di Michele Paris

A meno di un mese dalla scadenza prevista per l’attivazione del cosiddetto “fiscal cliff”, il dibattito politico negli Stati Uniti continua a registrare la mancanza di un accordo condiviso tra democratici e repubblicani. La trattativa per evitare l’implementazione automatica e immediata di tagli alla spesa federale, compresa quella militare, e aumenti alle tasse per 600 miliardi di dollari a partire dal primo gennaio prossimo, lascia però intravedere più di uno spiraglio, giustificato anche dalla sostanziale identità di vedute tra i due partiti sulla necessità di ristrutturare i principali programmi sociali garantiti a decine di milioni di persone e di riformare il sistema fiscale in modo da favorire ulteriormente i redditi più elevati.

I più recenti sviluppi delle trattative in corso a Washington registrano la presentazione di una contro-proposta repubblicana firmata dallo speaker della Camera dei Rappresentanti, John Boehner, in risposta a quella sottoposta in precedenza dalla Casa Bianca. Il piano del leader repubblicano include un aumento delle entrate fiscali pari a 800 miliardi di dollari in dieci anni, senza aumentare però le aliquote più alte, e 1.200 miliardi di tagli alla spesa, cioè circa il doppio di quanto contiene la proposta democratica sul tavolo.

La scure repubblicana si abbatterebbe sui programmi Medicare e Medicaid (tagli per 600 miliardi), sui finanziamenti destinati ai buoni alimentari e ad altri ammortizzatori sociali (300 miliardi), su quelli per l’educazione e i trasporti pubblici (300 miliardi). Inoltre, l’età di accesso a Medicare - la copertura sanitaria pubblica riservata agli anziani - verrebbe innalzata da 65 a 67 anni e il popolare programma finirebbe progressivamente per essere destinato solo alla popolazione più povera, perdendo l’attuale carattere di universalità.

La precedente proposta di Obama, presentata settimana scorsa dal Segretario al Tesoro Tim Geithner, è invece un pacchetto da 2.200 miliardi di dollari, di cui 1.600 da ottenere con la cessazione a fine anno dei tagli alle tasse implementati da George W. Bush per i redditi superiori ai 250 mila dollari l’anno e il resto tramite tagli per 600 miliardi alla spesa destinata a Medicare, Medicaid e ad altri programmi sociali.

Sia l’amministrazione Obama che i leader democratici al Congresso insistono che un eventuale accordo sul “fiscal cliff” debba includere necessariamente il ritorno ai livelli di tassazione dell’era Clinton per i redditi più alti, mentre deve essere esclusa qualsiasi “riforma” dei programmi pubblici di assistenza.

Questi due presunti punti fermi fissati dai democratici sono però tutt’altro che inviolabili e servono unicamente a gettare fumo negli occhi dei cittadini americani, in particolare dei sostenitori liberal del presidente Obama, così da dare l’illusione che i democratici stiano perseguendo politiche a difesa di lavoratori, anziani e classe media mentre in realtà si stanno preparano assalti senza precedenti alle loro condizioni di vita.

In altre parole, la Casa Bianca, sull’onda del successo elettorale del mese scorso, intende puntare i piedi sul “fiscal cliff”, così da incassare una vittoria simbolica ai danni dei repubblicani per mezzo di un aumento a dir poco modesto delle tasse a carico degli americani più ricchi.

Un capitale politico, quello a disposizione di Obama in caso di raggiungimento di un accordo bipartisan secondo le proprie condizioni, che potrebbe poi spendere il prossimo anno quando si negozierà sulle “riforme” di fisco e spesa sociale, con provvedimenti che si tradurranno in un nuovo colossale trasferimento di ricchezza dalle classi più disagiate a quelle privilegiate.

Infatti, Obama e i leader democratici hanno lasciato intendere chiaramente in questi giorni di essere più che disponibili a trattare con i repubblicani su entrambe le questioni nei prossimi mesi. Lo stesso Geithner domenica scorsa è apparso a questo scopo in svariati programmi televisivi americani per ribadire che la Casa Bianca vuole “riformare” Medicare, Medicaid e Social Security. Questi programmi, ha avvertito il Segretario al Tesoro, non devono però essere inclusi nella discussione in corso sul “fiscal cliff”, ma saranno oggetto di trattative separate nel 2013.

L’amministrazione Obama, insomma, pur rifiutando la proposta di John Boehner di lunedì, ha fatto capire che tutto ciò che i repubblicani devono fare per ottenere la disponibilità democratica a mettere sul tavolo i tagli alla spesa federale nei prossimi mesi è accettare ora un lieve e momentaneo aumento delle tasse per i più ricchi.

Il concetto lo ha chiarito in prima persona e con il consueto cinismo anche il presidente Obama nel corso di una recente intervista a Bloomberg TV. L’inquilino della Casa Bianca ha spiegato che la sua proposta consiste appunto in un temporaneo innalzamento delle tasse per una ristretta cerchia di super-ricchi, poiché “alla fine del 2013 o il prossimo autunno potremmo avviare un processo nel quale lavorare ad una riforma fiscale… ed è possibile che le aliquote verranno abbassate allargando la base dei contribuenti”.

Allo stesso modo, il presidente americano ha ripetuto più volte di essere “pronto a lavorare con i leader democratici e repubblicani per tagliare gli eccessi della spesa sanitaria”. Quando poi gli è stato chiesto quale sia la sua posizione riguardo le proposte repubblicane di alzare l’età di accesso a Medicare e di ridurre gli adeguamenti legati all’inflazione per i benefit previsti da Social Security, Obama ha affermato di essere “disposto a valutare qualsiasi iniziativa che rafforzi (smantelli) il nostro sistema” sociale.

In definitiva, leggendo attraverso i resoconti dei media ufficiali, si comprende come un eventuale accordo che eviti il “fiscal cliff” entro la fine dell’anno, che in ogni caso comprenderebbe già importanti tagli alla spesa sociale, sarebbe solo un antipasto dei cambiamenti strutturali che verranno negoziati nel 2013 e che rimetteranno indietro di qualche decennio le lancette degli orologi per quanto riguarda l’estensione delle coperture garantite da programmi pubblici come Medicare, Medicaid e Social Security.

Sul fronte delle trattative, intanto, la parte relativamente moderata del Partito Repubblicano sembra essere vicina ad accettare il compromesso con Obama, tanto che nei giorni scorsi alcuni deputati hanno apertamente invitato i loro colleghi a dare il via libera all’aumento temporaneo delle tasse per il 2% dei contribuenti al vertice della piramide sociale negli Stati Uniti.

Secondo costoro, porre fine in questo modo allo scontro in atto consentirebbe ai repubblicani di presentarsi in una posizione di vantaggio in vista del confronto di più ampio respiro con i democratici nel 2013 e che, come si è visto, potrebbe portare anche ad un abbassamento del carico fiscale per i più ricchi.

Già a fine gennaio o a febbraio, poi, scatterà una nuova scadenza, quando cioè verrà raggiunto il tetto massimo dell’indebitamento americano e il Congresso sarà chiamato ad autorizzarne l’innalzamento. Questo appuntamento già viene preannunciato da media e politici con toni apocalittici e sarà dunque nuovamente sfruttato per far digerire alla popolazione altri “necessari” tagli alla spesa sociale.

L’ala più conservatrice del Partito Repubblicano continua però a respingere qualsiasi minimo provvedimento che minacci di intaccare la ricchezza delle classi privilegiate che rappresenta, tenendo perciò ancora lontano un possibile accordo. Tra i più fermi oppositori figura ad esempio il senatore ultra-conservatore della Carolina del Sud, Jim DeMint, il quale l’altro giorno ha criticato senza mezzi termini lo speaker John Boehner per avere proposto nuove entrate per 800 miliardi di dollari, anche se da ottenere senza aumenti di tasse ma soltanto riducendo alcuni rimborsi fiscali ed eliminando qualche scappatoia legale che permette ai più ricchi e alle aziende di abbattere il proprio carico fiscale.

Alla luce di queste persistenti divisioni, toccherà ai leader repubblicani raggiungere un qualche equilibrio all’interno del proprio partito, così da evitare possibili rotture ma anche le conseguenze politiche di avere fatto naufragare un’intesa che, in definitiva, entrambi gli schieramenti sono ansiosi di raggiungere al più presto.

di Michele Paris

Il 19 dicembre prossimo, gli elettori della Corea del Sud si recheranno alle urne per scegliere il nuovo presidente in un clima di crescenti tensioni in Asia nord-orientale. L’appuntamento sarà animato principalmente dalla sfida tra la favorita, la leader del partito conservatore Saenuri (“Nuova Frontiera”), Park Geun-hye, e il numero uno del Partito Democratico Unito (DUP) di centro-sinistra, Moon Jae-in, le cui quotazioni sono state rilanciate dal recente ritiro di un popolare candidato indipendente.

L’imprenditore informatico milionario ed ex insegnante Ahn Cheol-soo aveva infatti annunciato la propria rinuncia alla corsa alla presidenza lo scorso 23 novembre dopo settimane di discussioni per giungere ad una possibile fusione della sua campagna elettorale con quella del candidato del DUP. Alla fine, il 50enne Ahn ha dato il proprio appoggio tutt’altro che appassionato a Moon, sottolineando lunedì nel corso di un raduno con i propri sostenitori a Seoul che, in ogni caso, il voto “andrà contro le aspirazioni popolari per un nuovo tipo di politica” e criticando entrambi i candidati per una campagna all’insegna degli insulti e degli attacchi personali.

La sua ascesa politica è stata resa possibile d’altra parte dalla capacità di capitalizzare la profonda ostilità diffusa tra la popolazione sudcoreana nei confronti di tutto l’establishment politico, correttamente ritenuto responsabile della corruzione in aumento, del ristagno economico e soprattutto delle crescenti disuguaglianze sociali nel paese. Come il candidato progressista Moon, anche Ahn si era presentato inoltre agli elettori come un acceso critico dei cosiddetti “chaebol”, i giganteschi conglomerati dell’industria che dominano l’economia della Corea del Sud.

Con l’uscita di scena di Ahn, così, la competizione per la presidenza è diventata improvvisamente incerta. Park Geun-hye, figlia 60enne dell’ex dittatore sudcoreano Park Chung-hee, rimane comunque in vantaggio anche se il rivale sembra essersi notevolmente avvicinato grazie al probabile sostegno di quanti intendevano votare per Ahn. Secondo un recente sondaggio di Gallup Corea, alla vigilia del primo dei tre dibattiti televisivi, andato in onda martedì, Park avrebbe un margine di circa due punti percentuali su Moon, mentre un’altra rilevazione dell’istituto Realmeter le assegna un vantaggio di poco inferiore al 5%.

Nonostante le conseguenze delle politiche liberiste implementate in questi cinque anni dall’amministrazione dell’attuale presidente - l’ex CEO del colosso delle costruzioni Hyundai Engineering and Construction, Lee Myung-bak - il Partito Saenuri aveva ottenuto una netta vittoria nelle elezioni parlamentari dello scorso mese di aprile, infliggendo una pesante sconfitta al Partito Democratico Unito.

Questo risultato e le difficoltà mostrate dai sondaggi per il candidato del DUP indicano quindi il persistente discredito di un partito che, con i presidenti Kim Dae-jung e Roh Moo-hyun, ha governato per dieci anni tra il 1998 e il 2008, durante i quali sono state ugualmente adottate misure di liberalizzazione dell’economia e sostanzialmente smantellati i diritti dei lavoratori.

Queste politiche sono state messe in atto in risposta alla crisi economica asiatica del 1997-98 e, tra l’altro, hanno trasformato la Corea del Sud in uno dei paesi avanzati con il maggior numero di lavoratori assunti con contratti temporanei. La retorica del DUP, che si presenta con un programma volto a spezzare il monopolio dei grandi interessi del paese e a rafforzare lo stato sociale sudcoreano, non sembra perciò convincere troppo la maggioranza degli elettori, ben consapevoli che il partito di Moon Jae-in rappresenta in realtà soprattutto la piccola e media borghesia del paese penalizzata dalla concentrazione del potere economico nelle mani dei “chaebol”.

Il disprezzo ampiamente diffuso verso questi ultimi è stato cavalcato anche dalla conservatrice Park, nonostante il suo partito sia tradizionalmente il punto di riferimento dei giganti dell’economia sudcoreana. Per dare un’impressione di cambiamento e di rottura con il passato, il più importante partito sudcoreano di centro-destra lo scorso febbraio ha anche portato a termine un’operazione puramente cosmetica, cambiando il proprio nome da Grande Partito Nazionale a Partito Saenuri.

Park Geun-hye, inoltre, sta cercando in tutti i modi di prendere le distanze dai vertici del suo partito e dal presidente Lee, sposando anche svariate proposte elettorali avanzate dal suo rivale, in particolare riguardo la riduzione dei privilegi di cui gode la classe politica della Corea del Sud e la promozione di una maggiore trasparenza dei partiti.

In merito ai rapporti con la Corea del Nord, invece, Moon Jae-in e il suo partito si caratterizzano per un atteggiamento più conciliante e per la ricerca di un dialogo incondizionato, sull’esempio dei defunti presidenti Roh e Kim, il quale nel 2000 fu protagonista di una storica visita a Pyongyang, dove fu accolto da Kim Jong-il.

Moon auspica dunque un allentamento delle tensioni nella penisola coreana, mettendo fine alla linea dura perseguita da Lee Myung-bak in questi anni, così come propone un riassetto delle relazioni diplomatiche di Seoul, puntando ad un certo avvicinamento alla Cina, il principale partner commerciale della Corea del Sud, senza compromettere il rapporto privilegiato con gli Stati Uniti, tradizionalmente il principale alleato del paese.

Il presidente conservatore Lee, nel corso del suo mandato, è stato invece un fedele sostenitore della svolta asiatica dell’amministrazione Obama in funzione anti-cinese, anche se ha sollevato qualche malumore a Washington per avere fatto naufragare il progetto per una più stretta partnership - diplomatica e militare - con il Giappone, alimentando piuttosto il sentimento nazionalista e anti-nipponico per sfruttare a fini domestici la storica rivalità con un paese che ha occupato in maniera brutale la penisola di Corea per oltre tre decenni nella prima metà del secolo scorso.

Un fattore importante nelle presidenziali del 19 dicembre sarà come al solito proprio la Corea del Nord, con la quale le tensioni sono nuovamente aumentate in questi giorni in seguito alla decisione del regime stalinista del giovane leader Kim Jong-un di programmare il lancio di un missile a lungo raggio. Secondo Pyongyang il lancio servirebbe per mandare in orbita un satellite nordcoreano, mentre per Seoul e Washington sarebbe al contrario un’esercitazione per testare un missile balistico proibito.

Se il messaggio proveniente dalla Corea del Nord appare ben coordinato con il voto nel vicino meridionale, il lancio confermato tra pochi giorni, nonostante gli inviti a fermare le operazioni giunti anche da Russia e Cina, annuncia un possibile ulteriore deterioramento dei rapporti con Pyongyang e consente al partito di governo a Seoul di innalzare i toni nazionalistici, sfruttando la nuova crisi a tutto favore della propria candidata alla guida del paese.

di Michele Paris

Il mese di dicembre si è prevedibilmente aperto con il consueto elenco di violenze e di massacri in Siria, così come con le crescenti manovre dei governi occidentali per facilitare il crollo del regime di Bashar al-Assad. Ancora una volta, la diplomazia internazionale sta rivolgendo la propria attenzione in questi giorni verso la Turchia, uno dei paesi più attivi nel promuovere il cambio di regime a Damasco, dove lunedì è giunto in visita ufficiale il presidente russo, Vladimir Putin, al contrario uno dei principali alleati del governo siriano.

Sul terreno, nelle ultime ore le forze dell’esercito regolare sembrano avere intensificato le operazioni per respingere i “ribelli” in alcuni quartieri della capitale, dove l’aeroporto internazionale e le arterie stradali circostanti sono state teatro di cruenti scontri per conquistarne il controllo.

Gli Stati Uniti, intanto, hanno rispolverato la minaccia delle armi chimiche attribuite alla Siria. Nel fine settimana un articolo del New York Times ha infatti citato rapporti di intelligence che indicherebbero movimenti dell’arsenale chimico ad opera delle forze armate siriane e che hanno spinto Washington e alcuni loro alleati a mandare un avvertimento ad Assad tramite la Russia.

La rivelazione ha prodotto immediatamente una serie di congetture sull’uso che Damasco intenderebbe fare delle proprie armi chimiche, consentendo alla Casa Bianca di sfruttare la questione per preparare un possibile intervento diretto in Siria, sulla scia dell’invasione dell’Iraq nel 2003. Già lo scorso mese di agosto, Obama aveva definito l’eventuale minaccia di utilizzare le proprie armi chimiche da parte della Siria come “una linea rossa”, oltrepassata la quale gli USA sarebbero costretti ad intervenire direttamente. Più recentemente, inoltre, il Segretario alla Difesa, Leon Panetta, ha sostenuto che per neutralizzare le armi chimiche siriane sarebbe necessario impiegare addirittura 75 mila soldati americani.

Al coro degli avvertimenti diretti a Damasco, lunedì si è unita anche Hillary Clinton. Da Praga, nel corso di un incontro con il ministro degli Esteri ceco, Karel Schwarzenberg, il Segretario di Stato americano ha ribadito che il suo paese non sarebbe disposto ad accettare l’uso di armi chimiche da parte del regime di Assad, pur senza entrare nel merito delle informazioni fornite dall’intelligence né di come intenderebbero agire gli Stati Uniti nel concreto.

Il pretesto delle armi chimiche era stato citato anche qualche mese fa come giustificazione per l’invio di circa 150 soldati americani in Giordania, in previsione appunto di un intervento in Siria per prendere controllo dell’arsenale di Assad in caso di un crollo improvviso del regime. Lo stesso discorso vale anche per la richiesta fatta già da qualche settimana dalla Turchia alla NATO per posizionare batterie di missili Patriot sul proprio territorio al confine con la Siria, per i quali Ankara dovrebbe ottenere il via libera dall’Alleanza questa settimana dopo un recente sopralluogo di un team di tecnici militari per individuare i siti più adatti all’installazione.

Il governo islamista di Recep Tayyip Erdogan ha anch’esso citato improbabili rapporti di intelligence che indicherebbero il possibile riscorso di Damasco a incursioni missilistiche anche con testate chimiche contro la Turchia, da cui la presunta necessità dei Patriot a scopi difensivi. La stessa Clinton dalla Repubblica Ceca ha anticipato il parere favorevole della NATO alla fornitura di missili da parte di Stati Uniti, Germania e Olanda.

Un esito positivo della richiesta turca appare del tutto scontato, visto che il dispiegamento dei Patriot rientra nella strategia occidentale per giungere ad una sorta di no-fly zone o di un’area sottratta al controllo dell’esercito nel nord della Siria senza passare attraverso il Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite. Da qui i ribelli potrebbero preparare l’offensiva finale contro il regime, con l’aiuto decisivo di Turchia, Stati Uniti e dei loro alleati in Europa e nel mondo arabo. Ufficialmente, in ogni caso, entrambe le opzioni continuano ad essere smentite, almeno per il momento, sia dai vertici NATO che da Ankara e Washington.

Nonostante la fermezza con cui il premier Erdogan persegue il cambio di regime in Siria, l’allungamento dei tempi gioca a suo sfavore, poiché l’opinione pubblica turca, tra cui vi è una consistente minoranza sciita e alauita a cui appartengono anche Assad e il suo entourage, appare in buona parte contraria ad un intervento del proprio paese nel conflitto a sud del confine. A conferma delle crescenti tensioni, lunedì alcuni media hanno raccontato di manifestazioni di protesta andate in scena a Istanbul contro il dispiegamento di Patriot sul suolo turco.

Contro i missili NATO in Turchia si è ovviamente espressa anche la Russia, il cui governo ha manifestato più di una preoccupazione per il fatto che una simile iniziativa potrebbe scatenare un conflitto più ampio in Medio Oriente, con il coinvolgimento della stessa Alleanza Atlantica e delle altre potenze che hanno interessi nella regione.

Anche di questo argomento hanno discusso lunedì Erdogan e Putin nell’ambito di colloqui bilaterali che registrano posizioni diametralmente opposte dei rispettivi governi sulla crisi in Siria. Le relazioni diplomatiche tra Russia e Turchia sono state segnate negli ultimi tempi non solo dalle accuse di Ankara al Cremlino per il sostegno garantito ad Assad al Consiglio di Sicurezza ONU, ma anche da un episodio controverso che lo scorso ottobre ha contribuito ad innalzare le tensioni tra i due paesi.

In quell’occasione, le autorità turche costrinsero un velivolo civile in viaggio da Mosca a Damasco ad atterrare ad Ankara perché sospettato di trasportare materiale bellico destinato al regime di Assad. Mosca, secondo cui il carico era perfettamente legale, protestò in maniera decisa nei confronti del governo turco, sia per il forzato atterraggio che per il trattamento riservato ai passeggeri, in gran parte cittadini russi. L’episodio portò alla cancellazione di una visita di Putin in Turchia programmata pochi giorni più tardi e rimandata a questa settimana.

Nel primo viaggio all’estero di Putin da due mesi a questa parte, dopo la convalescenza seguita ad un infortunio alla schiena, è probabile tuttavia che eventuali lamentele risulteranno piuttosto caute visto che i due paesi hanno stabilito solidissime relazioni commerciali ed energetiche negli ultimi anni. Gli scambi bilaterali tra Russia e Turchia hanno toccato i 32 miliardi di dollari nel 2011 e i due governi sono intenzionati a sfondare il tetto dei 100 miliardi nei prossimi anni.

L’importanza di Mosca per una via d’uscita alla crisi in Siria è stata comunque riconosciuta pubblicamente da Erdogan alla vigilia dell’arrivo di Putin ad Ankara. Secondo il premier turco, “la Russia deve essere coinvolta nel processo” di risoluzione della crisi ed “è più probabile ed importante riuscire a convincere Mosca a persuadere Assad affinché scenda a compromessi” che chiedere al Cremlino di appoggiare l’opposizione siriana.

Come la Russia, anche la Turchia è però uno dei paesi chiave per l’uscita dalla paralisi. Nonostante le parole di Erdogan, il suo governo e gli alleati hanno però da tempo dimostrato di non essere disposti ad accettare qualsiasi apertura o concessione di Assad per una soluzione pacifica della crisi, mentre i loro sforzi sono diretti piuttosto a provocare una continua escalation militare e delle violenze tramite il sostegno incondizionato ai cosiddetti ribelli.

Per quanto riguarda Ankara, la politica di “zero problemi con i vicini”, teorizzata dal ministro degli Esteri Davutoglu, ha così lasciato spazio ad un sostanziale allineamento alle posizioni degli Stati Uniti riguardo la Siria, traducendosi inevitabilmente in un irrigidimento persistente della propria posizione nel conflitto in corso ormai da venti mesi.

Per quanto importante appaia il vertice tra Putin e Erdogan in relazione alla Siria, perciò, come ha scritto qualche giorno fa sulla testata on-line Asia Times l’ex ambasciatore indiano M K Bhadrakumar, “i tempi non sembrano ancora maturi per una iniziativa congiunta russo-turca, anche se Mosca e Ankara possono svolgere un ruolo cruciale per rompere l’attuale stallo” nel tormentato paese mediorientale.

di Michele Paris

A sole 24 ore dallo storico voto dell’Assemblea Generale delle Nazioni Unite, che ha riconosciuto la Palestina come stato osservatore non-membro, il governo di Israele ha risposto autorizzando la costruzione di tremila nuove unità abitative in Cisgiordania e a Gerusalemme Est, nonché accelerando le procedure per il rilascio di un altro migliaio di permessi per colonie considerate illegali da tutta la comunità internazionale.

La ritorsione di Tel Aviv rappresenta l’ennesimo esplicito tentativo di boicottare una soluzione di pace fondata su due stati e contribuisce ulteriormente a rendere pressoché impossibile la continuità territoriale palestinese.

Le aree di insediamento appena autorizzate da Netanyahu comprendono, tra l’altro, nuove abitazioni a Ma’ale Adumim, una località che separa Gerusalemme Est dal resto della Cisgiordania e la cui espansione complica notevolmente i collegamenti tra le città di Ramallah e Betlemme con i quartieri palestinesi di Gerusalemme Est. Ma’ale Adumim è il terzo più grande insediamento israeliano in Cisgiordania e ospita attualmente circa 40 mila coloni ebrei. In totale, a Gerusalemme Est e in Cisgiordania vivono 500 mila coloni in più di cento insediamenti illegali.

La nuova iniziativa israeliana punta ad aggiungere un nuovo fatto compiuto sul terreno, così da rendere ancora più improbabile il raggiungimento di un eventuale accordo di pace per la creazione di uno stato palestinese entro i confini precedenti alla guerra dei Sei Giorni del 1967.

La comunità internazionale ha ancora una volta condannato quasi all’unanimità i nuovi insediamenti israeliani. Gli Stati Uniti nella giornata di venerdì hanno definito il piano di Netanyahu “controproducente” ai fini di una soluzione negoziata al conflitto mediorientale, anche se di fatto la reazione di Washington è stata sia nei toni che nelle azioni di gran lunga più pacata rispetto agli sforzi messi in atto per fare desistere il presidente dell’Autorità Palestinese, Mahmoud Abbas (Abu Mazen), dal cercare il riconoscimento dell’ONU.

Il voto in gran parte simbolico e a larghissima maggioranza (138 favorevoli, 9 contrari e 41 astenuti) assicurato giovedì alla Palestina dall’Assemblea Generale delle Nazioni Unite ha mostrato nuovamente il totale isolamento internazionale degli Stati Uniti, assecondato solo da qualche sparuto alleato (Canada, Repubblica Ceca, Panama e quattro staterelli dell’Oceano Pacifico) nel difendere strenuamente l’occupazione israeliana e l’oppressione del popolo palestinese.

Nonostante questa realtà, i commenti della diplomazia americana al voto dell’Assemblea Generale sono stati molto duri ed hanno fatto riferimento alle complicazioni che si prospettano per i colloqui di pace. Decenni di negoziati con la supervisione statunitense, tuttavia, non hanno prodotto fin qui alcun risultato tangibile e hanno anzi consentito la progressiva conquista di nuovi territori palestinesi da parte di Israele.

La formale, sostanzialmente vuota condanna di Washington dei più recenti insediamenti autorizzati dal governo di estrema destra di Netanyahu, inoltre, si accompagna a due proposte di legge presentate al Senato di Washington che sono esse stesse autentiche ritorsioni contro il voto dell’ONU.

La prima è firmata dal senatore repubblicano dello Utah, Orrin Hatch, e chiede addirittura la soppressione di tutti i finanziamenti americani alle Nazioni Unite. La seconda, opera dello sforzo di due senatori repubblicani e due democratici, è invece un emendamento allo stanziamento di fondi al Dipartimento della Difesa e prevede lo stop al denaro destinato all’Autorità Palestinese in caso quest’ultima intenda avviare procedimenti legali contro Israele presso il Tribunale Penale Internazionale.

Dopo il voto di giovedì scorso, peraltro, nonostante qualche festeggiamento nei territori palestinesi, ciò che prevale è un diffuso scetticismo e la consapevolezza che le condizioni di vita della popolazione sotto l’occupazione israeliana non cambieranno di molto nel prossimo futuro.

Il riconoscimento della Palestina, garantito anche da paesi occidentali considerati fedeli alleati di Israele, è servito soprattutto a risollevare in qualche modo il prestigio di Abbas, la cui rilevanza è stata virtualmente cancellata, a favore di Hamas, durante il recente assalto di Tel Aviv contro Gaza che ha fatto 165 vittime tra la popolazione della striscia.

Anche i paesi che hanno votato a favore del riconoscimento o che si sono astenuti, come Francia e Gran Bretagna, si sono adoperati poi per ottenere rassicurazioni da parte dell’Autorità Palestinese a non intraprendere azioni legali contro membri del governo o delle forze armate israeliane presso il Tribunale Penale Internazionale. Ciò significa che questi governi intendono comunque continuare a garantire la totale impunità dei crimini di Israele nell’occupazione e negli attacchi contro il popolo palestinese.

L’iniziativa dell’Autorità Palestinese, in definitiva, ha ben poco a che vedere con la liberazione della Palestina quanto piuttosto con una strategia per rimettere in sesto il proprio leader e la sua cerchia di potere. Infatti, come ha scritto qualche giorno fa sul Guardian il docente di politica araba presso la Columbia University di New York, Joseph Massad, il riconoscimento dell’ONU ha di fatto “geograficamente ridotto lo stato palestinese dal 43% della Palestina storica previsto dalla ripartizione” del 29 novembre 1947 “a meno del 18%” odierno. Il voto ONU, perciò, assicura infine ai “coloni ebrei e ai loro discendenti l’80-90% della Palestina, lasciando il resto agli abitanti nativi, e rischia di cancellare il diritto dei profughi al ritorno nelle proprie terre”.

di Michele Paris

Il recente sanguinoso attentato compiuto in un sobborgo di Damasco dalle forze ribelli siriane ha messo in evidenza ancora una volta la vera natura della rivolta in corso contro il regime di Bashar al-Assad nel paese mediorientale. Il prevalere di gruppi legati all’integralismo islamico con un’agenda prettamente settaria tra l’opposizione non sembra però scoraggiare le potenze occidentali e le monarchie assolute del Golfo, le quali promettono infatti un maggiore coinvolgimento nella guerra civile in corso, tramite il sostegno sempre più aperto alla cosiddetta Coalizione Nazionale delle Forze della Rivoluzione Siriana e dell’Opposizione.

L’ennesimo atto di terrorismo attribuito alle formazioni jihadiste anti-Assad ha fatto mercoledì più di trenta vittime nella capitale in seguito all’esplosione di due autobombe nel quartiere di Jaramana. L’attentato ha preso di mira un’area popolata in particolare da appartenenti alle minoranze cristiana e drusa, accusate di continuare ad appoggiare il regime per paura delle conseguenze di un futuro governo dominato da musulmani sunniti.

La portata di simili episodi di violenza viene puntualmente minimizzata dai media ufficiali, che sembrano quasi giustificare le azioni dell’opposizione quando essa prende di mira presunti sostenitori di Assad, ancorché civili.

Le bombe contro i quartieri cristiani, drusi o alauiti - la setta sciita a cui appartiene il presidente - non sono però un trascurabile danno collaterale all’interno della propagandata lotta democratica per la liberazione della Siria, bensì rispondono ad una strategia settaria messa in atto dai gruppi estremisti che non solo beneficiano delle forniture di armi provenienti da tempo da paesi come Qatar e Arabia Saudita, ma anche delle politiche di destabilizzazione nei confronti di Damasco che gli Stati Uniti e i loro alleati nel mondo arabo perseguono da svariati anni in funzione anti-iraniana.

Il ruolo che potrebbero avere i jihadisti nel dopo Assad solleva comunque qualche preoccupazione a Washington, soprattutto in relazione alla sorte e all’utilizzo futuro delle armi che stanno approdando nel paese. Proprio in questi giorni, i giornali occidentali stanno infatti descrivendo i progressi compiuti dall’opposizione sul campo contro le forze del regime, così come il crescente quantitativo di armamenti sui quali i ribelli possono contare per difendersi e conquistare nuove posizioni.

Il Washington Post, ad esempio, ha citato giovedì fonti di intelligence americane e mediorientali per rivelare come i ribelli dispongano ora di almeno una quarantina di dispositivi missilistici anti-aereo trasportabili a spalla, forniti in gran parte dal Qatar. Con essi i ribelli avrebbero abbattuto tra martedì e mercoledì due velivoli delle forze del regime. La disponibilità di questi equipaggiamenti viene spesso definita come un fattore che potrebbe rivelarsi decisivo nel conflitto in corso.

Lo stesso Washington Post propone a proposito un pertinente confronto con i mujaheddin afgani che negli anni Ottanta ebbero un impulso determinante dalla fornitura di missili anti-aereo Stinger dagli USA per combattere l’occupazione sovietica. L’evoluzione successiva delle vicende dell’Afghanistan, con la nascita di formazioni terroristiche sunnite come Al-Qaeda grazie ai precedenti legami con gli americani e gli altri finanziatori del Golfo Persico, mostra infatti come potrebbe configurarsi il futuro della Siria, dove simili forze estremiste vengono oggi più o meno apertamente incoraggiate per rovesciare un regime sgradito.

In ogni caso, un articolo pubblicato mercoledì dal New York Times ha ribadito che l’amministrazione Obama sta valutando la possibilità di un intervento più incisivo in Siria per facilitare la caduta di Assad, in primo luogo fornendo direttamente armi ai ribelli. Il cambio di passo di Washington, arrivato rigorosamente dopo le elezioni del 6 novembre scorso per evitare reazioni negative da parte degli elettori ad una impopolare nuova guerra in Medio Oriente, procede di pari passo con la promozione della nuova Coalizione Nazionale, creata recentemente a Doha, in Qatar, in sostituzione del più che screditato Consiglio Nazionale Siriano e a seguito di un vero e proprio ordine emesso dal Segretario di Stato americano uscente, Hillary Clinton.

Il nuovo raggruppamento delle forze di opposizione, già riconosciuto ufficialmente come unico rappresentante della Siria da Gran Bretagna, Francia, Turchia e dalle monarchie del Golfo, viene costantemente invitato dai propri sponsor a raggiungere in fretta una certa unità al proprio interno, superando le divisioni tra le varie fazioni, le quali hanno in comune praticamente soltanto la loro impopolarità tra la popolazione siriana.

La nuova organizzazione si è perciò riunita al Cairo tra mercoledì e giovedì per compiere qualche passo avanti verso la creazione di un futuro governo di transizione e per offrire alla comunità internazionale un’immagine accettabile, così da attrarre maggiori finanziamenti e nuovi riconoscimenti diplomatici in vista del prossimo vertice degli “Amici della Siria”, in programma a dicembre a Marrakech, in Marocco.

Nonostante i relativi progressi delle forze ribelli in queste settimane, la collaborazione attiva sul campo delle potenze regionali rimane fondamentale, soprattutto alla luce della permanente superiorità militare delle forze di Assad. In questo senso va considerata la richiesta della Turchia alla NATO di posizionare missili Patriot sul proprio territorio al confine con la Siria. Lo scopo ufficiale sarebbe la difesa della Turchia da eventuali quanto improbabili missili o attacchi aerei lanciati deliberatamente dalla Siria.

I Patriot potrebbero piuttosto essere impiegati in risposta a missili che giungono accidentalmente in Turchia, come è già accaduto qualche settimana fa, o che potrebbero essere lanciati anche dagli stessi ribelli per trascinare Ankara nel conflitto, per colpire poi postazioni dell’esercito siriano nel nord del paese. Qui, infatti, la Turchia e gli alleati occidentali puntano a creare un’area interamente fuori dal controllo dell’esercito regolare dove le forze ribelli possano riorganizzarsi e, con l’assistenza materiale di Washington e Ankara, preparare un’offensiva finale contro Damasco.

Secondo quanto riportato dai media, un team NATO è già in territorio turco in questi giorni per valutare alcuni siti dove potrebbero essere installate le batterie di Patriot. A fornirli alla Turchia, oltre agli Stati Uniti, dovrebbero essere i governi di Germania e Olanda.

I preparativi per un qualche intervento diretto in Siria proseguono dunque in maniera spedita, con manovre che, come si è visto, intendono aggirare il Consiglio di Sicurezza dell’ONU, dove Russia e Cina continuano a respingere qualsiasi risoluzione che possa portare ad un esito simile a quello libico.

È probabile, tuttavia, che gli Stati Uniti attenderanno a fare passi concreti fino a dopo il completamento di un rimpasto di governo che l’amministrazione Obama non ha ancora avviato e che prevede avvicendamenti in posizioni chiave, come il Dipartimento di Stato, della Difesa e la CIA.

Proprio per sostituire Hillary Clinton a capo della diplomazia USA è in corso una campagna mediatica da parte di Obama e del suo staff a favore di Susan Rice, l’ambasciatrice americana all’ONU che sta attraversando un periodo burrascoso dopo che nel settembre scorso aveva definito l’attacco al consolato di Bengasi come una conseguenza delle proteste spontanee esplose nel mondo arabo contro la diffusione di un filmato amatoriale contro il profeta Muhammad e non come un’azione terroristica pianificata.

Se la Rice dovesse superare l’ostacolo della conferma del Senato, il coinvolgimento degli Stati Uniti in Siria potrebbe subire una netta accelerata, dal momento che la principale candidata di Obama alla guida del Dipartimento di Stato è una delle più convinte sostenitrici dell’avanzamento degli interessi imperialistici a stelle e strisce in ogni angolo del pianeta dietro la facciata dell’intervento umanitario.

Susan Rice sembra avere avuto infatti un ruolo decisivo, assieme a Hillary Clinton, nel convincere Obama ad intervenire in Libia per rovesciare Gheddafi lo scorso anno e, con ogni probabilità, da una posizione ancora più autorevole rispetto a quella occupata al Palazzo di Vetro si adopererà in maniera ancora più decisa per aprire un nuovo fronte in Medio Oriente in nome della difesa dei diritti democratici della popolazione siriana.


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