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di Michele Paris
I tre recenti falliti attentati contro obiettivi israeliani in India, Georgia e Thailandia, sono stati puntualmente attribuiti all’Iran da parte di Washington e Tel Aviv, da dove è stata subito lanciata una nuova serie di minacce nei confronti della Repubblica Islamica. Il primo e relativamente più significativo attacco è avvenuto lunedì scorso a Nuova Delhi, dove un motociclista ha fissato un ordigno esplosivo ad un’auto su cui viaggiavano un diplomatico israeliano e sua moglie. Quest’ultima e l’autista sono rimasti lievemente feriti.
Lo stesso giorno a Tbilisi, capitale della Georgia, un esplosivo simile è stato trovato attaccato ad un veicolo dell’ambasciata israeliana. La bomba è stata individuata prima che esplodesse e non ha provocato alcun danno. Martedì, infine, alcune esplosioni accidentali in un appartamento di Bangkok hanno portato all’arresto di tre persone che sono state identificate come cittadini iraniani. Una di esse, nel tentativo di fuggire, ha lanciato una granata artigianale contro le forze di polizia tailandesi ferendosi gravemente ad una gamba.
Nonostante i falliti attentati non abbiano causato vittime e nessuna autorità di India, Georgia o Thailandia abbia accennato al coinvolgimento del governo di Teheran, Israele ha immediatamente accusato l’Iran di condurre una campagna terroristica. Parlando mercoledì alla Knesset (Parlamento), il premier Netanyahu ha affermato che “le attività terroristiche dell’Iran sono state esposte” e che Teheran “sta minacciando la stabilità del pianeta mettendo in pericolo le vite di diplomatici innocenti”. Per questo, “tutti i paesi devono tracciare una linea rossa e condannare gli atti terroristici iraniani”.
Le gravissime accuse di Netanyahu arrivano a poco più di un mese dalla morte a Teheran di Mustafa Ahmadi Roshan, il quarto scienziato nucleare iraniano assassinato negli ultimi anni con esplosivi magnetici simili a quelli utilizzati qualche giorno fa a Nuova Delhi e a Tbilisi.
Per questi attentati terroristici tutte le tracce indicano la responsabilità del Mossad israeliano, verosimilmente tramite le prestazioni di affiliati a organizzazioni attive in Iran come Mujahideen-e Khalq (MeK) e Jundallah, entrambe bollate come terroristiche persino dagli Stati Uniti e il cui obiettivo è la destabilizzazione e il rovesciamento della Repubblica Islamica.
Il governo di Teheran ha seccamente smentito ogni responsabilità nei tre episodi. In un comunicato ufficiale, il Ministero degli Esteri ha sottolineato che le accuse israeliane fanno parte della stessa strategia diffamatoria che lo scorso ottobre aveva spinto l’amministrazione Obama a rivelare un presunto quanto improbabile complotto iraniano per assassinare l’ambasciatore saudita a Washington con la collaborazione di un cartello messicano del narcotraffico. Per l’Iran, sarebbero piuttosto “gli agenti del regime sionista [Israele] i responsabili di simili azioni terroristiche”.
Giornali e analisti occidentali hanno ipotizzato anche un coinvolgimento di Hezbollah, dal momento che lunedì scorso ricorreva il quarto anniversario dell’assassinio di un importante membro dell’organizzazione sciita libanese, Imad Mughniyah, avvenuto a Damasco sempre per mano del Mossad. Il leader di Hezbollah, Sayyed Hassan Nasrallah, ha anch’esso respinto quelle che ha definito “assurde congetture”, affermando che, se la sua organizzazione volesse vendicarsi della morte di Mughniyah, verrebbero presi di mira obiettivi israeliani ben più importanti.
Tutti e tre i falliti attentati, inoltre, come già la trama per eliminare l’ambasciatore saudita negli Stati Uniti, hanno evidenziato la scarsa professionalità dei loro autori, rendendo dunque improbabile un qualche ruolo dei servizi segreti iraniani o di Hezbollah. I tre individui arrestati dalla polizia tailandese pare anche che abbiano fatto di tutto per rivelare la loro provenienza, ad esempio prendendo in affitto un appartamento a Bangkok vicino ad un centro culturale iraniano e tenendo con sé i loro passaporti e della valuta iraniana.
Le ragioni per dubitare delle accuse di Netanyahu sono però da ricercare principalmente nei rapporti che legano l’Iran a due paesi asiatici tutt’altro che ostili, come Thailandia e, soprattutto, India. Quest’ultimo paese ha infatti scavalcato da poco la Cina per diventare il primo importatore di petrolio iraniano, mentre a breve una delegazione indiana di alto livello è attesa a Teheran per discutere il rafforzamento dei legami commerciali tra i due paesi.
Oltre al rischio di mettere a repentaglio questi rapporti in un momento in cui l’Iran è soggetto ad una vera e propria guerra economica da parte dell’Occidente, c’è anche da chiedersi per quale motivo il regime di Teheran abbia deciso di mettere in scena degli attentati così grossolani entro i confini di un paese con il cui governo sta trattando un accordo per il pagamento del proprio greggio, così da evitare le sanzioni di Stati Uniti ed Europa.
In India, la quale nonostante le pressioni ha deciso di non rispettare le sanzioni di Washington che prendono di mira il settore petrolifero iraniano, le perplessità circa eventuali responsabilità di Teheran nell’attentato al diplomatico israeliano sono ampiamente diffuse. Due recenti articoli del Times of India risultano particolarmente interessanti. Il primo ha rivelato che, qualche giorno prima dei fatti, il direttore del Mossad, Tamir Pardo, era stato in visita a Nuova Delhi, mettendo in guardia il governo da possibili attentati di matrice iraniana, anche se non specificatamente in territorio indiano, come ha precisato successivamente il giornale israeliano Haaretz.
Il secondo è invece un pezzo dell’editorialista Shobhan Saxena, il quale nel suo blog il 15 febbraio ha messo in relazione l’attentato con il fastidio provocato a Tel Aviv e a Washington dalle relazioni indo-iraniane. Per Saxena, “l’Occidente da anni cerca di guastare i rapporti dell’India con l’Iran, il nostro secondo fornitore di petrolio. È una coincidenza che questo attentato sia avvenuto proprio quando l’Iran ha accettato di ricevere pagamenti in rupie per il greggio fornito all’India? Il pagamento in rupie rappresenta il totale fallimento del tentativo dei paesi occidentali di impedire all’India di continuare a fare affari con l’Iran. Perciò, se l’incidente di Delhi dovesse causare frizioni con Teheran, chi ne beneficerebbe ? L’intera vicenda deve essere vista in questa prospettiva. L’unico paese che ne trarrebbe beneficio è Israele”.
Gli eventi dell’ultima settimana hanno così fatto salire ulteriormente le tensioni tra Stati Uniti e Israele da una parte e Iran dall’altra. Essi però sono giunti in concomitanza anche con un certo abbassamento dei toni attorno alla questione del nucleare di Teheran, da dove l’altro giorno è partita una proposta indirizzata all’Unione Europea per riaprire i negoziati, questa volta, pare, senza condizioni preliminari.
A fronte delle aperture mostrate ancora una volta dall’Iran, appare comunque improbabile che i governi occidentali siano disposti a intavolare un dialogo serio, dal momento che l’annosa disputa sul programma nucleare è poco più che un pretesto per continuare a fare pressioni sulla Repubblica Islamica, con l’obiettivo di scatenare un conflitto armato e provocare la caduta del regime.
Che non sia l’Iran a costituire una minaccia alla stabilità del Medio Oriente, infine, è stato confermato anche da due esponenti del governo americano nel corso di una recente audizione al Congresso USA. Il direttore dei servizi segreti militari, generale Ronald Burgess, di fronte ad una commissione del Senato, ha infatti detto di ritenere improbabile che l’Iran possa iniziare un conflitto se non in risposta ad un attacco esterno. Poco più tardi, il capo dell’intelligence a stelle e strisce, James Clapper, ha a sua volta sostenuto che, pur essendo tecnicamente possibile per l’Iran produrre un ordigno nucleare entro uno o due anni, questa ipotesi sul piano pratico rimane alquanto improbabile.
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di Carlo Musilli
A Berlino come ad Atene è stato un fine settimana al cardiopalma. Proprio mentre mancavano poche ore all'incontro che deciderà il destino della Grecia, il Paese leader dell'Eurozona - quello con maggior potere nelle trattative per il salvataggio - è sprofondato all'improvviso nel caos politico. Con lo spettro della bancarotta che si avvicina (14,4 miliardi di bond in scadenza il 20 marzo), ormai da settimane il Paese ellenico sta pregando per l'arrivo di due intese decisive: il via libera al nuovo pacchetto di aiuti internazionali da 130 miliardi di euro e l'accordo con i creditori privati per la ristrutturazione del debito.
Angela Merkel vorrebbe risolvere entrambe le questioni nella riunione dell'Eurogruppo di oggi pomeriggio, in modo da non lasciare nulla in sospeso e dare finalmente una linea certa. Al mercato come agli elettori. Ma se è vero che la sopravvivenza dei greci è legata a doppio filo alle bizze della politica interna tedesca, l'ultimo ciclone che ha travolto la cancelliera non poteva arrivare in un momento peggiore.
Venerdì frau Merkel ha ricevuto un colpo durissimo. Il presidente della Repubblica da lei sponsorizzato nel 2010, Christian Wulff, è stato costretto alle dimissioni da una patetica vicenda fatta di prestiti agevolati e vacanze regalate. La leadership della cancelliera viene così ulteriormente indebolita proprio quando le spaccature nel suo governo sulla questione greca sono ai massimi livelli.
Secondo il Financial Times, il ministro delle Finanze tedesco, Wolfgang Schaeuble, è alla testa dei "falchi" che vorrebbero lasciar fallire Atene, ipotesi alla quale Merkel si oppone strenuamente. L'indiscrezione è stata sommersa da un fiume inevitabile di smentite, ma a Bruxelles come nel resto d'Europa rimangono dubbi su come la Germania affronterà il dilemma greco dopo l'ultima tempesta interna.
Il tracollo di Wulff indurrà i tedeschi a essere ancora più rigidi nelle trattative per il salvataggio? Oppure, in piena crisi, Merkel preferirà non intralciare ancora una volta i negoziati? La prima strada riavvicinerebbe il governo a quell'ampia fetta di elettorato che non accetta di dover continuare a pagare per gli errori commessi da un altro paese. La seconda consentirebbe invece di trovare delle importanti stampelle politiche sul fronte interno (l'opposizione socialdemocratica) come su quello estero.
A giudicare dalle ultime esternazioni, sembrerebbe proprio che la cancelliera abbia optato per la seconda opzione: "Farò tutto il possibile per arrivare a un accordo con la Grecia lunedì", ha detto in teleconferenza con il nostro Mario Monti e con il primo ministro di Atene, Lucas Papademos. A Palazzo Chigi hanno "rilevato un atteggiamento più morbido e disponibile" da parte tedesca, tanto da essere "fiduciosi che lunedì all'Eurogruppo potrà essere raggiunto l'accordo".
Ora, che Merkel riesca a convincere i membri del suo governo fan della bancarotta senza subirne i condizionamenti è tutto da dimostrare. Com'è da dimostrare che questa soluzione sia davvero la migliore per il popolo greco. L'ultima bozza d'intesa messa a punto dai funzionari europei prevede infatti un commissariamento di ferro per il Paese ellenico. Il testo contiene dei vincoli finora mai imposti ad uno Stato sovrano.
Innanzitutto, si tratterebbe di creare un fondo speciale con i soldi necessari a ripagare il debito greco in scadenza nei prossimi 9-12 mesi. Come a dire: "Di voi non ci fidiamo. Facciamo noi. Quindi obbedite". Se a un certo punto questo fondo non fosse più sufficiente, allora si attingerà alle risorse prestate alla Grecia per far funzionare la macchina pubblica (stipendi, pensioni, sanità...). Altra bella pistola alla tempia. Dulcis in fundo, sarà nominata una commissione di esperti che sorveglierà la politica economica del governo ellenico. Per di più con diritto di veto. Con tanti saluti all'atteggiamento "morbido e disponibile".
Nel frattempo comincia a venire a galla qualcuno dei grossolani errori dell'Europa. Se la Grecia è ancora in queste condizioni, lo deve anche agli obiettivi di bilancio assurdi che Bruxelles gli ha imposto. Aspettando l'Eurogruppo, Commissione europea e troika (Ue, Bce, Fmi) si sono finalmente accorte che Atene non riuscirà mai a ridurre il suo debito pubblico al 120% del Pil entro il 2020 (oggi è oltre il 170%). Nel loro ultimo rapporto parlano del 125-129%, ed è ancora un'ipotesi ottimistica. Un esercito di studiosi ha dimostrato che, anche a quel livello, il debito greco sarebbe tutt'altro che sostenibile. Come a dire che, senza il default, Bruxelles rimarrà la vera capitale della Grecia ancora per molto tempo. Qualunque cosa succeda, il dilemma non si risolverà oggi.
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di Michele Paris
La strage avvenuta nella notte tra martedì e mercoledì in seguito all’esplosione di un incendio in un carcere dell’Honduras è la più grave tragedia avvenuta in una struttura detentiva nell’ultimo secolo. Secondo le autorità locali, il bilancio complessivo delle vittime nella prigione di Comayagua ammonta a 358 e i particolari della catastrofe evidenziano impietosamente non solo le pesanti carenze del sistema carcerario del paese centro-americano, ma anche le condizioni drammatiche in cui versa l’intera società honduregna, dove violenza, povertà e disuguaglianze sono all’ordine del giorno.
A scatenare l’incendio sembra essere stato un mozzicone di sigaretta finito su un materasso di una cella, secondo alcuni resoconti in maniera intenzionale, anche se le notizie diffuse successivamente hanno accennato a possibili altre cause, come un cortocircuito elettrico o una rivolta. Il fuoco è stato innescato attorno alle 22.50 di martedì sera ma i vigili del fuoco hanno potuto iniziare le operazioni di soccorso solo 40 minuti più tardi, cioè quando le fiamme erano ormai fuori controllo e si erano diffuse in molte celle facendo una vera e propria strage tra i detenuti bloccati al loro interno.
Appena diffusasi la notizia dell’incendio, centinaia di parenti dei detenuti si sono precipitati presso il penitenziario per conoscere la sorte dei loro cari. I familiari hanno cercato di fare irruzione nel carcere, abbattendo i cancelli d’ingresso e lanciando pietre contro le forze di sicurezza.
Ancora prima degli scontri, secondo quanto riportato dalla stampa honduregna, la polizia e l’esercito intervenuti a Comayagua avrebbero sparato colpi di avvertimento per tenere lontano i parenti dei carcerati. Nel caos che è seguito, il ministro della Sicurezza del governo centrale, Pompeyo Bonilla, è stato cacciato dopo che aveva invitato gli stessi parenti a mantenere la calma.
Le guardie carcerarie avrebbero infatti impedito ai vigili del fuoco di accedere all’interno della struttura per almeno mezz’ora, perché a loro dire le grida dei detenuti erano dovute ad una rivolta in corso.
Secondo la testimonianza di un detenuto scampato alle fiamme, la guardia responsabile delle chiavi delle celle ha lasciato l’edificio subito dopo l’esplosione dell’incendio. Quando le chiavi sono state successivamente recuperate dagli addetti all’infermeria del carcere, è stato possibile aprire solo alcune celle per evacuare i detenuti ancora vivi. Alcuni prigionieri, poi, sarebbero rimasti uccisi dalle forze di sicurezza mentre tentavano di fuggire per mettersi in salvo.
Il presidente dell’Honduras, Porfirio Lobo, in seguito ai fatti di Comayagua ha immediatamente riunito il Consiglio per la Sicurezza Nazionale, mentre ha annunciato la sospensione dei responsabili del carcere e l’apertura di un’indagine per fare chiarezza sull’accaduto.
La strage, tuttavia, deve giungere tutt’altro che inaspettata per le autorità del paese centro-americano, dal momento che è solo l’ultima di una serie di tragici avvenimenti che hanno colpito un sistema carcerario piagato da sovraffollamento, edifici fatiscenti e sistematiche violazioni dei diritti umani dei detenuti.
I precedenti più gravi in Honduras risalivano al 2003 e al 2004. Nel primo caso, in un penitenziario vicino alla città costiera di La Ceiba, persero la vita 68 prigionieri - tra cui 51 uccisi dalla polizia, dall’esercito e dalle guardie carcerarie - in seguito a violenti scontri tra gang rivali. L’anno successivo fu invece un incendio a fare 107 vittime tra i detenuti in una struttura fatiscente di San Pedro Sula.
Il sistema carcerario honduregno comprende 24 prigioni che ospitano quasi 13 mila detenuti a fronte di una capienza complessiva massima di 8 mila. Le due principali strutture del paese contano rispettivamente 2.800 e 2.100 prigionieri, mentre sono state costruite per ospitarne al massimo 1.800 e 550.
La prigione di Comayagua, situata a circa 80 km a nord-ovest della capitale, Tegucigalpa, ospitava 856 detenuti, di cui più della metà in attesa di giudizio. Secondo i dati ottenuti dalla Associated Press, questo edificio era stato progettato per 500 prigionieri. Durante le ore diurne, erano generalmente in servizio 51 guardie e appena 12 in quelle notturne, quando l’altro giorno è appunto scoppiato il devastante incendio. Il carcere, inoltre, pare non disponesse di strutture sanitarie adeguate e il suo budget ammonterebbe a meno di un dollaro al giorno per ogni detenuto. A Comayagua, infine, qualsiasi carcerato con un tatuaggio rischia di essere sottoposto alle durissime condizioni detentive previste dalla legge honduregna per gli affiliate alle gang.
La situazione delle carceri in Honduras è talmente grave che lo stesso governo nel 2010 dichiarò lo stato di emergenza in questo ambito, ammettendo anche che quasi la metà delle prigioni del paese non rispettava i requisiti minimi di sicurezza prescritti dalla legge.
Fotografando efficacemente le implicazioni della situazione carceraria honduregna, il responsabile per il continente americano di Human Rights Watch, José Manuel Vivanco, ha affermato che “questa tragedia è il risultato delle condizioni delle prigioni, le quali sono a loro volta il sintomo della più generale crisi della pubblica sicurezza nel paese”. A causa dell’elevatissimo tasso di violenza in Honduras, sostiene Vivanco, “ci sono enormi pressioni per incarcerare criminali veri o sospetti e, sfortunatamente, non c’è alcuno scrupolo per le condizioni dei detenuti”.
Inevitabilmente, così, le condizioni delle prigioni e dei loro ospiti risultano a dir poco drammatiche e sono la diretta conseguenza sia dell’aumento vertiginoso della criminalità in tutto il Centro-America che dell’emergenza sociale e della povertà dilagante che questi paesi si trovano a fronteggiare. L’Honduras, in particolare, è il secondo paese più povero del continente latino-americano, dopo Haiti e, secondo i dati dell’ONU, quello con il più elevato tasso di omicidi di tutto il pianeta: 82,1 per ogni 100 mila abitanti, contro una media mondiale di 6,9.
A far salire sensibilmente in questi anni il numero degli episodi di violenza è stato il diffondersi delle attività dei cartelli del narcotraffico che usano l’Honduras - così come altri paesi centro-americani - come via di transito per la droga diretta al mercato statunitense. L’altro evento che ha causato il peggioramento della situazione è stato poi il colpo di stato militare che nel giugno del 2009 ha rimosso il presidente democraticamente eletto, Manuel Zelaya.
Il golpe, tacitamente approvato da Washington, installò al potere dapprima il presidente ad interim Roberto Micheletti e, successivamente, nel pieno della repressione messa in atto contro gli oppositori, aprì la strada all’elezione del conservatore Porfirio Lobo alla guida del paese. Da quasi tre anni a questa parte, la precarietà della scena politica honduregna ha causato il dilagare della criminalità, così come centinaia di assassini di operai, contadini, giornalisti critici del regime golpista e sostenitori dell’ex presidente Zelaya, i cui responsabili, però, quasi mai sono stati chiamati a rendere conto delle loro azioni di fronte alla giustizia.
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di Michele Paris
In occasione del primo anniversario dello scoppio della rivolta, in questi giorni migliaia di manifestanti sono nuovamente scesi nelle piazze del Bahrain per protestare contro la repressione spietata messa in atto dalla monarchia alleata degli Stati Uniti. I dimostranti, accolti ancora una volta con il pugno di ferro delle forze di sicurezza, continuano a chiedere la democratizzazione del regime sunnita, al cui vertice siede il sovrano Hamad bin Isa al-Khalifa, e la fine delle discriminazioni contro la maggioranza sciita che rappresenta circa i due terzi della popolazione del Bahrain.
Nella giornata di lunedì sono stati registrati i primi duri scontri con la polizia dopo che gruppi di manifestanti nella capitale, Manama, avevano deciso di uscire dal percorso previsto per una dimostrazione approvata dal regime e organizzata dall’opposizione ufficiale, guidata dal partito sciita Al Wefaq. Immediatamente, sono seguite cariche delle forze di sicurezza, le quali hanno sparato gas lacrimogeni e proiettili di gomma per disperdere la folla, mentre sono stati messi sotto assedio molti quartieri e villaggi sciiti in tutto il paese.
Il giorno successivo, a un anno esatto dall’inizio della sollevazione, la repressione si è ulteriormente intensificata. Le strade di Manama sono state occupate da veicoli blindati, poliziotti e militari, ben decisi a impedire l’accesso dei manifestanti al Pearl Roundabout (Rotonda delle Perle), il luogo simbolo della rivolta dove lo scorso anno il regime fece abbattere un monumento rappresentante una gigantesca perla come gesto di sfida verso gli oppositori.
Le operazioni nelle strade si sono accompagnate a detenzioni preventive e irruzioni armate nelle abitazioni di numerosi critici della monarchia. Due attivisti statunitensi, inoltre, sono stati arrestati e prontamente rimpatriati. L’ONG Bahrain Center for Human Rights ha documentato un centinaio di arresti tra i manifestanti solo negli ultimi giorni, così come svariate ferite causate da armi da fuoco.
Nonostante una nuova preoccupante escalation in questi giorni, la repressione del dissenso in Bahrain prosegue senza soste, e nel pressoché totale silenzio dei media occidentali, da ormai quasi un anno. Dopo un mese di proteste ispirate ai fatti di Tunisia ed Egitto, alle quali aveva partecipato un numero enorme di partecipanti in proporzione alle ridotte dimensioni del paese, il regime della famiglia Khalifa a Marzo decise di soffocare nel sangue la rivolta con il contributo decisivo di truppe provenienti dalla vicina Arabia Saudita, dagli Emirati Arabi e dal Kuwait.
L’intervento di militari stranieri per reprimere il movimento popolare che chiedeva riforme democratiche era stato con ogni probabilità appoggiato dagli Stati Uniti. Per Washington, il Bahrain è un alleato strategico fondamentale, anche perché ospita il quartier generale della Quinta Flotta della Marina americana, responsabile delle forze navali a stelle e strisce operanti nel Golfo Persico, nel Mare Arabico e al largo delle coste dell’Africa orientale.
Questo stesso intervento, anzi, pare fosse stato concordato direttamente da Washington con l’Arabia Saudita, in cambio dell’impegno da parte di Riyadh di giungere ad un voto favorevole all’intervento NATO in Libia presso la Lega Araba.
Anche per l’Arabia Saudita, d’altra parte, la stabilità del vicino Bahrain sotto il controllo dell’attuale monarchia assoluta è di importanza vitale. Lo sconvolgimento degli equilibri in questo paese comporterebbe infatti una pericolosa espansione dell’influenza iraniana nella regione e, inevitabilmente, il contagio della rivolta alle già inquiete province saudite a maggioranza sciita che ospitano la gran parte delle risorse petrolifere del regno.
Negli scontri seguiti all’esplosione della rabbia popolare in Bahrain, in ogni caso, sono stati uccisi almeno 60 manifestanti, un numero considerevole per un paese che conta poco più di 1,2 milioni di abitanti, di cui oltre la metà stranieri. La repressione del regime si è concretizzata anche in arresti di massa, sparizioni, torture, licenziamenti indiscriminati per coloro che avevano partecipato alle proteste, chiusura dei pochi media indipendenti del paese, processi e pesanti condanne per giornalisti e dissidenti. Uno dei casi che più hanno scosso l’opinione pubblica internazionale è stato il processo davanti ad un tribunale militare di una cinquantina di medici e operatori sanitari, accusati di aver cospirato contro la monarchia solo perché avevano prestato soccorso ai manifestanti feriti dalle forze di sicurezza.
Oltre ad una serie di provvedimenti di facciata, il sovrano del Bahrain già lo scorso mese di giugno aveva creato una speciale commissione d’inchiesta, presieduta dal giurista egiziano esperto di crimini di guerra, Mahmoud Cherif Bassiouni, fondamentalmente con l’obiettivo di occultare le responsabilità e i crimini del regime nella repressione della rivolta. Anche se il rapporto finale della commissione aveva riscontrato violenze ed abusi vari, questi ultimi erano stati considerati episodi isolati, mentre piena fiducia venne assegnata alla road map del regime per pacificare il paese.
La famiglia Khalifa ha potuto procedere al soffocamento delle proteste in Bahrain principalmente grazie al sostegno degli alleati arabi e dell’Occidente, da dove le condanne della repressione, quando sono arrivate, sono risultate essere blande e generiche, nonché seguite subito dall’appoggio a quello che è stato propagandato come un piano di riforme da parte del regime.
Gli Stati Uniti e i loro alleati, in realtà, non solo hanno approvato la dura risposta della casa regnante alle richieste di democrazia dei propri sudditi, ma hanno anche fornito supporto materiale alla repressione stessa. Secondo quanto riportato da Amnesty International, ad esempio, il governo britannico ha recentemente autorizzato la vendita al Bahrain di gas lacrimogeni e altri equipaggiamenti da utilizzare contro le proteste di piazza. In precedenza, nell’estate dello scorso anno, Londra aveva anche dato il via libera alla vendita di armi al regime per un valore di due milioni di dollari.
Ancora più coinvolti sono poi gli USA, da dove a partire dal 2000 sono partite forniture di armamenti destinati al Bahrain per 1,4 miliardi di dollari. Attualmente fermo al Congresso è poi un nuovo contratto di vendita di 53 milioni di dollari che ha incontrato le proteste di parecchie organizzazioni per i diritti civili.
Come se non bastasse, un cittadino inglese, l’ex poliziotto di Scotland Yard, John Yates, è stato assunto dal regime per istruire le forze di sicurezza sui metodi di repressione dei disordini. Secondo quanto riportato dal network russo RT, infine, un altro consulente della polizia del regno risulterebbe essere un cittadino americano già a capo della polizia di Philadelphia.
La doppiezza dell’atteggiamento occidentale nei confronti della Primavera Araba è stata dunque smascherata in maniera evidente proprio con le vicende del Bahrain. L’eventuale appoggio di Washington e dei governi europei alle rivolte popolari scoppiate in questi mesi non dipende infatti da un improbabile scrupolo di natura democratica, bensì esclusivamente dalla necessità di preservare i propri interessi strategici.
A conferma di ciò, vi è ad esempio l’allerta emesso lunedì dal governo inglese per mettere in guardia da possibili minacce terroristiche in Bahrain. La presa di posizione di Londra sposa la tesi del regime che, dopo aver accusato senza alcuna prova Teheran di alimentare la rivolta nel paese, ha attribuito gli scontri di questi giorni all’opera di terroristi ed estremisti. È superfluo ricordare che quest’ultima tesi è sostenuta, con più di una ragione, anche da Bashar al-Assad per spiegare i disordini in corso in Siria, ma è ovviamente del tutto respinta dall’Occidente.
Mentre regimi sgraditi come quello siriano, e ancor prima quello di Gheddafi in Libia, sono il bersaglio di un’incessante propaganda o di aggressioni militari per provocarne la caduta, altri vengono invece premiati per la fedeltà agli interessi dei loro sponsor, indifferentemente dalla loro natura sanguinaria e anti-democratica.
Nel caso del Bahrain, infatti, gli Stati Uniti in questi mesi hanno accolto a Washington con tutti gli onori del caso membri della famiglia reale, mentre proprio la settimana scorsa l’assistente al Segretario di Stato per il Medio Oriente, Jeffrey Feltman, è stato ospite della famiglia Khalifa a Manama. Oltretutto, mentre è in corso una durissima repressione contro il dissenso interno, il Bahrain, in quanto membro del Consiglio di Cooperazione del Golfo assieme alle altre dittature della regione, sta giocando anche un ruolo fondamentale nella Lega Araba per aprire la strada ad un intervento militare che favorisca il cambio di regime in Siria. Il tutto, come sempre, per ragioni rigorosamente umanitarie.
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di Carlo Musilli
Le riforme assassine varate domenica notte dal Parlamento greco non bastano più. Atene deve piangere ancora. Una serie di colpi scena nelle ultime 48 ore lascia intuire quali siano i nuovi progetti dell'Europa per la Grecia. Sui palcoscenici di Bruxelles e dei mercati finanziari vanno in onda le prove generali della bancarotta. La prima svolta è arrivata martedì sera, quando a borse chiuse il presidente dell'Eurogruppo, Jean Claude Junker, ha annunciato il declassamento a semplice "teleconferenza" della riunione in agenda ieri.
Doveva essere un vertice interamente dedicato ad Atene, che attendeva dai ministri Ue il via libera alla seconda tranche di aiuti da 130 miliardi di euro. Un prestito fondamentale per ripagare i bond in scadenza il 20 marzo, scongiurando così il default, e che sarebbe dovuto arrivare come contropartita agli ultimi tagli draconiani. Invece niente.
"Non ho ricevuto dai leader dei partiti della coalizione al governo le assicurazioni politiche richieste sull'applicazione del piano - ha scritto Junker - c'è bisogno di altro lavoro. E' necessario trovare altri 325 milioni". Sembra che nelle stesse ore il Consiglio dei ministri greco abbia stabilito in extremis di racimolare quei soldi colpendo per l'ennesima volta le pensioni. Ma ormai era troppo tardi per convincere Bruxelles e, forse, non sarebbe bastato comunque. Se ne riparlerà alla prossima riunione ordinaria dell'Eurogruppo, il 20 febbraio.
Per rassicurare l'Europa sul fronte politico, ieri i leader dei due maggiori partiti ellenici, il socialista George Papandreou e il conservatore Antonis Samaras, hanno garantito il loro impegno a portare avanti il piano d'austerità anche dopo le elezioni anticipate di aprile. Purtroppo per loro non è sul campo delle rassicurazioni che si gioca la partita. Ci ha visto lungo il loro ministro delle Finanze, Evangelos Venizelos, che ha avuto il coraggio di rivelare una verità scomodissima: "Diversi paesi europei non vogliono più la Grecia nell'euro".
In particolare, secondo il Financial Times, sarebbero Germania, Olanda e Finlandia a premere per l'uscita di Atene dall'Eurozona. E pare che i tedeschi siano i più agguerriti. Intanto, i funzionari di vari ministeri delle finanze europei stanno studiando un'alternativa per evitare - o ritardare - la soluzione più drastica. Si tratterebbe di spezzettare o addirittura di far slittare completamente il nuovo pacchetto di aiuti, sventando però il fallimento della Grecia a Marzo. Il rinvio potrebbe arrivare fino a dopo le elezioni, in modo da avere una bella pistola carica da puntare alla tempia del nuovo esecutivo.
Ma come mai adesso nelle alte sfere si parla con tanta disinvoltura de default greco? Fino a qualche settimana fa la sola ipotesi era presentata da tutti come una tragedia, la miccia che avrebbe potuto innescare un'apocalisse finanziaria globale. Ora non più. E la ragione è che negli ultimi mesi è diminuito il rischio di contagio alle altre economie. Il fattore decisivo in questo senso è stata la Bce di Mario Draghi, che ha garantito al sistema bancario prestiti illimitati e a bassissimo prezzo.
Inoltre, le banche europee hanno avuto il tempo di depurarsi da gran parte dei titoli di Stato greci che avevano in pancia. A questo punto, in caso d’insolvenza, potrebbero sopportare le perdite con molto meno affanno di prima. Non sono poi da sottovalutare i cambiamenti di rotta di Italia e Spagna: entrambi i paesi hanno un nuovo governo che si è dimostrato in grado di fare i compiti a casa assegnati dall'Europa.
Tutto questo scenario sembra essere stato assorbito mercati finanziari. A parte qualche estemporanea tensione sugli spread, ormai da tempo le vicende greche hanno smesso di causare crolli particolarmente drammatici delle borse europee. E i titoli del comparto bancario, che ultimamente hanno vita abbastanza tranquilla a Piazza Affari, sono il miglior termometro di questa situazione.
Lo scenario più probabile è che la Grecia continui a camminare sul filo ancora per qualche mese. Alla fine però la bancarotta sarà l'unica strada praticabile. A dirlo non sono più soltanto schiere di economisti, ma anche uomini politici. Hanno capito che l'austerità non farà il miracolo e allo stesso tempo sanno benissimo che l'Europa non può sostenere il debito greco ancora per anni. Stanno allestendo la scena per l'ultimo atto, ma il sipario calerà solo quando crederanno di essere tutti più o meno al sicuro. Tutti tranne i greci.