rovesciare il regime.

In ogni caso, le disposizioni di Hillary Clinton sono state recepite non senza resistenze dai leader del CNS, anche se alla fine sono stati convinti a fare un passo indietro con la promessa di una quota di rappresentanza significativa all’interno del nuovo organismo.

Alla guida della Coalizione è stato eletto l’imam sunnita più volte imprigionato a Damasco, Sheikh Ahmad Mouaz al-Khatib, mentre la scelta del vice-presidente è ricaduta su Riad Seif, dissidente e uomo d’affari su cui da tempo aveva messo gli occhi l’ormai chiusa ambasciata americana a Damasco. La nuova leadership dei ribelli è stata subito inviata a partecipare al summit della Lega Araba al Cairo e alla prossima riunione dei cosiddetti “Amici della Siria” che si terrà in Marocco per raccogliere consensi e appoggio materiale per le operazioni da condurre sul campo.

Quel che è certo è che il nuovo gruppo che dovrebbe formare il prossimo docile governo filo-occidentale e sunnita del dopo Assad non ha alcun interesse a cercare una soluzione pacifica della crisi in Siria, dal momento che i suoi vertici continuano ad escludere qualsiasi dialogo con un regime che mantiene una chiara superiorità militare e un certo appoggio tra le minoranze che vivono nel paese e tra la borghesia urbana che ha beneficiato delle aperture al libero mercato del regime nell’ultimo decennio.

Il progetto dell’opposizione siriana creato in Qatar annuncia piuttosto un’intensificazione delle violenze, dal momento che per la Coalizione patrocinata da Washington arriveranno a breve massicce forniture di armi, accompagnate probabilmente da un possibile intervento diretto delle potenze che desiderano la fine di Assad, come è ovvio giustificato da ragioni umanitarie.

I venti di guerra nei giorni seguiti al successo elettorale di Obama sono dunque tornati a soffiare minacciosamente sulla Siria, in particolare al confine settentrionale e meridionale. La Turchia, ad esempio, settimana scorsa ha chiesto di potere dispiegare missili Patriot americani lungo il proprio confine con la Siria nel quadro di una possibile imposizione di una “no-fly zone” che, come in Libia lo scorso anno, servirebbe come pretesto per mettere a segno bombardamenti contro le postazioni delle forze di sicurezza di Assad. I Patriot in Turchia comporterebbero anche il probabile arrivo in questo paese di centinaia di militari americani.

Lunedì, inoltre, in seguito alle incursioni aeree del regime siriano sulla città di confine di Ras al-Ain, il governo islamista di Erdogan ha rafforzato il proprio contingente militare nella regione, sorvolata anche da alcuni F-16. L’atteggiamento di Ankara ha il pieno appoggio della NATO, come ha confermato lunedì il Segretario Generale, Anders Fogh Rasmussen, il quale ha affermato che la Turchia può contare sulla solidarietà dell’Alleanza e che sono già pronti piani per la difesa e la protezione del paese da eventuali aggressioni provenienti dalla Siria.

Lungo il confine meridionale, invece, è Israele che è ufficialmente entrato nel conflitto in corso. Tel Aviv sembra muoversi infatti verso il superamento dei dubbi a lungo nutriti sulla rimozione di un regime che per decenni ha garantito una certa stabilità nella regione. Questa svolta è apparsa evidente nei giorni scorsi, quando le forze israeliane hanno bombardato postazioni dell’artiglieria siriana dopo che alcuni missili erano caduti, con ogni probabilità involontariamente e nel quadro delle operazioni di Damasco contro i ribelli, sulle alture del Golan, occupate da Israele con la Guerra dei Sei Giorni del 1967.

Le perplessità registrate a Washington in seguito ai fatti di Bengasi dell’11 settembre scorso, che avevano prefigurato lo scenario agghiacciante che attende la Siria se si continuerà ad appoggiare forze di opposizione tra le quali dominano gruppi terroristici e fondamentalisti sunniti, non sembrano dunque avere impedito agli Stati Uniti di proseguire sulla strada della promozione dei ribelli per rovesciare con la forza il regime di Assad.

I media d’oltreoceano in questi giorni raccontano di come l’amministrazione Obama stia riesaminando le proprie opzioni riguardo la Siria, in particolare dopo che la passività americana avrebbe contribuito alla destabilizzazione di alcuni paesi vicini che stanno pagando le conseguenze del conflitto siriano. In realtà, il contagio è dovuto precisamente al coinvolgimento, sia pure indiretto, e all’attivismo statunitense e di paesi come Turchia, Arabia Saudita o Qatar, per abbattere Assad, alimentando lo scontro settario che ha finito per allargarsi a paesi come Libano e Iraq già attraversati da simili conflitti interni nel recente passato.

L’evoluzione della posizione degli Stati Uniti verso un impegno sempre maggiore in Siria sembra essere confermata anche dalla probabile scelta di Susan Rice, attuale ambasciatrice USA all’ONU, come sostituta di Hillary Clinton alla guida del Dipartimento di Stato.

La Rice è una delle più convinte sostenitrici della necessità di promuovere gli interessi dell’imperialismo del suo paese in nome della difesa dei diritti umani, come conferma l’entusiasmo che la contraddistinse lo scorso anno nell’intraprendere l’operazione in Libia.

Secondo quanto riportato lunedì dalla Reuters, infatti, Susan Rice farebbe parte di una fazione all’interno dell’amministrazione Obama che spinge per un’azione più incisiva degli USA riguardo alla Siria, mentre gli ambienti militari e dell’intelligence appaiono ancora piuttosto cauti.

Questi sviluppi indicano quindi l’avvicinarsi di nuove devastanti guerre scatenate per motivi umanitari da parte degli Stati Uniti, con buona pace di quanti hanno creduto alle recentissime promesse elettorali di Obama che annunciavano una nuova era di pace dopo le rovinose avventure belliche dell’ultimo decennio.

di Michele Paris

Le dimissioni rassegnate qualche giorno fa dal direttore della CIA, generale David Petraeus, hanno messo in agitazione tutto l’ambiente politico americano a pochi giorni dalla rielezione alla Casa Bianca del presidente Obama, sollevando una serie di interrogativi sul futuro della principale agenzia di intelligence a stelle e strisce. Soprattutto, però, l’uscita di scena del 60enne ex comandante delle forze di occupazione in Iraq e in Afghanistan rimane avvolta per molti versi nel mistero, dal momento che la sua infedeltà coniugale sembra essere solo un pretesto dietro al quale potrebbero nascondersi implicazioni di natura politica decisamente più rilevanti.

Come è ormai noto, Petraeus ha sottoposto la propria lettera di dimissioni a Barack Obama giovedì scorso e quest’ultimo le ha accettate il giorno successivo dopo averne valutato l’opportunità. Secondo la versione ufficiale, le ragioni dell’addio alla CIA sarebbero legate unicamente al suo coinvolgimento in una relazione extra-coniugale con la scrittrice 40enne Paula Broadwell, la quale aveva stabilito legami piuttosto stretti con Petraeus nell’ambito della stesura di una biografia del generale scelto da Obama poco più di un anno fa per guidare l’agenzia di Langley.

Nell’affaire di Petraeus si sarebbe involontariamente imbattuto l’FBI dopo che una seconda donna, la 37enne Jill Kelley di Tampa, in Florida, la scorsa primavera aveva notificato al Bureau la ricezione di una manciata di e-mail anonime nelle quali veniva minacciata per avere flirtato in maniera impropria con il generale Petraeus. Jill Kelley, la cui identità è stata rivelata solo domenica  dalla Associated Press, è una funzionaria del Dipartimento di Stato incaricata di coordinare i rapporti con il Comando delle Forze Speciali e, assieme al marito, aveva conosciuto Petraeus e la moglie, Holly, quando quest’ultimo era a capo del Comando Centrale, la cui sede si trova appunto a Tampa.

Dopo avere ricevuto le suddette e-mail, Jill Kelley le aveva segnalate ad un agente dell’FBI suo amico, il quale aveva fatto partire un’indagine preliminare che avrebbe successivamente identificato l’autrice in Paula Broadwell. Durante l’analisi dell’account della donna, l’FBI è venuto a conoscenza di altre e-mail dal contenuto esplicito provenienti dal direttore della CIA, rivelando così la relazione tra i due. Paula Broadwell è anch’essa un ex ufficiale dell’esercito ed ha svolto servizio per un anno in Afghanistan.

Gli agenti dell’FBI hanno interrogato la Broadwell per la prima volta a partire dal 21 ottobre scorso e nel suo PC sarebbero stati trovati alcuni documenti classificati che a suo dire non ha ottenuto tramite Petraeus, circostanza confermata anche da quest’ultimo dopo avere ammesso la relazione extra-coniugale con la sua biografa.

Alla luce dei risultati dell’indagine, l’FBI avrebbe concluso che non vi erano le basi per un procedimento legale, poiché non erano state riscontrare violazioni della legge né era stata messa in pericolo la sicurezza nazionale. Sempre secondo la ricostruzione ufficiale, l’FBI, aspettandosi la chiusura della vicenda, ha alla fine informato dell’accaduto il superiore nominale di Petraeus, il direttore dell’Intelligence Nazionale, James Clapper, nel pomeriggio dell’election day (martedì scorso), anche se di lì a pochi giorni sono invece giunte le dimissioni del generale.

Le polemiche sulla questione non si sono fatte attendere, soprattutto perché il Congresso e la Casa Bianca sono stati tenuti all’oscuro dell’indagine su un funzionario governativo così importante. Il presidente Obama, ad esempio, sarebbe venuto a conoscenza dei fatti solo giovedì, quando ha ricevuto Petraeus con in mano le sue dimissioni. Anche i vertici dell’FBI e del Dipartimento di Giustizia sarebbero stati informati tardivamente dell’indagine, cioè solo alla fine dell’estate, nonostante le regole del Dipartimento impongano agli agenti di notificare tempestivamente ai propri superiori eventuali indagini che coinvolgono funzionari pubblici.

Ad aggiungere un’ulteriore nota di intrigo alla vicenda è stata poi un’altra rivelazione. Secondo i resoconti, infatti, l’agente dell’FBI che aveva avviato l’indagine preliminare sulle e-mail di minaccia ricevute dall’amica Jill Kelley, preoccupato per possibili violazioni della sicurezza nazionale, a fine ottobre, cioè a pochi giorni dal voto, ha sentito la necessità di informare della relazione extra-coniugale di Petraeus il leader di maggioranza alla Camera dei Rappresentanti, Eric Cantor. Messo al corrente dei fatti, il deputato repubblicano della Virginia avrebbe poi esposto le stesse apprensioni al direttore dell’FBI, Robert Mueller.

Secondo i media americani, l’FBI non avrebbe fornito in anticipo le informazioni su Petraeus a Congresso e Casa Bianca per un certo imbarazzo nel rendere di dominio pubblico una relazione extra-coniugale di un personaggio così importante in assenza di rilevanza legale. Il presidente Obama, tuttavia, ha accettato senza eccessivi drammi le dimissioni del direttore della CIA, il quale secondo la versione ufficiale ha lasciato il suo incarico perché avrebbe potuto essere ricattato e quindi mettere a rischio la sicurezza nazionale.

La vicenda Petraeus, così come viene raccontata dai giornali d’oltreoceano, sembra avere svariati aspetti quanto meno insoliti, a cominciare proprio dal fatto che la Casa Bianca e il Congresso, o quanto meno la maggioranza di esso, sono stati tenuti a lungo all’oscuro dell’indagine, resa nota alla fine in concomitanza con la rielezione di Obama.

Anche se non appaiono ancora chiare le forze che hanno agito dietro alle dimissioni forzate del capo della CIA, è altamente improbabile che, per la rilevanza del personaggio e del suo ruolo, non vi siano risvolti politici e che tutto dipenda soltanto dalla scoperta di una relazione clandestina, soprattutto perché lo stesso FBI era giunto alla conclusione che non vi erano stati comportamenti illegali né minacce alla sicurezza nazionale.

Come ha ricordato domenica il New York Times, poi, l’FBI ha una lunga storia, soprattutto sotto la direzione di J. Edgar Hoover, di indagini segrete nella vita sessuale di importanti personalità di Washington per mettere assieme dossier che consentono ricatti o che al momento opportuno possono spingere a inevitabili dimissioni.

Sulla questione ha con ogni probabilità influito anche la posizione ricoperta da David Petraeus. Il generale, ad esempio, era stato nelle ultime settimane al centro delle polemiche seguite all’assassinio a Bengasi dell’ambasciatore USA in Libia, J. Christopher Stevens, l’11 settembre scorso. Petraeus avrebbe dovuto testimoniare questa settimana a porte chiuse di fronte alle commissioni per i Servizi Segreti di Camera e Senato sul ruolo e le responsabilità della CIA nei fatti di Bengasi. Come hanno confermato alcuni membri delle due commissioni, Petraeus sarà esentato per il momento dal testimoniare.

Su tale questione, va ricordato che l’assalto al consolato di Bengasi, nonostante gli sforzi della classe politica americana di incentrare il dibattito unicamente sulla risposta iniziale dell’amministrazione Obama, ha fatto emergere i legami imbarazzanti tra il governo degli Stati Uniti, con la CIA in testa, e i gruppi jihadisti responsabili della morte dell’ambasciatore e di altri tre cittadini americani, nonché del caos che regna in Libia, sui quali Washington aveva puntato per rovesciare il regime di Gheddafi.

L’indagine dell’FBI e del Dipartimento di Giustizia che ha causato la caduta del direttore della CIA, inoltre, indica anche possibili scontri tra le diverse agenzie governative e che sembravano appartenere al passato. Da considerare infine, anche se appaiono tutt’altro che evidenti le implicazioni, il ruolo svolto da Petraeus in 14 mesi al vertice della CIA, durante i quali è stato protagonista di una evidente espansione delle attività dell’agenzia di intelligence nell’ambito della guerra al terrore.

In questo senso, vanno ricordate almeno le divergenze di vedute tra Petraeus e il numero uno dell’anti-terrorismo USA, John Brennan, attorno alla campagna di assassini mirati condotta con i droni in Pakistan, Yemen e altrove. Come aveva recentemente rivelato un’inchiesta del Washington Post, mentre Petraeus insisteva per espandere la flotta di droni assegnata alla CIA, Brennan preferiva limitare il ruolo dell’intelligence in questo settore dell’anti-terrorismo, per lasciarlo soprattutto nelle mani delle forze armate, teoricamente sottoposte a regole più trasparenti e quindi più facilmente controllabili dai vertici civili.

Secondo le indiscrezioni che circolano a Washington in questi giorni, proprio John Brennan sarebbe uno dei principali candidati alla successione di Petraeus alla direzione della CIA. Già ex funzionario dell’agenzia, di cui è stato a capo della stazione in Arabia Saudita, Brennan gode della totale fiducia di Obama, il quale nel 2009 aveva già cercato di installarlo nel ruolo assegnato successivamente a Petraeus, ma la sua candidatura finì per naufragare precocemente a causa del coinvolgimento nel programma di interrogatori con metodi di tortura promossi dall’amministrazione Bush.

La fine di Petraeus, in ogni caso, conferma ancora una volta come le faccende sessuali private di uomini importanti vengano sfruttate per regolare i conti all’interno della classe dirigente americana, facendo passare relazioni extra-coniugali come reati inammissibili. Ciò appare tanto più inquietante nel caso di Petraeus, il quale al comando delle forze di occupazioni statunitensi nell’ultimo decennio ha presieduto a svariati crimini di guerra in Iraq e in Afghanistan che lo hanno proiettato ai vertici di una delle più influenti agenzie governative.

Con l’addio di Petraeus, il presidente Obama procederà ora a nominare come suo sostituto l’attuale vice-direttore della CIA, Michael Morell, già al fianco di George W. Bush e ugualmente apprezzato dall’attuale inquilino della Casa Bianca. Morell, molto ben visto dai funzionari della CIA, potrebbe anche essere confermato alla guida dell’agenzia e, assieme a John Brennan, appare al momento il candidato più accreditato per la successione a Petraeus. Morell e Brennan sembrerebbero infatti poter garantire a Obama un maggiore controllo su Langley, i cui rapporti con la Casa Bianca in questi quattro anni non sono stati del tutto senza attriti.

 

di Carlo Musilli

Se all'improvviso i vostri figli sognano di visitare il Colorado o lo Stato di Washington, non è detto che sia solo per la bellezza dei paesaggi. Mentre votavano per il loro nuovo presidente, in questi due brandelli di terra americana gli elettori si sono prodotti anche in un referendum. E hanno liberalizzato l'uso della marijuana “a scopo ricreativo”, rispettivamente con il 53 e il 55% dei voti favorevoli.

Dai 21 anni d’età sarà consentito il possesso personale di 28,5 grammi di sostanza. Più sobri i cugini del Massachussetts: sì alla canna libera, ma solo “a scopo terapeutico” (diritto già concesso in 17 Stati, più il District of Columbia). Intanto, Maryland e Maine hanno dato il via libera alle nozze fra omosessuali.

Sembrava fosse uno scherzo da sbornia post-elettorale, invece è vero. Nella terra natale del proibizionismo è arrivata una sorprendente ventata liberal. Dal '19 al '33 negli Stati Uniti non si poteva fabbricare, vendere, importare né trasportare alcol. Alla fine capirono che il divieto non riduceva affatto il tasso d'alcolismo, anzi. Distillare nelle vasche da bagno era diventato uno sport nazionale.

Oggi come allora, un paio di states si sono finalmente resi conto che vietare l'erba non risolve granché. Almeno per tre ragioni. Primo: le droghe leggere non producono gli stessi effetti di quelle pesanti. Secondo: diverse ricerche hanno dimostrato che la cannabis può essere utilizzata a scopi terapeutici o palliativi contro alcune patologie. Terzo: in nessuna epoca o paese il proibizionismo ha mai funzionato fino in fondo come deterrente, tant’è vero che gli americani sono oggi fra i maggiori consumatori di droghe al mondo.

Il pragmatismo di Colorado e Washington sorprende soprattutto perché da anni siamo abituati a conoscere un'America strozzata dal bigottismo repubblicano. Non è questione di etica protestante, qui voliamo molto più basso. Basta ricordare la cronaca recente. Nella campagna elettorale appena conclusa, la destra ha contrapposto a Barack Obama un impresentabile mormone del Michigan. Un tizio alla “Settimo cielo”, Mitt Romney, che ha pensato bene di candidare gente arrivata con la macchina del tempo direttamente dal medioevo.

Un esempio su tutti è quello di Richard Mourdock. Correva per il Senato in Indiana, sostenuto dal reazionario Tea Party, e ci ha regalato la seguente perla antiabortista: “Penso che anche quando la vita comincia nell'orribile situazione di uno stupro, si tratti comunque di qualcosa che Dio voleva che accadesse". Non viene da pensare a una classe dirigente illuminata, al passo coi tempi. Ma gli Stati Uniti sono davvero un grande Paese, almeno in senso geografico. E al loro interno riescono a contenere personaggi da Controriforma come cittadini del XXI secolo.

Certo, la novità di legge non può esser vista di buon occhio dall’amministrazione centrale. L’operazione apre un conflitto diretto con il governo federale, che classifica ancora la cannabis come sostanza illegale. Il dipartimento di Giustizia americano ha chiarito che, nonostante i risultati dei due referendum, le norme nazionali restano confermate. Una contraddizione davvero scomoda.

Tanto è vero che John Hickenlooper, governatore del Colorado, ha scritto in un comunicato che “non è ancora tempo di festeggiare”, perché l’attuazione della nuova norma sarà “un processo complicato”. E, non si sa bene in che modo, dovrà tener conto dei regolamenti federali.

C'è però anche un altro aspetto da considerare. “Let's get down to business”, direbbero gli americani. Parliamo d'affari. Oltre a danneggiare il narcotraffico dal Messico e dall'America Latina, la liberalizzazione porterà anche un discreto gruzzolo nelle casse pubbliche. Grazie alle nuove tasse sul commercio di marijuana, oltre mezzo miliardo di dollari si materializzerà ogni anno nel bilancio dei due Stati, che pure non sono affatto fra i più popolosi degli Usa. Viene da chiedersi allora cosa succederebbe se la cannabis fosse legalizzata anche in posti come la California, la Florida, New York.

Secondo uno studio condotto da 300 esperti di economia (tra cui tre premi Nobel) la legalizzazione in tutti gli Stati Uniti consegnerebbe al governo americano 13,7 miliardi di dollari l’anno. Alle tasse (6 miliardi) si sommerebbe il risparmio dei soldi spesi per far rispettare il divieto in vigore (altri 7,7 miliardi). Uno sballo, no?   

 

 

di Michele Paris

La rielezione relativamente agevole di Barack Obama alla Casa Bianca ha confermato la presenza negli Stati Uniti di una maggioranza di elettori che continua a respingere in maniera decisa le politiche radicali e ultraliberiste rappresentate dal Partito Repubblicano e dalla candidatura di Mitt Romney. Di conseguenza, nonostante l’evidente calo dei consensi per il presidente democratico in questa tornata elettorale, anche grazie ad una campagna incessante da parte dei media liberal rimane piuttosto diffusa nel paese la sensazione o, meglio, l’illusione, che Obama e il suo partito possano agire da alternativa allo strapotere e all’influenza su Washington dei colossi di Wall Street e dei grandi interessi economici.

In questa prospettiva, il voto di martedì può avere espresso, almeno nelle intenzioni di poco più della metà degli elettori, un mandato affinché gli Stati Uniti intraprendano un percorso verso quel modello di società descritto dallo stesso Obama in campagna elettorale, fatto ad esempio di solidarietà, pieni diritti democratici e civili, giustizia sociale e via dicendo.

A fronte di questo messaggio inviato dai votanti nell’election day 2012, praticamente tutto l’establishment democratico, Obama compreso, subito dopo la diffusione dei risultati finali si è affrettato ad affermare invece che il mandato degli elettori sarebbe in realtà per un compromesso con i repubblicani che, d’altra parte, hanno mantenuto il controllo della Camera dei Rappresentanti.

Per questo, i discorsi del dopo voto sono serviti a tranquillizzare l’aristocrazia economica e finanziaria americana circa la volontà dell’amministrazione Obama di mettere mano da subito alla riforma fiscale e alla questione del debito pubblico in accordo con il Partito Repubblicano, smentendo così le pretese di quanti avevano ripetuto incessantemente che l’elezione metteva di fronte due visioni opposte dell’economia e del ruolo del governo nella società americana.

L’insistenza durante la campagna elettorale di entrambi i candidati sul problema del debito pubblico ha confermato poi la distanza tra la classe politica statunitense e la maggioranza della popolazione. Secondo i rilevamenti sul comportamento degli elettori, infatti, solo un votante su dieci ha indicato la questione del deficit come la più pressante per il paese.

Il rifiuto delle posizioni della destra repubblicana è stato in ogni caso uno dei fattori fondamentali per la conferma di Obama alla Casa Bianca e ciò ha influito anche sulle sconfitte, considerate impensabili fino a pochi mesi fa, subite dal partito di Romney in alcune competizioni per il Senato. Nelle sfide, ad esempio, per i seggi di Indiana e Missouri, due stati orientati decisamente verso il Partito Repubblicano e conquistati martedì dal miliardario mormone, i candidati di estrema destra Richard Mourdock e Todd Akin avevano visto svanire già nelle scorse settimane le loro chances di successo in seguito a dichiarazioni quanto meno discutibili su aborto e violenza sessuale, lasciando perciò strada ai democratici Joe Donnelly e Claire McCaskill.

Questi risultati hanno decretato inoltre la sconfitta come forza politica dei Tea Party, i quali avevano sostenuto numerosi candidati ultra-conservatori, consentendo loro di conquistare molte primarie repubblicane nella prima parte dell’anno. I Tea Party si sono così confermati poco più di una creatura mediatica e il risultato degli sforzi finanziari di una ristretta cerchia di super-ricchi per dare una facciata popolare al tentativo di spostare sempre più a destra l’agenda repubblicana e, di conseguenza, dell’intero dibattito politico americano.

I problemi evidenziati nuovamente dopo il voto di martedì per il Partito Repubblicano riguardano in parte l’incapacità di adeguarsi ai mutati equilibri sociali e razziali negli USA in questi anni. L’aumento del peso delle minoranze etniche nelle elezioni del 2012 è stato molto consistente, tanto che Obama è stato in grado di conquistare la Casa Bianca assicurandosi appena il 38% dei voti degli elettori bianchi, cioè 5 punti percentuali in meno rispetto a quattro anni fa. Soltanto nel 1984, come ha fatto notare il Wall Street Journal, i democratici ottennero una quota più bassa del voto bianco, quando però Walter Mondale venne letteralmente spazzato via da Ronald Reagan.

L’incapacità del Partito Repubblicano di intercettare il voto, ad esempio, degli ispanici appare tanto più grave quanto l’amministrazione Obama, pur avendo adottato limitati provvedimenti per offrire un percorso verso la cittadinanza a certe categorie di immigrati, si è distinta in questi quattro anni per il numero record di deportazioni rese esecutive.

Quello Repubblicano, in definitiva, si sta sempre più configurando come un partito che, oltre alla sezione dell’aristocrazia economica e finanziaria che non appoggia i democratici, può contare solo sul voto di bianchi, anziani e di coloro che vivono in aree rurali e suburbane, una fetta dell’elettorato cioè in netto restringimento nell’ambito dei cambiamenti sociali e demografici che stanno attraversando gli Stati Uniti.

Il vero problema per i repubblicani è però soprattutto la natura apertamente classista delle politiche che continua a promuovere, diretta conseguenze dei settori della società a cui i suoi vertici fanno esclusivo riferimento. Alla luce di questa situazione all’interno del partito e, ancor più, della sclerotizzazione dell’interno panorama politico d’oltreoceano, i cambiamenti che potrebbero essere adottati nel prossimo futuro finiranno quasi certamente per essere soltanto cosmetici.

La vittoria di Obama avrebbe poi segnato il fallimento della scommessa delle grandi banche di Wall Street che quest’anno avevano scommesso in gran parte su Mitt Romney. L’industria finanziaria americana, infatti, a differenza del 2008 ha investito ingenti somme sul candidato repubblicano, dopo che anche le sterili misure di regolamentazione del loro settore adottate dai democratici erano apparse ai loro occhi una inaccettabile limitazione alla possibilità di speculare in totale libertà.

Questa inversione di rotta da parte di Wall Street sarebbe stata motivata anche dai toni populisti tenuti in campagna elettorale da Obama, il quale ha spesso tuonato contro i ricchi banchieri. Il presunto scontro tra gli amministratori delegati delle banche di investimenti d’oltreoceano e l’establishment democratico non va tuttavia sopravvalutato.

Obama e i suoi colleghi di partito hanno già provveduto a rassicurare gli ambienti finanziari, promettendo un impegno chiaro per la riduzione del debito pubblico tramite il ridimensionamento della spesa pubblica, esattamente come richiesto pochi giorni fa a entrambi i partiti dai top manager delle principali compagnie di Wall Street.

Il riavvicinamento tra le banche americane e l’amministrazione Obama non tarderà ad arrivare, con i democratici che cercheranno di rientrare nelle grazie di futuri donatori la cui generosità sarà comunque fondamentale per i prossimi appuntamenti elettorali. Il banco di prova in questo senso potrebbe essere la stesura delle regole di implementazione della “riforma” del sistema finanziario del 2010 e la nomina dei nuovi vertici delle varie agenzie teoricamente preposte alla supervisione dell’industria finanziaria stessa.

La rielezione di Obama, infine, potrebbe prefigurare importanti cambiamenti in politica estera, anche se in campagna elettorale non erano emerse differenze sostanziali tra le posizioni dei due candidati alla Casa Bianca. Se la promozione a qualsiasi costo degli interessi dell’imperialismo americano in ogni angolo del pianeta rimarrà l’obiettivo principale del presidente democratico, saranno da verificare una serie di decisioni specifiche che dovrebbero essere prese nei prossimi mesi.

Sulla questione del nucleare iraniano, la stampa ha recentemente rivelato l’esistenza di un accordo tra Washington e Teheran per stabilire colloqui bilaterali dopo il voto. La Casa Bianca ha in realtà già smentito la notizia ma la ricerca di un accordo con la Repubblica Islamica potrebbe essere secondo alcuni una strada che Obama intende percorrere una volta liberatosi di ogni preoccupazione elettorale. Allo stesso modo, e forse più probabilmente, le tensioni potrebbero tuttavia anche aumentare, portando ad un possibile aperto conflitto con l’Iran, visto che l’obiettivo principale per gli Stati Uniti rimane il cambiamento di regime a Teheran utilizzando il pretesto del programma nucleare.

Un grande punto interrogativo rimane invece riguardo la questione palestinese, per la quale dopo il fallimento dei colloqui di pace durante le fasi iniziali del primo mandato di Obama, l’amministrazione democratica non sembra avere alcun piano alternativo da proporre. Sui rapporti israelo-palestinesi pesano anche le relazioni con Tel Aviv e in particolare del presidente con il premier Netanyahu, il quale nonostante i complimenti espressi all’inquilino della Casa Bianca dopo il voto di martedì aveva nascosto a fatica le sue preferenze per Romney.

In questo senso, il lavoro fatto a Washington dalle principali lobbies israeliane, a cominciare da AIPAC, per fare eleggere il candidato repubblicano non è andato dunque a buon fine, a conferma che, nonostante il servilismo di quasi tutta la classe politica USA nei confronti di Tel Aviv, questa attitudine non riflette necessariamente l’orientamento della maggioranza degli elettori ebrei americani.

Sul fronte dei rapporti con l’Europa, il bis di Obama dovrebbe avere suscitato maggiore soddisfazione tra i governi che, come quello francese, sostengono la necessità di privilegiare politiche di crescita economica invece dell‘austerity senza compromessi alla Merkel.

La posizione dell’amministrazione Obama, tuttavia, come quella appunto di Hollande, non prescinde da una pesante riduzione della spesa sociale o da uno smantellamento dei diritti del lavoro, come confermano non solo i provvedimenti adottati negli ultimi quattro anni ma anche le durissime misure che verranno prese a Washington già dalle prossime settimane per ridurre il deficit tramite pesantissimi tagli ai programmi pubblici destinati ai redditi più bassi.

In definitiva, se la subordinazione assoluta nei confronti dei poteri forti d’oltreoceano e la difesa degli interessi del capitalismo americano all’estero rimarranno la cifra del secondo mandato di Obama alla Casa Bianca, le politiche concrete che verranno messe in atto nei prossimi quattro anni a Washington saranno tutte da valutare e avranno in ogni caso effetti significativi sulle sorti dell’intero pianeta.

di Michele Paris

Confermando la tendenza delineata da quasi tutti i sondaggi nelle ultime settimane di campagna elettorale, Barack Obama si è confermato martedì il 44esimo presidente degli Stati Uniti d’America, chiudendo con ogni probabilità in maniera definitiva quasi sei anni di inseguimento alla Casa Bianca da parte del rivale repubblicano, Mitt Romney. Il successo del presidente democratico è apparso di proporzioni nettamente inferiori rispetto al 2008, come dimostrano almeno due stati persi tra quelli conquistati nella precedente tornata elettorale e un margine sul suo avversario nel voto popolare che, secondo i dati non ancora definitivi, ammonterebbe a circa due milioni di voti, contro i quasi dieci milioni che lo separarono da John McCain quattro anni fa.

Se su scala nazionale il vantaggio di Obama sembra attestarsi a meno del 2%, cioè in linea con quanto previsto dalla media delle rilevazioni della vigilia, più ampio appare invece quello dei voti elettorali che decidono l’elezione. L’attuale inquilino della Casa Bianca si è infatti assicurato 332 voti elettorali contro i 206 di Romney, anche se i media americani nella mattinata di mercoledì non hanno ancora assegnato ufficialmente i 29 della Florida, dove Obama è comunque avanti di qualche decina di migliaia di voti sugli oltre 8 milioni espressi.

Il tutto sommato traballante successo del presidente è stato possibile grazie alla sua affermazione, se verrà confermata la Florida, in tutti e sette i cosiddetti stati “swing” o “tossup” cioè quelli in bilico tra i due candidati. Con la chiusura delle urne all’una di questa notte in Italia nel primo di questi stati - la Virginia - gli exit poll avevano subito indicato un percorso tutto in salita per Romney, il quale ha visto progressivamente restringersi le proprie opzioni per una possibile vittoria. Obama ha così potuto alla fine mettere le mani su Colorado, Iowa, New Hampshire, Ohio, Virginia, Wisconsin e, probabilmente, Florida, lasciando a Romney solo Indiana e North Carolina tra gli stati che erano andati al candidato democratico nel 2008.

Tutte le affermazioni di Obama in questi sette stati sono però risultate estremamente sofferte con margini che vanno tra i 5 e i 6 punti percentuali in Iowa, New Hampshire e Wisconsin a meno di un in Florida. In tutti questi stati, Obama ha fatto segnare una flessione rispetto al 2008, in particolare in Wisconsin e Colorado (-3%). Anche nei rimanenti stati, che erano considerati più o meno solidamente nella sua colonna, Obama ha perso terreno sia in termini percentuali che di voti espressi, con le uniche modeste eccezioni di New Jersey (+0,8%) e del piccolo Rhode Island (+0,2%). Significativamente, a scrutinio non ancora ultimato, Obama avrebbe perso la quota maggiore di consensi proprio nel suo stato - l’Illinois - con un calo del 4,6% e circa mezzo milione di voti in meno.

Come previsto, inoltre, a determinare la rielezione di Obama è stata la maggioranza dei voti raccolti tra le donne e le minoranze di colore e ispaniche, mentre Romney ha decisamente fatto meglio tra gli uomini e gli elettori bianchi. L’affluenza alle urne è apparsa inferiore rispetto al 2008, a conferma dello scarso entusiasmo tra gli elettori e dell’assenza di candidati realmente rappresentativi della maggioranza degli americani. Sia pure ancora in assenza di dati ufficiali complessivi, l’Associated Press ha ad esempio scritto che in Vermont, Mississippi e South Carolina l’affluenza è stata del 14% inferiore rispetto al 2008, mentre in Maryland uno su dieci elettori che avevano votato quattro anni fa non si è recato alle urne.

Per dare l’idea del livello di disinteresse per il voto, un’indagine di un paio di mesi fa condotta da USA Today aveva prospettato che addirittura 90 milioni di americani registrati nelle liste elettorali si sarebbero astenuti. Dal momento che negli Stati Uniti i cittadini non vengono inseriti automaticamente nelle liste elettorali, a queste cifre va aggiunto perciò anche il numero degli americani non registrati.

L’equilibrio che aveva segnato i giorni precedenti l’election day, in ogni caso, sembrava far presagire un possibile allungamento dei tempi per l’assegnazione della presidenza, con possibili dispute legali prolungate. Questa prospettiva è sembrata per qualche tempo concretizzarsi questa notte con l’iniziale attesa da parte di Romney nel concedere la sconfitta nonostante tutte le proiezioni prevedessero l’affermazione di Obama.

Dal suo quartier generale di Boston, alla fine, a notte fonda il candidato repubblicano ha riconosciuto la vittoria del rivale davanti ai suoi sostenitori, mentre poco più tardi Obama è apparso su un palco a Chicago lanciando il consueto banale appello all’unità per un paese drammaticamente segnato da enormi divisioni di classe.

Più che una conferma della fiducia degli americani in un secondo mandato di Barack Obama, gli elettori presentatisi ai seggi sembrano piuttosto avere respinto le ricette proposte per il paese da Mitt Romney, in particolare di orientamento ultra-liberista in ambito economico. L’incertezza che ha accompagnato la vigilia e la flessione nel gradimento popolare del presidente indicano però evidenti malumori tra quanti lo avevano votato con entusiasmo nel 2008.

Nessuna particolare sorpresa ha segnato anche le altre competizioni di martedì, con i democratici che hanno mantenuto il controllo del Senato, probabilmente guadagnando un seggio ai danni dei repubblicani, i quali hanno invece potrebbero ampliare leggermente la loro maggioranza alla Camera dei Rappresentanti. Significativa è stata poi l’approvazione di due referendum sulla legalizzazione dei matrimoni gay in Maine e in Maryland. L’esito positivo di entrambi ha segnato la prima approvazione popolare in assoluto negli Stati Uniti di simili provvedimenti, in precedenza sempre decisi da sentenze di tribunali.

Alla luce dei risultati di martedì, dunque, gli equilibri politici a Washington non cambieranno in maniera rilevante, con un presidente democratico e un Congresso spaccato. Di fronte ad un simile scenario, sarà da valutare il margine di manovra di Obama per quello che si annuncia il più importante dibattito da qui al mese di gennaio, anche se praticamente mai sollevato in campagna elettorale, vale a dire la necessità di trovare un accordo bipartisan sulla riduzione del debito pubblico americano per evitare che a inizio 2013 scattino una serie di tagli automatici alla spesa federale che andrebbero a colpire in particolare il settore militare.

Nei prossimi mesi, infine, resterà da vedere, oltre a possibili agitazioni in casa repubblicana, anche se negli ultimi quattro anni alla Casa Bianca un Obama senza preoccupazioni elettorali sarà in grado o avrà la volontà di imprimere una qualche svolta su numerose questioni irrisolte, come ad esempio quelle legate al cambiamento climatico o all’immigrazione e, soprattutto, alla politica estera, a cominciare da Palestina e Iran, argomenti sui quali le promesse di quattro anni fa appaiono ancora ben lontane dall’essere mantenute.


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