- Dettagli
- Scritto da Administrator
- Categoria principale: Articoli
- Categoria: Esteri
di Vincenzo Maddaloni
Sarà un Natale (7 gennaio quello Ortodosso) fuori di ogni dubbio da dimenticare quello di Maria, Nadia e Jekaterina del gruppo punk femminista Pussy Riot, condannate a due anni di reclusione per «teppismo motivato da odio religioso». Le ragazze si erano esibite lo scorso febbraio nella cattedrale di Cristo Salvatore a Mosca con una parodia liturgica di quaranta secondi e una supplica pop alla Vergine: «Liberaci da Putin».
Le Izvestia, le Notizie in italiano, uno dei quotidiani più diffusi in Russia, ha ritratto Maria e Nadia entrambe in divisa, rivelando che ora trascorrono le giornate a cucire uniformi per le forze di polizia. Maria Alyokhina, 24 anni, che ufficialmente «si sta adattando» alla colonia di Berezniki negli Urali, avrebbe - informa sempre il giornale - problemi con la toilette all'aperto, con un menu poco compatibile con le sue esigenze di vegetariana, e siccome starebbe ricevendo minacce nel carcere in cui è detenuta, ha chiesto, «l’attenzione e il sostegno della comunità internazionale e delle organizzazioni russe per la difesa dei diritti umani».
Nadia Tolokonnikova, 23 anni appena compiuti,detenuta in Mordovia, vorrebbe invece avere soltanto più libri da leggere. Le Izvestia, precisa che la detenuta Tolokonnikova, «è integrata e non si lamenta» e a corredo mostra le fotografie di una ragazza ben coperta dalla divisa della colonia penale dove i tempi sono scanditi: la sveglia è alle 6, c’è un'ora per pulire la camera, colazione e poi al lavoro fino all'appello delle 17, cena, tempo libero, alle 22 si spengono le luci.
Maria, invece, spiegano sempre le Izvestia, è in isolamento in quanto, come ha precisato l’ufficio stampa del sistema penitenziario russo di Berezniki, «Alekhina si trova in un posto sicuro, dove non rischia niente, in una struttura con celle che si trova nel settore d’isolamento, qui la condannata può restare tutto il tempo che vuole, se si sente in pericolo».
Così, le due attiviste iconoclaste che erano abituate a indossare costumi e passamontagna fluorescenti trascorrono le giornate nella colonia penale. La loro compagna Jekaterina Samutsevich, 22 anni, sebbene sia stata rilasciata pare non riesca a coglierne il beneficio perché, «dentro o fuori sei sempre sotto controllo. La Russia è una grande prigione», ha spiegato in un’intervista di qualche giorno fa.
Le tre ragazze, come detto, sono state condannate per “teppismo premeditato, motivato da odio verso la religione” e altro ancora. Ricordano le cronache che esse si erano introdotte nella Cattedrale di Cristo Salvatore e dopo essersi fatte il segno della croce, avevano cercato di mettere in scena una canzone. In meno di un minuto, erano state scortate fuori dalle guardie. Tuttavia le riprese della performance erano state poi usate per creare un video clip che ha fatto il giro del mondo, alimentando intorno alla vicenda i clamori dello scandalo che non si sona ancora spenti.
La canzone, come detto, mette in scena una sorta di preghiera punk, con un'invocazione a Theotókos (Madre di Dio, cioè la Beata Vergine Maria), affinché "mandi via Putin". In essa si menziona anche il Patriarca russo Cirillo I, indicandolo come qualcuno che crede più in Putin che in Dio e dandogli esplicitamente della malafemmina. La loro performance, tuttavia, non ha avuto la benché minima condivisione popolare in Russia. Anzi è avvenuto l’esatto contrario, poiché la gran parte della società russa non l’ha interpretata soltanto come un'offesa alla propria sensibilità religiosa, ma all’intera Storia russa di cui proprio la cattedrale del Cristo Salvatore ne è uno dei simboli più importanti.
Sicuramente è il tempio più amato dagli abitanti della Capitale, anche se non ha alle spalle secoli di storia come le tre cattedrali del Cremlino. Era stato eretto per onorare i caduti della guerra contro Napoleone, in memoria di una delle pagine più sanguinose ed eroiche della Russia: la prima "guerra patriottica” come veniva definita dalla storiografia ufficiale sovietica. Nel suo interno c’erano migliaia di targhette con i nomi dei soldati russi morti quando le truppe dell’imperatore Bonaparte arrivarono fino a Mosca nell’estate del 1812 e quando ne furono cacciate nel dicembre successivo più dal freddo e dagli stenti che dalle battaglie.
Fu lo stesso zar Alessandro I a dare l'ordine di costruire il tempio, già all'indomani della ritirata di Napoleone, fu lo zar Nicola II ad avviare concretamente i lavori, e fu Alessandro III ad assistere all'inaugurazione il 26 maggio 1883, settant'anni dopo. Tanto occorse per costruire la cattedrale. Per distruggerla bastarono tre giorni e un ordine di Stalin nel novembre del 1931.
Secondo la "storiografia parallela" pesò molto la paura che egli aveva di un possibile attentato contro il Cremlino che, teoricamente, poteva essere realizzato utilizzando la cupola della cattedrale del Cristo Salvatore come "base" poiché, con i suoi cento metri di altezza, era l'unico punto dal quale si potevano superare le mura della vecchia fortezza degli zar diventata il palazzo del potere sovietico.
La demolizione del tempio cominciò il primo dicembre del 1931 e, come ricordano gli storici fu «barbara e orrenda». Una squadra di genieri dispose le cariche di dinamite per abbattere le mura perimetrali, ma la prima esplosione lasciò quasi intatta la struttura. Anche il secondo tentativo andò a vuoto e i fedeli cominciarono a parlare di miracolo. Ma alla terza prova, il 5 di dicembre, mentre l'orologio della torre Spasskaja del Cremlino suonava il mezzogiorno, «la cupola si inclinò dolcemente», davanti agli sguardi attoniti di migliaia di moscoviti che s'erano radunati lungo la Moscova.
Per sgomberare tutto il terreno dalle macerie furono necessari tre anni. Lazar Kaganovic, l'allora primo segretario del Pc di Mosca e responsabile della sua trasformazione urbanistica, vi voleva edificare il Palazzo dei Soviet: riuscì a far scavare soltanto le fondamenta dalle quali, più tardi, fu ricavata una piscina all'aperto. Si salvarono soltanto alcuni pezzi di sculture e decorazioni che furono sparpagliati in diversi musei dell'Urss; mentre, ahimè, la gran massa dei decori fu frantumata per ricavarne una collinetta per lo zoo, dove vi pascolano da allora le capre tibetane.
Tuttavia quanto fin qua descritto è soltanto un aspetto di cosa rappresenti la cattedrale per i russi, e nemmeno il principale. Infatti, prima di ogni altra cosa c’è l'Ortodossia che l’amministra. Essa detiene il potere spirituale dai tempi del "secolo d'oro" nel Medioevo, quando i mongoli avevano smembrato la Rus' così sistematicamente che il Paese aveva quasi perduto il senso della propria identità, e non sarebbe sopravvissuto se la Chiesa non avesse tenuta accesa la fiamma della coscienza nazionale, dando vita al “secolo d’oro” appunto.
Il Khram, cioè la cattedrale del Cristo Salvatore, rappresenta il periodo sinodale della vecchia Chiesa nata a Kiev, poi trasferitasi come Patriarcato a Mosca e nel Settecento subordinata allo Stato da Pietro il Grande. Essa ricorda dunque secoli di connivenza ambigua, subìta ma dalla Chiesa non condannata, che s'è tradotta in quel sostegno allo Stato zarista con il quale Stalin giustificò la repressione che aveva scatenato chiudendo i monasteri e i seminari e portando l’Ortodossia a un passo dalla sua scomparsa, alla fine degli Anni Trenta, quando in tutta l'Urss erano rimasti soltanto quattro vescovi attivi.
Tuttavia i pope riuscirono nonostante la sorte avversa, a mantenere un loro equilibrio misterioso tra i credenti e il partito, tra l'Eternità e la Storia. Essi sanno da sempre che i fedeli continuano a guardare con grande devozione alla città santa di Zagorsk con le sue cupole azzurre, da dove nei viaggi incantati di Leskov parte sempre l'ombra beata di Sergheij, per correggere nei sogni i servi di Dio in errore.
Tanti furono gli errori a cominciare dalla repressione staliniana, la campagna antireligiosa di Krusciov, l'intolleranza del periodo brezneviano fino a quella non meno infausta dell'ultimo Cernienko per non dire di quelli di Boris El'cin. Saranno i funerali del primo presidente russo, proprio Boris El'cin, morto per un attacco cardiaco il 23 aprile 2007, che venne esposto nella cattedrale del Cristo Salvatore appunto, a sancire di nuovo il ruolo prioritario della Chiesa nella società russa. Che Putin si è impegnato fin dalla sua prima elezione a mantenere e a tutelare.
Perché tutti sanno a cominciare dagli uomini del Cremlino che in quella stessa nuvola d' incenso che in ogni cerimonia s'innalza a due passi dall'altare, mille anni fa entrò Vladimir il Sole col suo mantello ampio, la lunga barba e la corona da principe guerriero. Portarono la spada, il fuoco e la Croce avvolti nei fumi degli incensi. Vladimir il Bello chinò il capo davanti al Dio dei cristiani, lui che aveva a Kiev ottocento donne, più di dieci figli e tutti e sei gli idoli delle tribù riuniti sul colle davanti al suo portone, Volos e Chors, Dazborg con Stribog, Mokos dio dell'amore.
Perùn, il dio terribile, signore del fulmine e del tuono, fu trascinato dai cavalli nel Dnepr dove non voleva affondare e chi lo aveva picchiato al passaggio coi bastoni vide a lungo sull' acqua la sua testa d' argento e i baffi d'oro. Ma ormai a Kherson il vescovo aveva già alzato la sua mano per benedire la conversione di Vladimir il Santo, battezzando con lui tutta la Rus' nel nome di Cristo, 6 mila 496 anni dopo la creazione del mondo.
Se questa è la storia e peraltro affatto dimenticata, ben si capisce perché le due detenute delle Pussy Riot non possano contare sul sostegno popolare. Maria Alyokhina - è notizia di pochi giorni fa - è stata ammonita altre due volte, dopo un primo richiamo poco dopo il suo arrivo, per essersi svegliata in ritardo.
La sveglia è alle sei del mattino, ma nella cella di isolamento in cui ella si trova non c’è un orologio, denuncia Pyotr Verzilov il marito della compagnia di Maria, Nadezhda Tololonnikova, che si presta a fare da portavoce alle ragazze in carcere.
Così Alyokina, rischia di non poter più beneficiare di eventuali riduzioni della pena anche perché , ella lamenta: «La libertà condizionata viene concessa più facilmente a chi frequenta la cappella del carcere, anche se la Russia è uno stato secolare». Essa non lo è mai stata se non a parole o meglio ancora a slogan, neppure quando la Russia era l’Urss, almeno secondo me che in quegli anni a lungo vi ho abitato e viaggiato.
- Dettagli
- Scritto da Administrator
- Categoria principale: Articoli
- Categoria: Esteri
di Michele Paris
A 33 anni di distanza dall’assassinio del dittatore Park Chung-hee, gli elettori della Corea del Sud hanno consegnato mercoledì la presidenza alla figlia di quest’ultimo, la 60enne deputata Park Geun-hye. La leader del partito conservatore Saenuri al potere ha sconfitto di misura lo sfidante, l’ex attivista per i diritti umani, Moon Jae-in, assicurando per la prima volta in assoluto ad una donna la più importante carica politica del paese asiatico.
Park Geun-hye, come avevano sostanzialmente mostrato i primissimi exit poll, ha raccolto il 51,6% dei voti espressi, contro il 48% del candidato del Partito Democratico Unito (DUP) di centro-sinistra. L’affluenza è stata del 75,8%, vale a dire quasi 13 punti percentuali in più rispetto alle presidenziali del 2007. La neo-presidentessa della Corea del Sud ha anche ottenuto oltre quattro milioni di voti in più del suo collega di partito, il presidente uscente Lee Myung-bak, quando fu eletto cinque anni fa senza riuscire a sfondare la soglia del 50%.
Questi numeri, assieme alla sconfitta già incassata lo scorso aprile nelle elezioni per il rinnovo del parlamento, riassumo il totale fallimento del tentativo del DUP di presentarsi come alternativa di governo ad un partito conservatore le cui politiche ultra-liberiste di questi anni hanno incontrato forti resistenze tra la popolazione sudcoreana e che a febbraio aveva addirittura cambiato il proprio nome (da Grande Partito Nazionale) per dare una qualche impressione di cambiamento e tamponare il crollo di consensi tra gli elettori.
La corsa alla presidenza di Moon, inoltre, avrebbe dovuto trarre più di un beneficio dal ritiro alla vigilia del voto di due candidati che minacciavano di dividere il voto della sinistra. Nelle scorse settimane a farsi da parte era stato l’imprenditore informatico trasformato in uomo politico, Ahn Cheol-soo, mentre qualche giorno fa aveva lasciato anche la candidata filo-nordcoreana del Partito Progressista Unito (UPP), Lee Jung-hee.
Anche con il campo completamente libero a sinistra, invece, Moon non è stato in grado di attrarre il voto dei giovani e di quanti si oppongono al Partito Saenuri, pagando l’ostilità persistente verso il suo partito, principalmente a causa delle politiche di liberalizzazione dell’economia messe in atto dai governi dei presidenti Kim Dae-jung e Roh Moo-hyun tra la fine degli anni Novanta e il 2008.
Park Geun-hye ha potuto così capitalizzare il suo appello rivolto soprattutto agli elettori più anziani grazie alla sostanziale riabilitazione della figura del padre, i cui 18 anni alla guida del paese tra gli anni Sessanta e Settanta sono stati presentati come il momento cruciale del miracolo economico della Corea del Sud, nonostante la durissima repressione del dissenso interno.
Uno dei temi più dibattuti della campagna elettorale è stata la necessità di regolamentare i cosiddetti “chaebol”, i giganteschi conglomerati dell’industria come Samsung o Hyundai che dominano l’economia del paese. L’avversione diffusa tra la popolazione nei confronti di questi ultimi aveva spinto la stessa Park Geun-hye a promettere iniziative per contenerne lo strapotere. È estremamente probabile, tuttavia, che in questo senso non ci saranno cambiamenti nel prossimo futuro. A gettare le basi del dominio dei chaebol era stato infatti proprio il padre della presidentessa eletta, il cui partito rimane tuttora il punto di riferimento di questi colossi.
Le reazioni dei rappresentanti della grande industria indigena, una volta diffusi i risultati del voto, sono state perciò all’insegna dell’entusiasmo. La Federazione delle Industrie Coreane, inoltre, nel suo messaggio ufficiale di congratulazioni a Park ha chiarito immediatamente quale sarà la linea del nuovo governo, affermando che il presidente dovrà “intraprendere politiche economiche per aiutare gli investimenti e la creazione di posti di lavoro, in modo che le nostre aziende possano concentrarsi sulla ripresa dell’economia”.
In altre parole, le grandi aziende chiedono di avere mano libera per aumentare i loro profitti e di comprimere ulteriormente i diritti e le retribuzioni dei lavoratori, come aveva preannunciato qualche settimana fa il vice-presidente della stessa associazione di categoria, avvertendo i cittadini sudcoreani di prepararsi “a stringere la cinghia”.
Le decisioni che si prospettano per il prossimo governo di Seoul fanno quindi prevedere un’intensificazione dello scontro sociale, dal momento che le misure sollecitate dai vertici dei chaebol andranno ad innestarsi su un quadro complessivo in rapido deterioramento. La crescita economica del paese è infatti in netto rallentamento, con molte grandi aziende che hanno già annunciato pesanti tagli di posti di lavoro, mentre le disuguaglianze sociali e di reddito sono tra le più marcate tra i paesi avanzati.
Sul fronte della politica estera, Park Geun-hye continuerà invece a garantire il rapporto privilegiato con gli Stati Uniti, come è tradizione del suo partito, anche se, in Corea del Sud come in altri paesi asiatici, gli interessi delle élite economiche sono sempre più orientati verso la Cina, che di Seoul è già il primo partner commerciale.
Allo stesso modo, mentre Moon Jae-in e il DUP proponevano una politica di distensione nei confronti della Corea del Nord, sulla linea della cosiddetta “Sunshine Policy” dei due presidenti democratici nel decennio scorso, l’atteggiamento di Park Geun-hye non dovrebbe scostarsi di molto dalla linea dura del presidente uscente Lee Myung-bak che in questi cinque anni, assieme alla presenza sempre più aggressiva degli Stati Uniti nel continente asiatico, ha contribuito ad aggravare le tensioni nella penisola.
Durante la campagna elettorale, la neo-presidentessa ha in realtà criticato la posizione inflessibile di Lee Myung-bak verso Pyongyang, affermando anche di essere disposta ad incontrare il giovane leader nordcoreano, Kim Jong-un. Queste aperture, sostiene Park Geun-hye, sono però vincolate all’abbandono da parte della Corea del Nord del proprio programma nucleare, un’eventualità che il regime stalinista ha più volte escluso, così che qualsiasi prospettiva di dialogo nei prossimi anni appare poco più di un miraggio.
Assieme al recentissimo trionfo elettorale di Shinzo Abe e del suo Partito Liberal Democratico in Giappone, la conferma del Partito Saenuri alla guida della Corea del Sud farà dunque in modo che i due principali alleati di Washington in Asia nord-orientale continueranno a perseguire un’agenda all’insegna del nazionalismo, con il rischio di aggravare ulteriormente conflitti che, in questa regione, negli ultimi anni hanno già superato più volte il livello di guardia.
- Dettagli
- Scritto da Administrator
- Categoria principale: Articoli
- Categoria: Esteri
di Fabrizio Casari
La nomina del senatore democratico John Kerry, Presidente della Commissione Esteri del Senato a Segretario di Stato appare ormai imminente. La definitiva giubilazione di Susan Rice, la cui candidatura è rimasta sepolta sotto le macerie dell’ambasciata Usa a Bengasi, è già di per sé una buona notizia. La Rice, falco e devota custode dell’inclinazione imperiale, avrebbe certamente condizionato in senso più conservatore la già poco progressista politica estera di Obama. Alla nomina di Kerry potrebbe poi sommarsi quella dell’ex senatore democratico Chuck Hagel, che potrebbe divenire il nuovo Segretario alla Difesa.
Con queste due nomine, il circolo ristretto di Obama in materia di politica estera e militare (cioè le due facce della stessa medaglia) si gioverebbe di un deciso cambio di orientamento in termini di linea politica. Sia Kerry che Hagel, infatti, sono uomini di esperienza e competenza già sperimentate in politica estera e certamente, riguardo alla relazione tra USA e Cuba, rappresentano il punto di vita intelligente di quella parte di establishment che ritiene debba considerarsi chiusa la storia anacronistica dell’ostilità totale tra Washington e L’Avana.
Certo, gli interessi strategici della superpotenza non sono suscettibili di variazione profonda, che possano cioè ribaltare il sistema valoriale che sostiene la dionisiaca volontà di potenza dell’impero, però è altrettanto vero che una diversa impostazione politica sui temi delle relazioni internazionali ha avuto luogo nella storia statunitense, si pensi solo alla presidenza Carter. Il secondo mandato di Obama potrebbe assumere un profilo riformatore tante volte annunciato all’inizio del primo mandato e mai giunto.
Fin dal 1984, quando venne eletto al Senato, Kerry è sempre stato un avversario tenace delle politiche interventiste statunitensi in America latina, da lui sempre considerata come un continente con il quale mantenere una relazione politica importante e collaborativa; e nello specifico del rapporto con Cuba, ha sempre considerato inutile ed anacronistico il blocco statunitense, auspicando una svolta nelle relazioni bilaterali.
Coerentemente con le sue posizioni, Kerry non esitò a schierarsi contro lo stesso Obama in relazione all’utilizzo dell’agenzia USAID per destabilizzare Cuba, condizionando il via libera al finanziamento di venti milioni di dollari per le attività dell’agenzia ad una revisione di suoi programmi. Non esitò nemmeno a dichiararsi decisamente scettico circa l’utilizzo di fondi Usa per mantenere Radio e Tv Martì, le due emittenti legate alla FNCA, dicendosi convinto che “nessun cubano le vede o le sente e ancor meno gli interessano”.
In un chiaro riferimento agli episodi di malversazione di fondi e utilizzo degli stessi in funzione di greppia alla quale sfamano i propri appetiti i cosiddetti “dissidenti”, il senatore democratico non scelse le mezze misure per dichiararsi contrario: “Non ci sono prove - disse Kerry in un comunicato - che i programmi di promozione della democrazia, che fino adesso sono costati ai contribuenti statunitensi oltre 150 milioni di dollari, stiano aiutando il popolo cubano”. “Anzi - aggiunse - non sembra che i cosiddetti aiuti per la democrazia abbiano ottenuto risultati diversi da quello di aver provocato l’arresto di un contractor del governo statunitense (Alan Gross ndr) che distribuiva strumenti di comunicazione satellitari a contatti cubani”.
Dal canto suo Chuck Hagel, non ha mai risparmiato critiche proprio riguardo alla politica USA verso Cuba, definendola “senza senso”. Unico membro del Congresso che Carter invitò ad accompagnarlo in occasione della visita a Cuba nel 2002, Hagel si schierò a favore della legislazione per aprire il mercato cubano la vendita di alimenti e medicine e per ridurre le restrizioni sui viaggi tra Usa e Cuba.
Su Cuba la differenza d’approccio al tema della relazione con Cuba non risente particolarmente delle differenze tra Democratici e Repubblicani. Basti pensare che democratico è il deputato Robert Torricelli, autore di una legge anticubana che ha preso il suo nome e che ha fatto da apripista alla famigerata legge Helms-Burton, dal nome dei due senatori dell’ultradestra repubblicana. Insomma, quando si è trattato di accarezzare il pelo alla lobby terroristica e mafiosa cubano americana, né un partito né l’altro si sono sottratti all’obolo richiesto, pregiudicando in profondità la qualità della politica estera statunitense e vessando senza vergogna il popolo cubano.
La nomina di Kerry e Hagel, quindi, non verrà accolta nel modo migliore dai falchi del partito repubblicano e anche da quelli nelle file democratiche, tra questi primo fra tutti Bob Menendez, che insieme al senatore repubblicano Marco Rubio fu tra gli oppositori più accaniti del decreto presidenziale con il quale Obama riaprì i viaggi diretti tra Usa e Cuba (su questo fu scontro aperto proprio con Kerry, che appoggiava la decisione della Casa Bianca) e arrivò anche a minacciare la fine del contributo finanziario statunitense all’Organizzazione degli Stati Americani (OSA) quando decise di accogliere Cuba nelle sue riunioni.
E anche relativamente all’ipotesi di un dialogo tra Washington e L’Avana che avesse al centro i casi di Alan Gross, detenuto a Cuba per spionaggio e i cinque cubani accusati anch’essi di spionaggio e detenuti negli Usa a seguito di processi-burla, Menendez ebbe a dire, in una intervista al New York Times, che avrebbe preferito lasciare Alan Gross in carcere “per non entrare in negoziati con qualcuno che è ostaggio del governo cubano”. Ma Menendez non se la passa bene, coinvolto in vari scandali e il livello delle pressioni che storicamente la comunità cubanoamericana ha esercitato verso la Casa Bianca perché mantenesse la sua ostilità verso l’isola caraibica, ha decisamente perso di peso specifico.
Obama, infatti, ha vinto ad ogni livello le elezioni in Florida e nella stessa Miami-Dade ed è risultato vincitore anche nel voto della comunità latina. L’apporto di Kerry e Hagel al suo gabinetto di governo potrebbe spingere il presidente, al suo secondo e ultimo mandato, quindi indifferente alla minaccia della rielezione, a dare vita ad un cambio significativo della politica vetusta ed inutile verso Cuba.
A cominciare dalla presa di distanza tra la Casa Bianca e il recalcitrante magma reazionario di Miami che ha sempre ricattato politicamente ed elettoralmente ogni presidente democratico che pensava di porre anche solo piccoli cambiamenti nell’agenda statunitense per la regione.
Una rottura con l’estremismo dei fuoriusciti di Miami e una riconsiderazione dei rapporti bilaterali con Cuba risulterebbe essere, tra le altre cose, un passaggio importante sia nei confronti della comunità internazionale, che ogni anno in sede ONU condanna il blocco Usa, sia per il miglioramento generale dei rapporti con l’insieme dell’America latina.
La fine dell’isterìa anticubana, peraltro,, proprio per quanto appena detto, influirebbe positivamente anche nella politica interna. Perché, come afferma Richard Lugar, senatore repubblicano uscente tra i più prestigiosi negli USA, “un cambio di politica verso Cuba è nell’interesse nazionale degli Stati Uniti”.
- Dettagli
- Scritto da Administrator
- Categoria principale: Articoli
- Categoria: Esteri
di Michele Paris
Tra il 4 e il 17 del mese di dicembre, negli Stati Uniti sono deceduti due veterani del Congresso, l’ex deputato del Texas Jack Brooks e il senatore delle Isole Hawaii Daniel Inouye. 89 anni il primo e 88 il secondo, i due parlamentari democratici sono stati oggetto di elogi sulla stampa istituzionale americana per i risultati ottenuti nelle rispettive lunghissime carriere politiche.
Ciò che è rimasto assente dai loro necrologi è però un episodio, estremamente significativo del degrado delle istituzioni democratiche americane, che li ha visti protagonisti un quarto di secolo fa, quando entrambi facevano parte della commissione d’inchiesta sul cosiddetto scandalo Iran-Contras.
Per quanto riguarda Jack Brooks, soprattutto la stampa liberal d’oltreoceano ha ricordato come egli sia stato uno dei pochi parlamentari democratici del sud degli Stati Uniti ad appoggiare le leggi sull’emancipazione razziale negli anni Sessanta, ma anche la sua presenza su un auto che faceva parte del convoglio del presidente Kennedy quando fu assassinato a Dallas il 22 novembre 1963.
Nel ricordo del senatore di origine giapponese Daniel Inouye non è potuto mancare invece il suo impegno per le Hawaii nei 53 anni di servizio al Congresso, nonché la Medaglia d’Onore conferitagli nel 2000 dal presidente Clinton come riconoscimento tardivo per un suo atto eroico durante la Seconda Guerra Mondiale sul fronte italiano che gli causò la perdita di un braccio.
Come già anticipato, tuttavia, Brooks e Inouye erano anche due dei rappresentanti democratici di Camera e Senato selezionati per la Commissione del Congresso incaricata di fare luce su una delle più gravi crisi scoppiate durante la presidenza Reagan o, meglio, di evitare che riguardo ad essa venissero resi noti tutti gli imbarazzanti dettagli.
L’affare Iran-Contras (o Irangate) venne alla luce nel novembre del 1986, quando il giornale libanese Ash-Shiraa rivelò l’esistenza di un piano segreto autorizzato dalla Casa Bianca per vendere armi all’Iran in cambio della liberazione di ostaggi americani in Libano nelle mani di Hezbollah, la milizia sciita appoggiata dalla Repubblica Islamica. Il piano, in realtà, era stato variato rispetto alla sua forma originaria per consentire di destinare una parte dei proventi di queste forniture ai Contras, cioè i gruppi armati controrivoluzionari che combattevano il governo Sandinista del Nicaragua e che si erano distinti per avere commesso svariati crimini e abusi.
Qualche giorno prima della rivelazione giornalistica, lo scandalo era peraltro già emerso in seguito all’abbattimento in Nicaragua di un aereo che trasportava armi destinate ai Contras. L’unico sopravvissuto dei quattro membri americani dell’equipaggio - Eugene Hasenfus - in una conferenza stampa organizzata dai sandinisti a Managua aveva infatti ammesso che l’aereo su cui viaggiava stava appunto trasportando armi e faceva parte di un piano operato dalla CIA.
Vennero successivamente alla luce anche aspetti ancora peggiori dell’operazione: gli aerei americani, che decollavano dalla base militare di Ilopango in El Salvador, trasportavano armi in Nicaragua, e droga dalla Colombia, i cui proventi servivano a finanziare l’esercito terroristico dei Contras. A coordinare le attività in El Salvador c’erano Frank Carlucci e Luis Posada Carriles, il terrorista di origini cubane denominato il “bin Ladin delle Americhe”, legato alla Fondazione Nazionale Cubano Americana fondata proprio con il sostegno diretto di Ronald Reagan con l’incarico di colpire Cuba con il terrore.
Un giornalista americano, Gary Webb, vinse due premi Pulitzer con i suoi articoli pubblicati sul San Josè Mercury News e con il libro-inchiesta The Dark Alliance (L’alleanza oscura) proprio sull’operazione Iran-Contras. Pochi mesi dopo la sua pubblicazione venne trovato morto in casa con due colpi di fucile nel petto. Le autorità parlarono di suicidio..
Le operazioni segrete, approvate dal presidente Reagan, dimostravano quanto meno la doppiezza della condotta del governo americano, il quale nonostante la posizione ufficiale anti-iraniana stava fornendo armi a Teheran, alimentando di fatto le violenze nella sanguinosa guerra in corso con l’Iraq, al cui fianco gli Stati Uniti erano invece ufficialmente schierati. Inoltre, qualsiasi genere di assistenza ai Contras era palesemente illegale, dal momento che era stata proibita dal cosiddetto Emendamento Boland, dal nome del deputato democratico del Massachusetts che aveva promosso questa legislazione tra il 1982 e il 1984.
Malgrado gli ostacoli legali, l’amministrazione Reagan aveva dato comunque il via libera all’operazione segreta, incaricandone della responsabilità il tenente colonnello Oliver North, uno dei membri del Consiglio per la Sicurezza Nazionale della Casa Bianca.
La commissione congiunta di Camera e Senato tenne così numerose sessioni dedicate allo scandalo, fino a che, il 13 luglio 1987, il dibattito finì per sfiorare una questione ad esso collegata ma con implicazioni ben più gravi. In quell’occasione, il deputato Jack Brooks provò cioè a chiedere conto allo stesso Oliver North del suo coinvolgimento in un piano segreto precedente all’affare Iran-Contras e che era stato rivelato il 5 luglio da un articolo del quotidiano Miami Herald.
Questo piano andava sotto il nome di “Operazione Rex ’84” (“Readiness Exercise 1984”) e prevedeva, tra l’altro, la sospensione della Costituzione negli Stati Uniti, l’entrata in vigore della legge marziale, l’assegnazione dei compiti di governo sia a livello statale che locale ai militari e l’arresto di un vasto numero di americani considerati una minaccia alla sicurezza nazionale. Un simile scenario avrebbe dovuto scattare nel caso in cui il presidente avesse dichiarato lo Stato di Emergenza Nazionale per far fronte ad una prevedibile ondata di opposizione nel paese in conseguenza dell’invasione americana di un paese centro-americano, come appunto il Nicaragua.
L’Operazione Rex ’84 era stata organizzata da Oliver North e da John Brinkerhoff, uno dei dirigenti dell’Agenzia Federale per la Gestione delle Emergenze (FEMA), alla quale sarebbero stati dati ampi poteri nell’eventualità dell’esplosione di una crisi in territorio statunitense. Secondo il Miami Herald, il piano di North e Brinkerhoff per l’amministrazione Reagan si ispirava ad uno documento del 1970 di Louis Giuffrida, un militare nominato direttore della FEMA nel 1981 dal presidente repubblicano, nel quale prospettava, nell’ambito di una situazione di emergenza nazionale, il trasferimento forzato di milioni di afro-americani in campi di detenzione.
Secondo le trascrizioni della seduta in questione, Brooks chiese dunque a Oliver North se, come membro del Consiglio per la Sicurezza Nazionale, gli fosse stato affidato l’incarico di lavorare ad un piano per garantire la “continuità del governo” da mettere in atto in caso di un qualche “significativo disastro”.
La domanda sembrò scuotere North e il suo legale, Brendan Sullivan, il quale si rivolse al senatore Daniel Inouye, co-presidente della commissione assieme al deputato dell’Indiana, Lee Hamilton, anch’egli democratico. Inouye intervenne allora prontamente affermando che “la domanda andava a toccare un’area altamente sensibile e classificata” e invitando perciò Brooks a desistere dal suo intento.
Quest’ultimo provò comunque a insistere, manifestando la propria preoccupazione, poiché aveva letto sul Miami Herald che “era stato realizzato un piano, da questa stessa agenzia (il Consiglio per la Sicurezza Nazionale), che in caso di emergenza prevedeva la sospensione della Costituzione”. Brooks si domandava se North avesse lavorato in questo ambito e, essendone praticamente certo, intendeva averne conferma dal diretto interessato.
Per tutta risposta, Inouye chiuse il discorso sull’Operazione Rex ’84, invitando “rispettosamente” ancora una volta il collega democratico “a non toccare l’argomento in questa occasione”, poiché, nel caso ci fosse stato qualche interesse, era certo che si sarebbe potuto affrontare in un’altra sessione. Brooks a questo punto lasciò cadere la questione e la commissione prevedibilmente non tornò più sull’argomento.
L’Operazione Rex ’84 e il tentativo di evitare qualsiasi discussione pubblica su di essa da parte del defunto senatore Inouye testimoniano sia il processo di erosione dei diritti democratici negli Stati Uniti in atto da almeno tre decenni sia la progressiva scomparsa dal panorama politico americano di voci autenticamente progressiste disponibili a difendere pubblicamente questi stessi diritti.
Alcune delle misure previste dal piano stilato dal colonnello Oliver North su richiesta dell’amministrazione Reagan, infatti, sarebbero state non a caso riprese negli anni successivi, in particolare con l’inaugurazione della guerra al terrore promossa da George W. Bush dopo l’11 settembre 2001.
Le incarcerazioni di massa di oppositori previste dall’Operazione Rex ’84 vennero ad esempio prese in considerazione - ai danni di cittadini arabi americani - nei mesi precedenti l’invasione dell’Iraq, come rivelò nel luglio del 2002 un articolo del quotidiano Detroit Free Press basato sulle dichiarazioni rilasciate da una fonte interna alla Commissione per i Diritti Civili negli Stati Uniti.
Gli assalti ai diritti garantiti dalla Costituzione hanno fatto registrare in ogni caso una drammatica escalation nell’ultimo decennio, questa volta sanzionati legalmente da provvedimenti come il "Patriot Act "o con la creazione del Dipartimento per la Sicurezza Nazionale e del Comando Settentrionale delle Forze Armate (NORTHCOM), quest’ultimo con lo scopo di condurre potenziali operazioni militari sul suolo americano nonostante le limitazioni imposte fin dal 1878 dal Posse Comitatus Act.
L’obiettivo sempre più sfuggente del terrorismo globale, in definitiva, ha finito per fornire alla classe dirigente americana la giustificazione per implementare misure profondamente anti-democratiche - dai tribunali militari alla facoltà del governo di controllare virtualmente tutte le comunicazioni dei propri cittadini, dalle detenzioni indefinite al potere del presidente di ordinare l’assassinio di chiunque sia sospettato di minacciare la sicurezza nazionale - che affondano le radici in piani segreti come quello appena sfiorato dall’inchiesta sullo scandalo Iran-Contras 25 anni fa e che mirano a creare le fondamenta legali per controllare e reprimere sul nascere qualsiasi opposizione interna ad una classe politica sempre più impopolare.
- Dettagli
- Scritto da Administrator
- Categoria principale: Articoli
- Categoria: Esteri
di Michele Paris
Con il ritiro qualche giorno fa della candidatura a Segretario di Stato dell’attuale ambasciatrice USA alle Nazioni Unite, Susan Rice, il presidente Obama sembra vicinissimo ad assegnare la guida della diplomazia americana al senatore del Massachusetts, John Kerry. Il candidato alla Casa Bianca per il Partito Democratico nel 2004, vista la sua esperienza e il rispetto guadagnato tra i colleghi del Senato, appare come una scelta sicura per la successione a Hillary Clinton, anche se sarà da verificare fino a che punto il suo presunto pragmatismo nell’approccio alle questioni internazionali riuscirà a modellare la politica estera degli Stati Uniti nei prossimi quattro anni.
La prima scelta di Obama per la Segreteria di Stato era appunto la delegata di Washington presso il Palazzo di Vetro di New York, la quale però si è vista costretta giovedì scorso ad inviare una lettera alla Casa Bianca nella quale ha comunicato la propria rinuncia ad un eventuale incarico. Susan Rice è infatti da tempo sotto il fuoco incrociato del Partito Repubblicano per le dichiarazioni rilasciate subito dopo l’assalto al consolato americano di Bengasi, in Libia, l’11 settembre scorso, che costò la vita all’ambasciatore, J. Christopher Stevens, e ad altri tre cittadini statunitensi.
Le accuse alla Rice, rivolte in particolare dai senatori repubblicani John McCain e Lindsey Graham, erano iniziate dopo la sua apparizione in alcuni talk show televisivi nei giorni successivi ai fatti di Bengasi. Pubblicamente, la Rice aveva definito l’attacco al consolato e ad un annesso edificio segreto della CIA come la conseguenza spontanea delle proteste esplose nel mondo arabo in seguito alla diffusione sul web di un video amatoriale che irrideva il profeta Muhammad.
In realtà, ben presto divenne noto che l’episodio era una vera e propria azione terroristica studiata a tavolino e portata a termine da uno o più gruppi di ex “ribelli” libici legati ad Al-Qaeda, con i quali peraltro gli Stati Uniti e lo stesso ambasciatore Stevens avevano collaborato per rovesciare il regime di Gheddafi.
Secondo i repubblicani, la Rice aveva deliberatamente fuorviato l’opinione pubblica americana per favorire la rielezione di Obama, impegnato a propagandare i risultati della propria amministrazione nella lotta al terrorismo. Secondo la versione ufficiale del governo americano, invece, nelle sue dichiarazioni iniziali la Rice si era semplicemente basata su rapporti forniti dall’intelligence che avevano rimosso qualsiasi riferimento a possibili legami degli assalitori con Al-Qaeda.
Dal momento che il candidato ad assumere la guida del Dipartimento di Stato deve ottenere l’approvazione del Senato, e che anche un solo senatore può bloccare il processo di conferma, le polemiche seguite agli assassini di Bengasi minacciavano seriamente di ingolfare una nomina così importante e, soprattutto, di interferire con le già difficili trattative in corso tra democratici e repubblicani per raggiungere un accordo sul cosiddetto “fiscal cliff”.
Se fonti interne all’amministrazione Obama hanno assicurato che la Casa Bianca non ha avuto alcun ruolo nella rinuncia della Rice, è molto probabile al contrario che il presidente e il suo staff abbiano fatto pressioni sull’ambasciatrice all’ONU per farsi da parte volontariamente, così da evitare distrazioni e imbarazzi. Prolungate e accese audizioni per la conferma della Rice avrebbero potuto inoltre esporre particolari poco graditi sui torbidi rapporti intercorsi tra le milizie estremiste e gli Stati Uniti nel conflitto orchestrato per “liberare” la Libia e che si stanno ora riproponendo in Siria.
Oltre che dai repubblicani, la scelta di Susan Rice non era stata digerita nemmeno da molti nell’ala liberal del Partito Democratico a causa del suo atteggiamento all’insegna dell’arroganza nei rapporti con i diplomatici di altri paesi e per i legami che la ex funzionaria del Dipartimento di Stato durante la presidenza Clinton aveva instaurato con leader africani responsabili di crimini e repressioni varie, come il defunto premier dell’Etiopia, Meles Zenawi, o i presidenti di Ruanda e Uganda, Paul Kagame e Yoweri Museveni.
In questo scenario, la scelta di John Kerry, che salvo sorprese potrebbe essere annunciata ufficialmente già questa settimana, è sembrata essere la più logica, anche perché di fatto sponsorizzata apertamente da molti suoi colleghi repubblicani al Senato, i quali vedrebbero aprirsi così uno spiraglio per strappare un seggio ai democratici in rappresentanza dello stato del Massachusetts.
Secondo fonti interne alla Casa Bianca citate da alcuni giornali d’oltreoceano, le riserve che il presidente nutrirebbe tuttora nei confronti di Kerry deriverebbero esclusivamente dal fatto che con la nomina di quest’ultimo la sua amministrazione finirebbe per avere sempre meno donne o appartenenti a minoranze etniche al proprio interno. Al di là delle motivazioni puramente propagandistiche nella scelta di una donna di colore come Susan Rice al Dipartimento di Stato, è probabile che se riserve effettivamente sussistono da parte di Obama verso Kerry, esse dipendano piuttosto dalla relativa diversità di vedute tra i due candidati sulle questioni di politica estera.
Mentre la Rice, come Hillary Clinton, può essere ascritta alla categoria dei falchi della diplomazia a stelle e strisce, John Kerry viene considerato relativamente più moderato. In passato, ad esempio, pur affermando il legame indissolubile del suo paese con Israele, Kerry ha infatti criticato gli insediamenti illegali in Palestina, mentre relativamente all’Iran, nonostante abbia approvato tutte le sanzioni imposte dagli Stati Uniti, ha a volte evitato i toni estremisti di molti suoi colleghi riguardo alla questione del nucleare.
Quest’ultimo atteggiamento di Kerry, secondo i commentatori più ottimisti, potrebbe indicare perciò una certa volontà di dialogo con Teheran da parte di Obama. Un altro segnale in questo senso potrebbe essere la scelta dell’ex senatore repubblicano del Nebraska, Chuck Hagel, per sostituire Leon Panetta al Dipartimento della Difesa. Anche Hagel è noto per le sue posizioni decisamente più moderate in politica estera rispetto agli standard del Partito Repubblicano e, in particolare, sull’Iran ha frequentemente espresso profondi dubbi circa l’opportunità di un intervento militare, così come la necessità di risolvere la crisi con il dialogo.
Se le nomine di John Kerry e Chuck Hagel non sono ancora del tutto certe è dovuto forse anche a qualche timore che essi suscitano in Israele. Queste preoccupazioni sono state espresse chiaramente da un recente articolo del quotidiano conservatore israeliano, Jerusalem Post, secondo il quale Kerry e Hagel - rispettivamente al Dipartimento di Stato e al Pentagono - non sarebbero esattamente la scelta preferita dal governo di Tel Aviv.
Kerry, in ogni caso, è un sostenitore della prima ora di Barack Obama e il presidente democratico nel corso del suo primo mandato lo ha spedito varie volte all’estero per risolvere alcune situazioni spinose, bypassando il Segretario di Stato Clinton. Dopo le elezioni presidenziali del 2009 in Afghanistan, seguite da una valanga di accuse di brogli nei confronti di Hamid Karzai, Kerry si recò ad esempio a Kabul per convincere quest’ultimo ad acconsentire almeno ad un secondo turno di ballottaggio. Allo stesso modo, dopo il raid che portò all’assassinio di Osama bin Laden nel maggio 2011, il 69enne senatore democratico cercò di placare le proteste delle autorità del Pakistan durante una visita prolungata in questo paese.
Se l’insuccesso della candidatura a Segretario di Stato di Susan Rice, alla luce soprattutto della sua incessante campagna per la promozione degli interessi americani nel mondo dietro la retorica degli interventi “umanitari”, non può che essere accolto positivamente, l’eventuale conferimento della responsabilità della diplomazia USA a John Kerry non sarà in ogni caso garanzia di una svolta sostanziale nella politica estera dell’amministrazione Obama.
Oltre al fatto che la Rice continuerà per ora ad occupare il posto di ambasciatrice all’ONU e che, secondo indiscrezioni, potrebbe presto addirittura diventare la consigliera del presidente per la Sicurezza Nazionale, ad ispirare le decisioni del nuovo numero uno del Dipartimento di Stato continueranno ad essere sempre e comunque le ragioni dell’imperialismo americano.