di Michele Paris

Le elezioni anticipate di sabato scorso in Slovacchia hanno assegnato, come previsto, una nettissima maggioranza all’opposizione social-democratica dell’ex premier, Robert Fico. A uscire sconfitta è stata così la coalizione del primo ministro uscente, Iveta Radicová, il cui governo era di fatto crollato lo scorso ottobre sul voto di fiducia per l’approvazione del Fondo Europeo di Stabilità (EFSF).

In quell’occasione, il Parlamento slovacco riuscì a dare il via libera alla legislazione richiesta da Bruxelles solo grazie all’appoggio dei social-democratici, i quali in cambio chiesero appunto il voto anticipato.

Secondo i dati definitivi, il partito di centro-sinistra SMER-Socialdemocrazia di Fico ha ottenuto il 44,4% dei consensi che si tradurrà in 83 dei 150 seggi in Parlamento. Grazie a questo risultato, Fico - già premier tra il 2006 e il 2010 - sarà in grado di formare un nuovo governo senza ricorrere al sostegno di altri partiti. Una situazione questa del tutto insolita per la Slovacchia, che ha avuto governi di coalizione fin dalla divisione della Cecoslovacchia nel 1993.

La campagna elettorale per il voto di sabato ha visto al centro del dibattito lo scandalo-corruzione esploso alla fine dello scorso anno e che ha coinvolto praticamente tutti i partiti slovacchi, rivelando le modalità con le quali la classe dirigente ha governato il paese da quasi due decenni a questa parte.

Lo scandalo è legato alla cosiddetta operazione “Gorilla”, condotta tra il 2005 e il 2006 dai servizi segreti slovacchi, i quali avevano piazzato delle microspie in un appartamento di Bratislava dove avvenivano incontri segreti tra importanti personalità del mondo politico e imprenditoriale. Il materiale così raccolto ha documentato la corruzione ampiamente diffusa nella gestione degli affari pubblici in Slovacchia. La pubblicazione dei contenuti delle intercettazioni lo scorso dicembre ha portato a numerose proteste di piazza in molte città alle quali hanno partecipato decine di migliaia di persone.

Lo scandalo “Gorilla” ha messo in luce un sistema corrotto con al centro, soprattutto, le privatizzazioni delle aziende statali e l’assegnazione degli appalti pubblici. A farne le spese nelle urne è stato in particolare il partito del premier Radicová, l’Unione Democratica e Cristiana Slovacca (SDKU-DS), al governo nel 2005-2006 sotto la guida di Mikulás Dzurinda, attuale ministro degli Esteri e presidente del partito. L’SDKU-DS è così andata incontro ad un autentico tracollo, passando dal 15,4% dei consensi raccolti nel 2010 al 5,9% di sabato.

Quest’ultimo partito e gli altri tre della coalizione di governo uscente avranno complessivamente appena 51 seggi nel prossimo Parlamento, contro i 79 vinti nelle precedenti elezioni. Nel giugno 2010 i quattro partiti di centro-destra, nonostante i socialdemocratici di SMER avessero ottenuto la maggioranza relativa, diedero vita ad un’alleanza di governo alquanto instabile. Il premier Radicová è riuscita in due anni a portare comunque a termine alcune delle “riforme” richieste dalle élite economico-finanziarie slovacche e dall’Unione Europea, come quella delle pensioni, del settore pubblico e del fisco.

Tra le altre formazioni politiche in corsa sabato, il nuovo partito conservatore Gente Comune, fondato lo scorso ottobre e protagonista di una campagna anti-corruzione, ha vinto 16 seggi, mentre l’ultra-nazionalista Partito Nazionale Slovacco (SNS) non è riuscito a superare la soglia di sbarramento del 5% per entrare in Parlamento. L’affluenza, infine, è stata superiore alle aspettative e attestata al 59,1%, cioè praticamente simile al 2010.

Tra le promesse elettorali del premier in pectore, Robert Fico, ci sarebbe il mantenimento dell’attuale livello di spesa sociale, l’aumento del carico fiscale per le aziende e le classi più agiate, l’eliminazione della tassa sui redditi ad aliquota unica (19%) introdotta dal precedente governo e lo stop alle privatizzazioni.

Nonostante la retorica, tuttavia, le politiche del prossimo governo slovacco non si scosteranno in maniera sostanziale da quelle degli ultimi due anni. Fico ha infatti già confermato di voler rispettare gli impegni presi dal suo paese riguardo la messa in ordine delle finanze: il deficit di bilancio dovrà così scendere quest’anno al 4,6% del PIL e al 3% nel 2013. Questi obiettivi, ovviamente, dovranno essere raggiunti con ingenti tagli alla spesa pubblica.

Allo stesso modo, come dimostra il voto sul Fondo di Stabilità, il leader social-democratico appoggia in pieno le misure UE per la risoluzione della crisi del debito e il salvataggio della moneta unica, introdotta in Slovacchia nel 2009 sotto la guida dello stesso Fico. Orientamenti di questo genere, inevitabilmente, porteranno nell’immediato futuro all’adozione di nuove pesanti misure di austerity anche in questo paese già segnato da tassi di povertà e disoccupazione ben superiori alla media europea.

di Michele Paris

In un agghiacciante discorso tenuto qualche giorno fa presso la Northwestern University Law School di Chicago, il ministro della Giustizia americano (“Attorney General”), Eric Holder, ha annunciato pubblicamente i principi “legali” su cui si basa la facoltà del presidente degli Stati Uniti di ordinare segretamente l’assassinio mirato di presunti terroristi, cittadini americani compresi, in ogni angolo del pianeta. L’intervento di Holder sancisce in pratica la soppressione di ogni controllo sul potere esecutivo, traducendosi in un pericoloso assalto ai diritti democratici garantiti dalla costituzione.

L’attesa uscita pubblica del primo ministro della Giustizia di colore della storia americana arriva in seguito alle richieste di chiarimento provenienti da più parti circa i fondamenti legali che hanno portato all’uccisione lo scorso settembre in Yemen di Anwar al-Awlaki, il predicatore islamista nato in Nuovo Messico e con cittadinanza statunitense. In quell’occasione, una bomba sganciata da un drone tolse la vita anche ad un secondo cittadino americano, il fondatore della rivista di Al-Qaeda in lingua inglese Inspire, Samir Khan. Due settimane più tardi, la stessa sorte di Awlaki sarebbe inoltre toccata al figlio appena sedicenne, Abdulrahman.

Anwar al-Awlaki era finito sulla lista nera della Casa Bianca nell’aprile del 2010 senza che fossero state rese pubbliche eventuali prove a suo carico e senza passare attraverso un normale procedimento legale. L’elenco dei sospettati di terrorismo da “uccidere o catturare” viene stilata in tutta segretezza da una ristretta cerchia di consiglieri del presidente e nei loro confronti il governo americano ha la facoltà di agire da giudice unico nonché esecutore della pena.

Holder ha inquadrato il suo discorso nell’ambito della guerra al terrore, riecheggiando in maniera inquietante la retorica dell’amministrazione Bush, volta a suscitare il panico nei cittadini statunitensi. Per il ministro della Giustizia, nel caso non sia possibile catturare vivi individui sospettati di essere legati ad Al-Qaeda e che rappresentano una minaccia imminente per la sicurezza nazionale - qualora si trovino in un paese che non è in grado di eliminare tale minaccia o che ha concesso agli USA il permesso di colpirli - “il nostro governo ha chiaramente l’autorità di difendere il paese tramite un uso letale della forza” e “la sola cittadinanza americana non conferisce alcuna immunità a questi individui”.

Come giustificazione legale per gli assassini mirati, Holder ha citato l’Autorizzazione all’Impiego della Forza Militare, il provvedimento approvato dal Congresso il 14 settembre 2001 e firmato dal presidente George W. Bush quattro giorni più tardi, in seguito all’attacco contro le Torri Gemelle. Inizialmente intesa a colpire membri di Al Qaeda e i Talebani, ritenuti responsabili dell’11 settembre, tale misura è servita per scatenare la guerra contro il governo afgano e, da allora, è stata violata in continuazione per legittimare uccisioni di presunti terroristi, ma anche per la messa in atto di tutta una serie di pratiche abusive che hanno caratterizzato un decennio di guerra al terrore, come torture, “rendition”, detenzioni indefinite, tribunali militari, invasione della privacy dei cittadini e la creazione del lager di Guantanamo.

Secondo Holder, dal momento che gli Stati Uniti si trovano a combattere una guerra al terrore dai contorni sempre più oscuri, l’autorità legale assegnata alla Casa Bianca per condurre operazioni di questo genere “non è limitata al solo campo di battaglia dell’Afghanistan”, mentre viene del tutto esclusa l’applicazione del decreto presidenziale emanato nel 1975 da Gerald Ford che vieta gli assassini extragiudiziari da parte del governo e delle sue agenzie.

Il passaggio del discorso di Holder con le più gravi implicazioni è probabilmente quello in cui afferma che la costituzione americana garantisce un “giusto processo” ma non un “processo giudiziario”, cioè l’insieme di regole e norme previste da un normale procedimento legale in un’aula di tribunale.

Una simile interpretazione subordina alla discrezione dell’esecutivo la validità di una serie di principi democratici fondamentali contenuti nei primi dieci Emendamenti della Costituzione americana, approvati nel 1791, tra cui l’habeas corpus, il diritto ad un processo pubblico e di ragionevole durata, il diritto ad una giuria imparziale o il diritto all’assistenza di un legale. Il tutto in nome delle esigenze della sicurezza nazionale di un paese impegnato in una guerra al terrore dalla più che dubbia legittimità.

Infatti, questo conflitto sui generis è in realtà il pretesto per giustificare la continua espansione del militarismo e dell’imperialismo USA, manifestatosi in questi anni in una serie di guerre di aggressione non provocate e, sul fronte domestico, nella progressiva erosione dei diritti democratici della popolazione.

Che tale pericolosa evoluzione rifletta la volontà di tutta la classe dirigente statunitense è evidente dal fatto che le pratiche inaugurate dall’amministrazione Bush sono state proseguite e spesso superate dall’attuale inquilino democratico della Casa Bianca. Non a caso, la sanzione legale data da Holder agli assassini mirati segue di poco più di due mesi la firma posta da Obama su un provvedimento che ratifica la detenzione indefinita presso l’autorità militare di sospetti terroristi, compresi i cittadini americani arrestati sul territorio dell’Unione.

Il discorso di Holder ha suscitato le dure reazioni delle organizzazioni per i diritti civili, tra cui l’ACLU (American Civil Liberties Union), la quale aveva citato il governo di Washington per indurlo a rendere pubblici i documenti riservati relativi all’assassinio di Awlaki in Yemen. Secondo la ONG newyorchese, “ben poche sono le cose più pericolose per la libertà della tesi secondo la quale il governo americano ha la facoltà di uccidere propri cittadini ovunque nel mondo sulla base di prove e standard legali non sottoposti ad una corte, né prima né dopo il fatto”.

Ancora più preoccupante, se possibile, è anche lo spazio dedicato al discorso di Holder dai principali media d’oltreoceano. Pur avendo coperto le dichiarazioni del ministro della Giustizia, essi hanno pressoché totalmente evitato di analizzarne le implicazioni. Nessun politico, ovviamente, ha infine sentito la necessità di denunciare le parole di Holder o di evidenziare la minaccia portata ai diritti democratici negli Stati Uniti da una dottrina legale che sta gettando le basi per la creazione di quello che assomiglia sempre più ad un vero e proprio stato di polizia.

di Michele Paris

Il tradizionale supermartedì negli Stati Uniti ha registrato l’altro giorno un’affermazione complessivamente positiva nelle primarie repubblicane per il favorito, Mitt Romney, anche se il suo immediato rivale, Rick Santorum, è stato in grado di conquistare alcune significative vittorie che gli permetteranno di rimanere in corsa nelle prossime settimane. Il miliardario mormone, in particolare, è riuscito a prevalere, sia pure di misura, nello stato più importante tra quelli chiamati a votare martedì - l’Ohio - ribaltando i sondaggi della vigilia che sembravano dare invece un certo vantaggio a Santorum.

Nel supermartedì repubblicano hanno votato gli elettori di dieci stati, dove erano complessivamente in palio più di 400 delegati, vale a dire circa il 20 per cento del totale da assegnare e il 40 per cento di quelli necessari ad ottenere la nomination del partito. Dopo le vittorie messe a segno nell’ultima settimana in Michigan, in Arizona e nello stato di Washington, Romney ha potuto così allungare il passo su Santorum e sugli altri sfidanti interni, ma non evitare il prolungarsi di una competizione che il suo staff sperava di poter archiviare entro i primi di marzo. Addirittura, la netta affermazione martedì di New Gingrich nel suo stato, la Georgia, manterrà per il momento in corsa anche l’ex speaker della Camera, dividendo il voto dell’ala conservatrice del partito a tutto vantaggio di Romney.

Oltre all’Ohio (66 delegati in palio), Romney ha vinto in Virginia (49), dove Santorum e Gingrich non avevano raccolto abbastanza firme per apparire sulle schede, in Massachusetts (41), dove è stato governatore tra il 2003 e il 2007, in Vermont (17) e nei caucus di Alaska (27) e Idaho (32), stato quest’ultimo con una folta presenza di mormoni. Santorum ha prevalso invece in Tennessee (58) e in Oklahoma (43), nei quali ha inciso la componente di elettori evangelici vicini alle posizioni reazionarie dell’ex senatore della Pennsylvania, così come nei caucus del North Dakota (28). Per Gingrich, come già ricordato, è arrivata la sola vittoria della Georgia, lo stato che martedì assegnava il maggior numero di delegati (76).

In Ohio l’esito delle primarie è stato in bilico a lungo, fino a quando all’alba di mercoledì la Associated Press ha assegnato il primo posto a Mitt Romney con un margine di poco più di 12 mila voti e un punto percentuale (38% a 37%) su Rick Santorum.

Questo stato, perennemente in bilico tra democratici e repubblicani (“swing state”), è considerato fondamentale per la conquista della Casa Bianca a novembre e perciò i due candidati repubblicani hanno investito parecchie risorse per cercare di prevalere. Romney è riuscito a rimediare allo svantaggio che i sondaggi gli attribuivano nei confronti di Santorum spendendo ancora una volta massicciamente in messaggi elettorali negativi contro il suo avversario.

Ciononostante, alla fine è arrivata per lui una vittoria stentata che ha confermato i dubbi di molti all’interno del partito nei confronti della sua candidatura, non solo tra l’estrema destra ma anche tra quelle sezioni della working-class bianca che vota repubblicano e che rappresenta una parte relativamente consistente dell’elettorato del Midwest. Questa fetta di elettori era stata corteggiata a lungo nelle ultime settimane dai due candidati e, in Ohio, sembrava orientata verso il messaggio populista di Santorum. Oltre alle minori disponibilità finanziarie rispetto a Romney, in Ohio Santorum ha pagato anche l’assenza del suo nome sulle schede in tre distretti elettorali a causa di problemi burocratici.

Dopo il voto di martedì, Romney ha accumulato un discreto margine di vantaggio in termini di delegati. Secondo le stime parziali di mercoledì della Associated Press, l’ex governatore del Massachusetts avrebbe finora messo assieme 415 delegati contro i 176 di Santorum, i 105 di Gingrich e i 47 di Ron Paul. Per assicurarsi la nomination sono necessari almeno 1.144 delegati.

Se Romney sembra dunque aver superato, sia pure a fatica, la prova del Midwest con le vittorie di Michigan e Ohio, all’orizzonte c’è ora un altro test complicato con una serie di stati nel sud degli Stati Uniti, teoricamente favorevoli a candidati più conservatori some Santorum o Gingrich. Sabato prossimo sono previsti i caucus del Kansas (40 delegati in palio) e martedì le primarie di Alabama (50) e Mississippi (40).

Se la sfida per la nomination repubblica appare sempre più una questione tra Romney e Santorum, Ron Paul e New Gingrich per il momento non intendono lasciare. Per il deputato libertario del Texas da tempo non esiste alcuna chance di nomination, ma i suoi sostenitori sono tra i più agguerriti ed organizzati. Nel supermartedì, Paul ha come al solito ottenuto buoni risultati negli stati che prevedevano caucus (secondo in Idaho e North Dakota, terzo in Alaska) e il 40% dei consensi in Virginia, dove però l’unico avversario era Romney.

Per Gingrich, invece, quello in Georgia è stato il secondo successo della stagione dopo che aveva prevalso in Carolina del Sud a gennaio. Considerato la prima alternativa a Romney fino a qualche settimana fa, la stella di Gingrich si è tuttavia rapidamente offuscata, lasciando spazio al ritorno di Rick Santorum. La sua permanenza nella competizione dipendeva esclusivamente da una vittoria convincente nel suo stato, grazie alla quale - e ad una nuova infusione di denaro da parte del suo principale finanziatore, il magnate dei casinò Sheldon Adelson - proverà ora a giocarsi le residue carte a disposizione nel sud degli Stati Uniti.

Come già accaduto nei primi due mesi dell’anno, anche nei giorni precedenti il supermartedì la campagna elettorale per le primarie repubblicane è stata caratterizzata dai consueti scambi di critiche e accuse tra i vari candidati. Questi ultimi hanno fatto a gara nel posizionarsi il più a destra possibile sui temi sociali, economici e - a parte Ron Paul - della politica estera. In particolare, Romney, Gingrich e Santorum, in concomitanza con la convention annuale della lobby sionista AIPAC e della visita a Washington del premier israeliano Netanyahu, hanno attaccato il presidente Obama sulla questione del nucleare iraniano, minacciando un intervento militare contro Teheran in caso di elezione alla Casa Bianca.

Romney, inoltre, ha continuato a promuovere la sua immagine di imprenditore vincente grazie alla passata esperienza nel “private equity” che lo renderebbe il candidato più adatto a risollevare l’economia americana.

Santorum, da parte sua, facendo leva sulle sue umili origini da una famiglia cattolica della Pennsylvania, si è presentato soprattutto in Ohio come il difensore dei lavoratori e delle classi più disagiate, nonostante abbia messo assieme una fortuna come lobbista per svariate corporation dopo aver perso la rielezione al Senato nel 2006. Assieme alle vittorie dell’ultima settimana di Romney, in ogni caso, sono giunti segnali inequivocabili da parte dell’establishment repubblicano per serrare i ranghi attorno al favorito.

Nei vertici del partito sono d’altra parte diffusi i timori per il protrarsi di una campagna lacerante e, soprattutto, per un’eventuale nomination di Santorum che con ogni probabilità allontanerebbe una buona parte dell’elettorato in vista di novembre a causa delle sue posizioni troppo estreme sui temi sociali. Un fondamentalismo quello di Santorum che, in Ohio come in Michigan, ha addirittura spinto la maggioranza dei cattolici a preferire il mormone Romney.

Quest’ultimo ha potuto così incassare l’appoggio ufficiale di alcune importanti personalità del Partito Repubblicano, come il leader di maggioranza alla Camera, Eric Cantor, il senatore dall’Oklahoma, Tom Coburn, e l’ex ministro della Giustizia di George W. Bush, John Ashcroft. Il vantaggio principale di Romney rimane però la quantità di denaro - oltre 100 milioni di dollari - tuttora a disposizione della sua campagna elettorale e della SuperPAC che lo sostiene. Il “front-runner” repubblicano, vanta anche una fortuna personale stimata in qualcosa come 250 milioni di dollari alla quale in caso di necessità potrebbe attingere, come fece durante le primarie del 2008.

di Rosa Ana De Santis

E’ prevista per fine mese la sentenza sulla diatriba legale che da tempo il colosso farmaceutico Novartis porta avanti contro il governo indiano sulla questione dei brevetti e dei farmaci generici equivalenti, venduti a basso costo. Medici Senza Frontiere torna a ricordare che questa formula è l’unica che permette a tantissimi paesi in via di sviluppo di evitare autentici flagelli umanitari e invita la multinazionale ad abbandonare la causa.

Novartis si difende rivendicando il solo riconoscimento della proprietà intellettuale, ma è semplice dedurne una serie di conseguenze per milioni di persone e dei loro paesi ch a questo punto dovranno adempiere a ben altri oneri economici di quelli finora corrisposti all’India, considerata un po’ come la farmacia del Sud del mondo.

La politica che il governo indiano persegue sul tema del brevetto è molto attenta al valore della salute pubblica e, ad esempio, non riconosce la concessione di nuovi brevetti (e quindi nuove occasioni di affari) per semplici cambiamenti di medicinali già presenti sul mercato.

Cancro, tubercolosi, HIV, sono le malattie contro cui si combattono nei paesi in via di sviluppo le battaglie più difficili. Prima della Novartis era stata la Bayer a battersi legalmente per impedire l’introduzione sul mercato della versione generica di un proprio farmaco antitumorale. La richiesta del colosso tedesco non passò e le cure furono assicurate a milioni di pazienti poveri.

La situazione sanitaria dei paesi in via di sviluppo non è soltanto legata all’accesso ai farmaci, ma anche al know - how delle professioni sanitarie, alle infrastrutture cui ci si rivolge, al livello - spesso inesistente - della prevenzione che rimanda anche a specificità culturali e del territorio su cui intervenire non è affatto semplice.

La campagna per l’accesso ai farmaci essenziali impegna da moltissimi anni Medici Senza Frontiere e vede coinvolti numerosi organismi che operano nel settore. I cosiddetti generici nascono da principi attivi mai o non più coperti da brevetto con processo di produzione e prodotto finale copiati da ditte farmaceutiche debitamente attrezzate, mentre i brevetti sono quasi tutti in mano alle aziende farmaceutiche occidentali.

Il braccio di ferro con cui le multinazionali hanno provato a ricattare il Sud del Mondo ha raccolto clamorose sconfitte legali, come nel 2001 al Processo di Pretoria in Sudafrica e con la Dichiarazione di Doha, con la quale è stata ribadita la priorità del diritto di cura sul business. E’ del resto il principio che sovraintende qualsiasi sistema pubblico sanitario in cui le cure essenziali vengono garantite come diritto e non come prestazioni commerciali.

Altrettanto vani tutti i tentativi di intromettersi nella politica dei prezzi dei generici con l’evidente indifferenza a cosa sarebbe accaduto ai milioni di persone ammalate nei paesi poveri. Se infatti i brevetti sono appannaggio di pochi, se le capacità economiche sono tutte dell’Occidente, è evidente che ai paesi in via di sviluppo non rimangono che due possibilità: fare in casa o quasi i farmaci con una politica dei prezzi sostenibili oppure, evidentemente, lasciar morire le persone per mancanza di capacità economica.

Pur con i generici la situazione dei paesi poveri è tutt’altro che risolta. Le pressioni politiche, le difficoltà di approvvigionamento e la corruzione di molti governi in combutta con gli affari del nord del mondo,  sono tali per cui la penuria di farmaci taglia comunque fuori interi paesi o aree di essi. Ed è li che solo lo sforzo delle organizzazioni umanitarie riesce, faticosamente, a strappare migliaia di persone dalla condanna a morte.

Peraltro, ad inquinare il dibattito internazionale, si aggiunge un problema emergente nei paesi in via di sviluppo: quello dei farmaci contraffatti. La questione viene spesso e ad arte confusa con la questione dei farmaci generici che nulla invece hanno a che vedere con le medicine falsificate, ovvero sotto dosate,  che producono fallimenti terapeutici, pericolose resistenze o tossicità vere e proprie.

Il dogma dei brevetti, anche sui famosi test genetici sempre più diffusi in Occidente, sta alimentando sempre di più riflessioni di ordine morale non soltanto sulla politica economica che ne consegue, ma anche sulla correttezza concettuale di ammettere la brevettabilità del genoma umano al pari di un prodotto commerciale o di laboratorio. L’etica, lo vogliano o no i colossi del farmaco, non può prescindere dal mercato dei loro prodotti proprio per la natura degli stessi. Non sono capi d’abbigliamento, non sono scarpe,  ma beni fondamentali per la vita.

E nel caso dei paesi poveri bisogna riconoscere, senza falso stupore, che il comportamento delle multinazionali dei farmaci è coerente con quello di tutte le altre imprese occidentali. Dalle coltivazioni transgeniche, allo sfruttamento della manodopera, all’imposizione del latte in polvere la storia di un nuovo colonialismo efferato, apparentemente non violento, è presto documentato. Ma non c’è dubbio che la cura negata ad una persona malata e povera,  sia  molto di più che il volto cinico degli affari. Piuttosto l’immagine migliore del male. 

di Michele Paris

L’atteso vertice di lunedì alla Casa Bianca tra il presidente Obama e il primo ministro israeliano, Benjamin Netanyahu, è stato monopolizzato dalla questione iraniana e dalla ricerca di una strategia di aggressione comune nei confronti di Teheran. L’incontro di tre ore, tra cui un faccia a faccia di mezz’ora tra i soli due leader, è giunto il giorno dopo l’apparizione di Obama alla convention annuale dell’AIPAC (America Israel Public Affairs Committee), la principale lobby filo-israeliana negli Stati Uniti, che è stata l’occasione non solo per anticipare i temi del summit con Netanyahu ma anche per ribadire il pressoché totale allineamento di Washington con Tel Aviv.

In un clima cordiale ma caratterizzato dalla consueta freddezza dei rapporti tra i due leader, il presidente americano ha sostanzialmente invitato il premier israeliano ad attendere che la diplomazia e le pesanti sanzioni applicate all’Iran negli ultimi mesi facciano il loro effetto prima di ricorrere all’opzione militare. Da parte sua, Netanyahu ha da un lato confermato la sfiducia nei confronti delle sanzioni e della diplomazia per risolvere la questione del nucleare iraniano e dall’altro ha espresso irritazione per le dichiarazioni fatte nelle ultime settimane dai vertici militari e dell’intelligence USA volte a mettere in guardia dai pericoli di un attacco preventivo contro la Repubblica Islamica.

Alla vigilia del vertice, i giornali americani avevano previsto che Netanyahu avrebbe chiesto a Obama di stabilire una serie di punti fermi che Teheran non dovrebbe oltrepassare per non incorrere in un’aggressione militare. I paletti richiesti sembra invece non siano stati fissati in maniera ufficiale dalla Casa Bianca, così come Netanyahu non ha incassato la promessa americana di intervenire militarmente prima che l’Iran sia in grado di acquisire la capacità di costruire un ordigno nucleare.

Se pure alcune divergenze di natura tattica tra USA e Israele rimangono irrisolte, Obama e Netanyahu hanno riaffermato la sostanziale sintonia tra i loro governi, rafforzata dal coordinamento tra i rispettivi vertici militari e dell’intelligence. Si sono inoltre accordati per cercare di abbassare i toni e le minacce verso l’Iran, così da evitare che ogni uscita pubblica si traduca in una nuova impennata del prezzo del greggio. Netanyahu, tuttavia, ha tenuto a sottolineare come Tel Aviv continui a tenere aperta la strada di un attacco unilaterale anche senza il via libera di Washington, poiché, come ha confermato successivamente all’AIPAC il primo ministro israeliano, sulle questioni che riguardano la propria sicurezza, “Israele ha il diritto di decidere autonomamente”.

Le dichiarazioni relativamente blande seguite al meeting della Casa Bianca contrastano in maniera evidente con quelle a tratti ben più accese fatte da una serie di politici americani - tra cui Obama - di fronte alla stessa convention dell’AIPAC. Al raduno dell’influente lobby, che detta praticamente la politica del Congresso statunitense sulle questioni mediorientali, si è assistito ad un avvilente spettacolo nel quale i vari ospiti, a pochi mesi dalle elezioni, hanno fatto a gara nel mostrare tutto il loro servilismo verso Israele.

Ai membri dell’AIPAC, domenica scorsa Obama ha così annunciato la ferma intenzione del suo governo di impedire all’Iran di diventare una potenza nucleare e, per raggiungere questo scopo, “ogni opzione rimane sul tavolo”, compresa quella militare, se necessaria. Martedì, poi, il Segretario alla Difesa, Leon Panetta, ha dichiarato che gli USA continueranno ad assicurare, “con qualsiasi supporto necessario”, la superiorità militare di Israele sui suoi avversari. Il leader dei repubblicani al Senato, Mitch McConnell, ha invece criticato la posizione di Obama sull’Iran, a suo dire troppo poco incisiva, mentre l’ex candidato alla vice-presidenza con Al Gore nel 2000, il senatore Joe Lieberman, ha ancora una volta confermato come il Congresso USA sia pronto ad assecondare completamente le richieste del governo israeliano.

Una delle differenze nell’approccio all’Iran tra USA e Israele era emersa dalle dichiarazioni di Netanyahu prima del summit con Obama durante una visita in Canada. Il premier conservatore ha affermato che la comunità internazionale dovrebbe porre delle chiare condizioni prima di iniziare qualsiasi negoziato con Teheran, tra cui lo smantellamento dell’installazione nucleare sotterranea di Fordow e lo stop all’arricchimento dell’uranio. Simili condizioni verrebbero poste precisamente per ottenere un rifiuto dall’Iran, come riconosce anche la Casa Bianca, e giustificare quindi un’aggressione militare.

Inoltre, come ha sostenuto Obama in un’intervista rilasciata settimana scorsa al magazine The Atlantic, gli Stati Uniti sono per il momento più cauti circa un intervento militare in quanto ritengono non solo che l’Iran non disponga ancora di armi nucleari, ma che la leadership di Teheran, in base ai risultati delle valutazioni dell’intelligence americana del 2007 e del 2010, non abbia nemmeno preso alcuna decisione in questo senso. A ciò va aggiunto, anche se ufficialmente ignorato dal governo americano, il discorso della settimana scorsa della guida suprema della Repubblica Islamica, l’ayatollah Seyyed Ali Khamenei, il quale ha nuovamente escluso categoricamente che il suo paese sia interessato a sviluppare un programma nucleare a scopi militari.

Le parole di Netanyahu e svariate altre dichiarazioni provenienti negli ultimi giorni dagli ambienti filo-israeliani intendono in ogni caso fare pressioni sull’amministrazione Obama per dare l’OK ad un intervento militare preventivo contro la Repubblica Islamica nei prossimi mesi. Israele, in particolare, al di là della retorica, non sembra avere le capacità per infliggere danni permanenti al programma nucleare iraniano e deve perciò contare sull’appoggio militare statunitense.

L’intenzione di Israele è d’altra parte quella di colpire l’Iran per prevenire anche solo la possibilità che Teheran possa giungere a disporre del know-how per costruire un’arma nucleare, così da conservare la propria supremazia militare nella regione. Un’eventuale aggressione preventiva e non provocata per fermare un programma nucleare per il quale non è stata finora presentata una sola prova concreta che sia a scopi militari, va ricordato, avverrebbe ad opera di un paese che, al contrario dell’Iran, non è firmatario del Trattato di Non Proliferazione e che possiede centinaia di testate nucleari non dichiarate.

Una tale operazione corrisponderebbe ad una nuova colossale violazione del diritto internazionale. Tuttavia, come hanno dimostrato le parole di Obama negli ultimi giorni, nonostante possibili dubbi e perplessità, essa verrebbe con ogni probabilità giustificata o, più probabilmente, appoggiata in pieno dagli Stati Uniti e dai loro alleati in Occidente, senza riguardo alcuno per le conseguenze catastrofiche che implicherebbe per l’intera regione.

L’insistenza con cui questi governi perseguono tale obiettivo e, in ultima analisi, il cambio di regime a Teheran con il pretesto della questione nucleare è tanto più dissennata quanto è vista con diffidenza dall’opinione pubblica. Malgrado la propaganda dei politici e dei principali media occidentali racconti quotidianamente di un Iran intento a sfidare la comunità internazionale e ad un passo dalla bomba atomica, una serie di recenti sondaggi negli Stati Uniti e in Israele hanno mostrato un sentimento ben diverso tra la popolazione.

L’impopolarità di un nuovo conflitto in Medio Oriente non ha comunque impedito ai falchi filo-israeliani di Washington di stringere le fila e di sfruttare la visita di Netanyahu per chiedere un’ulteriore escalation delle pressioni su Teheran dopo le minacce, le sanzioni e le operazioni segrete di stampo terroristico che già hanno caratterizzato la strategia anti-iraniana di Stati Uniti e Israele in questi ultimi mesi.


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