di Michele Paris

Due giorni fa, l’amministrazione Obama ha annunciato ufficialmente una proposta preliminare di riforma del codice fiscale americano, offrendo una riduzione dell’aliquota che grava sulle corporation dall’attuale 35% al 28%. Un ulteriore regalo alle grandi aziende quello del presidente, che dovrebbe essere finanziato dall’eliminazione delle numerose scappatoie legali che già consentono al business a stelle e strisce di ridurre considerevolmente il loro carico fiscale effettivo

A presentare pubblicamente il piano di riforma è stato il Segretario al Tesoro, Tim Geithner, il quale ha sostenuto che “le tasse sulle corporation negli Stati Uniti sono ormai vicine a diventare le più elevate di tutti i paesi ad economia avanzata”. In realtà, l’aliquota del 35% è puramente teorica, dal momento che, come hanno evidenziato svariati studi, essa nella sostanza risulta di gran lunga inferiore. Una ricerca dell’OCSE ha dimostrato come le grandi aziende USA paghino circa la metà delle tasse rispetto a quelle degli altri paesi avanzati.

Gli stessi dati del Dipartimento del Tesoro americano relativi al 2007 e al 2008 hanno rivelato che l’aliquota media è del 26%, con forti differenze a seconda del settore. Ad esempio, le società che forniscono servizi pubblici hanno pagato il 14%, quelle del settore estrattivo il 19% e dell’edilizia il 31%. Molte corporation, inoltre, hanno versato al fisco somme irrisorie o, addirittura, non hanno pagato un solo dollaro in tasse. Con ogni probabilità, queste discrepanze sono dovute in buona parte alla capacità di reclutare abili lobbisti, in grado di influenzare la politica di Washington per ottenere modifiche favorevoli del codice fiscale.

Quello che Obama prospetta come un piano di riforma per rendere più equo il fisco americano non è altro che una nuova manovra per ridurre le tasse delle corporation e aumentarle invece per le classi più povere, drenando così le risorse destinate alla spesa pubblica. Uno scenario che provocherà un ulteriore allargamento del divario tra i redditi più elevati e quelli più bassi in una società già polarizzata all’estremo.

Il sistema fiscale statunitense è infatti nettamente sbilanciato a favore dei grandi interessi economici e finanziari, i quali, grazie agli interventi legislativi messi in atto negli ultimi tre decenni da una classe politica totalmente al loro servizio, hanno beneficiato di un immenso trasferimento di ricchezza dai lavoratori e dalla classe media verso una ristretta élite al vertice della piramide sociale. Un’evoluzione che, oltre ad aver creato sempre maggiori disparità, ha contribuito in larga misura all’esplosione del deficit federale.

Il secondo punto del programma fiscale di Obama prevede poi la riduzione dell’aliquota per le aziende manifatturiere ad un massimo del 25%, anche se per quelle della “green economy” potrà essere ancora più bassa. Agevolazioni simili fanno parte della strategia dell’amministrazione democratica per tornare a creare posti di lavoro “ben retribuiti” sul territorio americano.

Le politiche industriali della Casa Bianca, come confermano i casi di General Motors e Chrysler, hanno tuttavia garantito finora la salvaguardia dei profitti delle aziende grazie alla creazione di una manodopera a basso costo e spogliata dei diritti conquistati in decenni di lotte sindacali.

Tra le altre proposte snocciolate dal presidente c’è anche un’imposta minima sui profitti delle corporation ottenuti all’estero, spesso depositati nei paradisi fiscali per evitare la mano del fisco USA, così come la semplificazione e la riduzione delle tasse per le piccole aziende.

Il piano di Obama, se implementato interamente, non dovrebbe aggiungere un solo dollaro al deficit federale, bensì dovrebbe aumentare le entrate fiscali, secondo quanto ha scritto il Financial Times, di 250 miliardi di dollari in dieci anni.

Questa cifra appare peraltro di scarsa rilevanza, visto che corrisponde a poco meno di quanto il governo americano prevede di incassare dalle tasse pagate dalle corporation nel solo anno fiscale in corso e che si chiuderà il 30 settembre prossimo.

L’intera riforma ha in ogni caso ben poche possibilità di essere approvata al Congresso, tanto che lo stesso New York Times ha definito la presentazione organizzata mercoledì come un evento elettorale a beneficio del presidente.

Soprattutto, la discussione sulla soppressione dei cosiddetti “loopholes”, che permettono alle corporation di aggirare le norme fiscali per pagare meno tasse, scatenerà la solita frenetica attività dei lobbisti nel tentativo di salvare i privilegi riservati ai loro clienti.

Buone prospettive si prevedono al contrario per la riduzione dell’aliquota che pesa sulle grandi aziende, vista positivamente anche dai repubblicani. Un qualche compromesso su questo fronte potrebbe essere raggiunto, probabilmente anche su un’aliquota più bassa del 28% voluto da Obama. Tutti i candidati alla Casa Bianca del Partito Repubblicano propongono infatti nei rispettivi programmi elettorali tagli alle tasse più consistenti per le corporation (Romney 25%, Santorum 17,5%, Paul 15%, Gingrich 12,5%).

Nulla, come previsto, viene infine proposto per ridurre il carico fiscale di classe media e lavoratori colpiti dalla crisi. Obama ha in realtà da tempo proposto un generico aumento delle tasse per i redditi superiori ai 200 mila dollari per i single e ai 250 mila per le famiglie, ma anche in questo caso con ben poche prospettive di superare l’esame del Congresso. Anzi, tra le “scappatoie” legali che potrebbero essere abolite sembra essere stata individuata la deduzione degli interessi sui mutui, uno dei pochi benefici fiscali di cui godono milioni di famiglie americane.

di Carlo Musilli

Dopo settimane di piroette e 15 ore di Eurogruppo, i signori di Bruxelles hanno finalmente deciso di salvare la Grecia, credendo così di mettere al sicuro se stessi. In realtà, è improprio perfino parlare di salvataggio. Quello garantito ad Atene è un gigantesco bis del maxiprestito da 110 miliardi scucito nel 2010, e rischia seriamente di fare la stessa fine, perché non scaccia in via definitiva gli spettri della bancarotta. L'unica vera certezza è che si guadagna del tempo: se e quando la prospettiva del defau

t si ripresenterà, la speranza è di aver ridotto al minimo il cosiddetto "rischio contagio" alle altre economie europee, disinnescando il potenziale effetto domino che minaccia il sistema finanziario del continente.

Cosa succederebbe davvero se la Grecia fosse risucchiata nel vortice di un fallimento incontrollato - fra Cds da pagare e titoli di Stato da bruciare - nessuno sa dirlo di preciso. Ma a quel punto non sarebbe sufficiente rabberciare una soluzione nelle stanze di Bruxelles, anche perché probabilmente nessuno sarebbe in grado.

Rispetto a due anni fa, però, c'è almeno una differenza sostanziale. La Grecia non viene più trattata come uno Stato sovrano, ma come una gigantesca azienda da ristrutturare. In quest'ottica, quando si apre generosamente il portafogli, diventa legittimo pretendere dalla controparte il massimo possibile delle garanzie e della sottomissione. Sul terreno della politica, però, questo si traduce in un commissariamento da record, di gran lunga il più vasto e il più rigido della storia d'Europa.

Nel dettaglio, ad Atene arriveranno fondi per 230 miliardi complessivi: 130 sotto forma di prestito (frazionato da qui al 2014) e altri 100 dal taglio del 53,5% sul valore nominale dei titoli di Stato in tasca alle banche private. A due norme equivalgono due trucchi. In primo luogo, la Bce ha trovato il modo di dribblare le norme che le impediscono di fornire aiuti diretti ai singoli paesi. Le basterà distribuire i guadagni sui titoli greci in suo possesso alle Banche centrali nazionali, che a loro volta li gireranno agli Stati e di qui, come previsto, torneranno in Grecia.

Per quanto riguarda il taglio sui bond già in pancia alle banche private, invece, la svalutazione è presentata come un'operazione "volontaria" da parte dei creditori, in modo da non far scattare i rimborsi sui credit default swaps (derivati che funzionano come polizze assicurative sulle obbligazioni, con un premio da pagare in caso di default). E' evidente a chiunque come di "volontario" non ci sia assolutamente nulla: se le banche non avessero accettato di perdere una parte dei soldi investiti in Grecia, li avrebbero persi tutti. La scelta non era difficile. 

Tutto questo consentirà al Paese ellenico di non dichiarare bancarotta il prossimo 20 marzo, quando arriveranno a scadenza bond per 14,5 miliardi. Resta invece da dimostrare (le variabili sono troppe) che questo piano, unito all'austerity draconiana, sia davvero in grado ridurre il debito dal 170% al 120,5% entro il 2020. In ogni caso, tanta generosità dell'Europa non è certo gratuita.

Oltre alle misure da film dell'orrore che nei prossimi anni affameranno diverse migliaia di greci, Atene è stata costretta ad accettare altre tre novità: invece di andare e venire ogni tre mesi, i commissari della troika (Ue, Bce e Fmi) rimarranno in modo permanente sul suolo ellenico, per controllare che il piano di risanamento venga portato avanti come d'accordo; sarà creato un fondo bloccato su cui i greci dovranno versare d'ora in poi i soldi per coprire gli interessi sul debito pubblico; nella Costituzione sarà inserita una norma sulla priorità dei pagamenti delle scadenze del debito. Manca solo la frase di rito: "Faccia a terra, mani dietro la schiena".

Insomma, dei greci non si fida nessuno e la paura che le carte in tavola possano cambiare dopo le elezioni anticipate di aprile è molto forte. Non c'è dubbio che ad Atene si siano meritati tutta la diffidenza possibile. Sono stati loro a truccare i bilanci presentati per entrare nell'euro. Ma è anche vero che qualcuno avrebbe potuto controllarli, quei bilanci.

 

di Michele Paris

Da alcuni giorni, una serie di violenti scontri sta segnando la vigilia delle elezioni presidenziali in Senegal, previste per domenica 26 febbraio. Le manifestazioni di piazza sono state organizzate dalle opposizioni ufficiali e da alcuni gruppi della società civile per protestare contro la candidatura dell’anziano presidente in carica, Abdoulaye Wade, il quale nonostante i limiti imposti dalla costituzione si appresta a correre per un terzo mandato alla guida del paese africano.

L’85enne presidente senegalese, al potere dal 2000, già lo scorso settembre aveva annunciato l’intenzione di correre per un terzo incarico, anche se nel 2007 aveva promesso pubblicamente che avrebbe dato l’addio alla politica attiva nel 2012.

Il suo ritiro dalle scene avrebbe permesso di evitare una disputa attorno al dettato costituzionale che regola il numero di mandati del presidente. Secondo Wade, infatti, il limite di due mandati previsto dalla costituzione non si applica al suo caso, poiché è stato introdotto dopo l’inizio della sua presidenza, nel 2000.

A stabilire che il limite dei due mandati non è retroattivo è stata infine la Corte Costituzionale del Senegal che lo scorso 27 gennaio ha dato così il via libera alla candidatura di Wade. Lo stesso tribunale, composto in maggioranza da fedelissimi del presidente, a gennaio aveva anche escluso dalle presidenziali il cantante di fama internazionale Youssou N’Dour, sostenendo che decine di migliaia di firme raccolte per la sua candidatura risultavano illeggibili.

La sentenza favorevole a Wade ha suscitato le immediate proteste delle opposizioni ma gli scontri di piazza con la polizia hanno iniziato ad assumere proporzioni preoccupanti solo la scorsa settimana. Il centro della capitale, Dakar, è stato occupato da migliaia di manifestanti, accolti dalle forze di sicurezza che hanno cercato in tutti i modi di impedire lo svolgimento di marce di protesta contro il presidente.

Anche i tre principali sfidanti di Wade - l’ex ministro degli Esteri, Ibrahim Fall, il deputato del Fronte per il Socialismo e la Democrazia, Cheikh Abiboulaye “Bamba” Dièye, e l’ex primo ministro nonché già protetto del presidente, Idrissa Seck - sono stati tra le vittime dei maltrattamenti riservati dalla polizia ai dimostranti.

Scontri di una certa intensità sono stati segnalati anche in altre località del paese, in particolare nella città di Kaolack, a sud-est di Dakar, dove un giovane manifestante ha perso la vita. Complessivamente, fino ad ora in tutto il Senegal si contano almeno sei morti tra gli oppositori di Wade.

Le tensioni sono poi salite alle stelle venerdì scorso, quando la polizia ha lanciato dei gas lacrimogeni all’interno di una moschea di Dakar nel tentativo di fare uscire un gruppo di manifestanti che vi avevano trovato rifugio. Questa mossa ha provocato una rivolta tra i fedeli che si stavano preparando alla preghiera, i quali hanno a loro volta deciso di scendere nelle strade in segno di protesta.

Alcuni leader dell’opposizione lunedì hanno chiesto alla comunità internazionale di intervenire per fare pressioni su Wade e fermare la repressione. Per il presidente, al contrario, i suoi avversari politici avrebbero reclutato mercenari per destabilizzare il paese. L’Unione Africana, attualmente presieduta dal presidente del Benin, Yayi Boni, ha fatto appello a entrambe le parti a porre fine alle violenze.

La stessa Unione Africana, in concerto con la Comunità Economica degli Stati dell’Africa Occidentale (ECOWAS), ha inoltre inviato in Senegal una delegazione guidata dall’ex presidente nigeriano, Olusegun Obasanjo, per tentare una mediazione. Le opposizioni - formate dai partiti ufficiali e dalle organizzazioni Movimento 23 Giugno (M23) e Y’en a marre (“Ne abbiamo abbastanza”), un movimento di protesta fondato da alcuni rapper senegalesi - non sembrano però intenzionate a fare passi indietro, tanto che hanno già annunciato nuove manifestazioni prima del voto di domenica prossima.

A lungo all’opposizione, Abdoulaye Wade era stato eletto per la prima volta alla presidenza del Senegal nel 2000 dopo quattro sconfitte a partire dal 1978. Una volta al potere, Wade ha presieduto a svariate modifiche costituzionali, spesso caotiche. Nel febbraio del 2007 ha conquistato un secondo mandato in un voto, secondo le opposizioni, macchiato da diffuse irregolarità.

Per protesta, gli stessi partiti dell’opposizione decisero di boicottare le elezioni parlamentari del giugno successivo, permettendo così a Wade e al suo Partito Democratico del Senegal (PDS) di ottenere il controllo pressoché assoluto della legislatura e di nominare a piacimento i giudici della Corte Costituzionale.

Nel giugno del 2011, Wade ha tentato un nuovo colpo di mano, cercando di abolire il secondo turno delle elezioni presidenziali nel caso un candidato avesse raggiunto il 25% dei consensi, invece del 50%. La mossa, fallita a causa delle proteste di piazza che seguirono, era dettata da un evidente calo dei consensi nei confronti del presidente che vedeva il rischio concreto di essere battuto da un eventuale candidato unitario dell’opposizione.

Wade, in ogni caso, è rimasto fermo nel suo intento di cercare un terzo mandato anche di fronte alle pressioni esercitate dai due principali sponsor del Senegal, gli Stati Uniti e la Francia, i cui governi hanno chiesto apertamente al presidente di farsi da parte nel timore di un diffondersi incontrollato delle proteste di piazza.

Come già avvenuto in occasione della primavera araba in Tunisia, Egitto e Yemen, gli USA e l’Occidente hanno cercato di scaricare un leader dalle tendenze autoritarie che ha però servito diligentemente i loro interessi per anni. Seguendo un percorso già battuto da autocrati come Ben Ali, Mubarak o Saleh, nell’ultimo decennio anche Wade in Senegal ha portato avanti parallelamente il consolidamento del suo potere e l’apertura del paese al capitale straniero.

Proprio le conseguenze delle “riforme” in senso liberista perseguite da Wade sono la causa principale dell’esplosione delle proteste popolari esplose in Senegal.

Tuttavia, come ha evidenziato il ricercatore canadese esperto in questioni africane, Toby Leon Moorsom, in un articolo apparso lunedì sul sito web di Al Jazeera, i partiti dell’opposizione e le organizzazioni della società civile che hanno promosso le proteste di questi giorni non sembrano intenzionati a introdurre le questioni economiche nel dibattito politico senegalese.

Un simile atteggiamento mostra perciò tutti i limiti di questi movimenti, sia per quanto riguarda la loro capacità di rimuovere Wade dal potere sia per offrire una reale prospettiva di cambiamento alla maggioranza della popolazione senegalese.

Per Moorsom, se pure le manifestazioni hanno sorprendentemente raccolto un seguito significativo in molte città, l’opposizione nel suo complesso risulta lontana dai bisogni e dalle aspirazioni delle classi più disagiate del paese.

Pur essendo l’unico paese dell’Africa occidentale a non aver conosciuto un colpo di stato militare dopo l’indipendenza, ottenuta dalla Francia nel 1960, il Senegal si distingue come i suoi vicini per le precarie condizioni in cui è costretta a vivere buona parte dei suoi abitanti. Il livello di disoccupazione sfiora il 50%, mentre a fronte di una ristretta élite che ha beneficiato delle “riforme” economiche implementate in questi anni, rimangono enormi sacche di povertà, del tutto escluse da qualsiasi prospettiva di miglioramento.

di Alessandro Iacuelli

L'Iran è pronto a una grande espansione del suo programma nucleare nel sito sotterraneo di Fordow. È quanto hanno rivelato alcuni diplomatici che hanno chiesto di rimanere anonimi. Teheran, hanno aggiunto, ha preparato il sito per l'installazione di migliaia di centrifughe di nuova generazione, che possono produrre uranio arricchito molto più velocemente dei macchinari presenti al momento. I circuiti elettrici, le tubazioni e attrezzature di appoggio sarebbero già pronti.

L'impianto, costruito all'interno di una montagna in una ex base militare, nei prossimi giorni diverrà pienamente operativo. Sabato scorso il presidente iraniano, Mahmoud Ahmadinejad, citato dall'agenzia di stampa locale Mehr, ha affermato che "l'Iran a breve presenterà il frutto dei suoi progressi nucleari. Il mondo intero assisterà ad alcuni dei nostri grandi successi in campo nucleare".

Già agli inizi di gennaio Fereydoun Abbasi Davani, capo dell'Organizzazione per l'Energia Atomica Iraniana, aveva detto al quotidiano iraniano Kayahan: "Un sito sotterraneo per l'arricchimento di uranio sarà operativo per gli inizi di febbraio”. Il funzionario aveva poi precisato: “Fordow produrrà uranio arricchito al 20%, 3,5% e 4%. Siamo ormai pronti ad esportare ad altri paesi i servizi legati all’energia nucleare; possiamo produrre acqua pesante".

In realtà quest’uranio arricchito non può essere usato tecnicamente per la produzione di armi nucleari, come sostiene un po' tutto il mondo occidentale, USA in testa. Fisicamente, il processo di arricchimento per costruire una bomba atomica arriva fino al 90%. L’uranio presente nelle armi nucleari abitualmente contiene circa l’85% o più dell'isotopo 235, ed è noto come uranio "a gradazione per le armi". Se l'Iran arriva appena al 20% di arricchimento, non è in grado di produrre bombe atomiche. Al limite potrebbe costruirsi una centrale elettrica, costosissima e senza molto senso in un Paese ricchissimo di petrolio, o più verosimilmente potrebbe venderlo a Paesi terzi.

E' vero, come sostenuto da alcuni, che può bastare circa un 20% di arricchimento per costruire una cosa assomigliante ad un'arma nucleare, viene chiamata "bomba cruda"; ma dai test effettuati negli anni '50, in piena guerra fredda, si è dimostrata molto inefficiente. Pertanto, lo scontro attuale, la tensione altissima tra Iran e Occidente, non è tanto riguardante il sospetto che le sue attività nucleari abbiano finalità prettamente militari, quanto sul rischio che l'Iran si trasformi da Paese acquirente di tecnologie nucleari dell'Occidente, in Paese esportatore di servizi e materiali nucleari, andando a rubare ai Paesi occidentali nicchie di un mercato che diventa sempre più stretto.

Un paio di giorni fa, il presidente Ahmadinejad ha assistito personalmente all'introduzione della prima barra di combustibile nucleare in un reattore a Teheran. Operazione tecnica seguita da due annunci. Il primo è che gli scienziati hanno aggiunto tremila centrifughe alle seimila già esistenti. Il secondo è l'ordine di costruzione di altri 4 reattori "per scopi medici", in particolare la "cura di malati di tumore".

Chiaramente si tratta di un poco velato messaggio al resto del mondo e in particolare agli avversari: la ricerca nucleare sta progredendo nonostante i moniti dell'Occidente. Nonostante questo, Teheran ha finalmente risposto alla richiesta di negoziati sollecitata dai cosiddetti "5+1", ossia Usa, Russia, Cina, Francia, Gran Bretagna e Germania, riaprendo la via diplomatica che, per quanto complicata, è una via che molti osservatori invitano comunque ad esplorare.

Il confronto si svolge in una cornice ambigua, anche perché è difficile decifrare le intenzioni di Teheran, spesso misteriose e piene di retroscena. A titolo di esempio, i media iraniani hanno annunciato lo stop delle forniture di greggio a sei paesi europei, Italia inclusa. Una rappresaglia all'adozione delle sanzioni, sembrerebbe. Successivamente, il ministro del Petrolio Hassan Tajik ha smentito: "Manteniamo, per ora, le forniture per motivi umanitari, vista la crisi economica che attanaglia l'Europa".

E' chiaro di cosa si tratta: l'Iran non sospende le forniture ma minaccia di farlo e, trattandosi di petrolio, è la minaccia in sé è forse più forte della sua stessa attuazione. Lo dimostra il veloce contraccolpo in Europa: in seguito all’annuncio, a Londra la quotazione è salita di 1,53 dollari, portandosi a 118,8 dollari al barile. Il tutto per una veloce piroetta iraniana.

C'è da aggiungere che, secondo alcuni analisti politici, questi episodi ambigui sono legati a contrasti interni su come fronteggiare la pressione internazionale. Infatti, non c'è solo il nucleare: le tensioni restano alte dopo gli attacchi in Azerbaigian, India, Georgia, Thailandia. La polizia sostiene che le bombe esplose a Bangkok sono simili a quelle usate a New Delhi e Baku e, pur senza prove, fonti israeliane (ovviamente interessate) si sono dette sicure che si tratta di un'offensiva globale, condotta, però, in fretta, affidata forse a "mercenari".

Episodi che hanno dato vigore a chi ritiene che con l'Iran c’é poco da trattare. A confermarlo, la Gran Bretagna "non chiede" l'uso della forza contro l'Iran, ma neanche "esclude questa opzione". Lo ha dichiarato il ministro degli esteri britannico William Hague alla Bbc. A una domanda su un possibile attacco israeliano contro Teheran per fermare il programma nucleare iraniano, Hague ha detto che Londra "non fa parte di nessuna pianificazione di attacco militare e ha avvertito Israele che un attacco sarebbe "poco saggio".

In fin dei conti, si tratta di una lunga partita a scacchi che avviene su diversi piani: da quello militare, con l'ingresso di navi da guerra iraniane nel mediterraneo, a quello tecnologico, riguardo il nucleare, fino ad arrivare a quello principale: il piano economico. Qui sembra giocarsi una partita più delicata, dove l'Iran può con un semplice annuncio di nuove centrifughe o di sospensione delle forniture di petrolio, far salire o scendere a proprio piacimento le borse europee e nord-americane, far aumentare il prezzo del petrolio, quindi della benzina e, in definitiva far aumentare la spinta inflazionistica sia sul dollaro sia sull'euro.

di Michele Paris

Mentre la crisi siriana non accenna a placarsi, le potenze occidentali e del Golfo Persico interessate a rovesciare il regime di Bashar al-Assad continuano a fare pressioni su Damasco e a operare dietro le quinte per promuovere finanziariamente e militarmente un’opposizione ancora frammentata e con poco seguito nel paese. A gettare nuova benzina sul fuoco, sono state negli ultimi giorni le dichiarazioni di due autorevoli senatori americani e la conferma ufficiale dell’impiego di droni statunitensi nei cieli della Siria.

Nel corso di una visita a Kabul, i repubblicani John McCain dell’Arizona e Lindsey Graham della Carolina del Sud, hanno sostenuto apertamente la necessità che gli Stati Uniti forniscano armi all’opposizione siriana, anche se non in maniera diretta ma tramite altri paesi. Il senatore Graham, inoltre, ha spiegato in maniera inequivocabile l’importanza della Siria nell’ambito della strategia americana in Medio Oriente, volta principalmente ad isolare l’Iran e a provocare un cambio di regime a Teheran. Per Graham, “allontanare la Siria dall’Iran avrebbe la stessa importanza delle sanzioni nel contenimento della Repubblica Islamica. Se il regime siriano verrà sostituito da un'altra forma di governo senza legami con gli iraniani nel prossimo futuro, il mondo sarà un posto migliore”.

Dopo l’Afghanistan, McCain e Graham si recheranno in Egitto, dove nel summit previsto con i rappresentanti della giunta militare al potere al Cairo la questione siriana occuperà una parte importante. Stati Uniti ed Egitto sono nel pieno di una crisi diplomatica circa la sorte di alcuni operatori di ONG americane messi sotto accusa dalle autorità locali. Nonostante Washington abbia chiesto al governo egiziano di lasciar cadere ogni accusa, il regime deve fare i conti con il diffuso sentimento anti-americano tra la popolazione.

Dal momento che gli USA hanno minacciato di tagliare gli aiuti all’Egitto, che ammontano a circa 1,3 miliardi di dollari l’anno, i militari al potere stanno allora mostrando la loro disponibilità verso Washington riguardo la crisi in Siria. L’Egitto ha infatti annunciato domenica di aver ritirato il proprio ambasciatore a Damasco, mentre pare abbia assicurato gli americani di adoperarsi all’interno della Lega Araba, che ha sede al Cairo, per aumentare le pressioni sul regime di Assad.

Le dichiarazioni dei due senatori USA, peraltro, sono superate dalla realtà sul campo, visto che l’opposizione siriana riceve da tempo sostegno materiale sia dall’Occidente che dalla Turchia e da molti paesi arabi interessati a rimuove Assad. Il cinismo dei governi occidentali emerge anche dalle preoccupazioni espresse da più parti per l’aggravarsi della situazione in Siria.

L’altro giorno, ad esempio, il ministro degli Esteri britannico, William Hague, ha affermato di temere per lo scivolamento del paese verso la guerra civile. Dal Messico, poi, gli ha fatto eco il suo omologo australiano, Kevin Rudd, per il quale è sempre più difficile giungere ad una soluzione pacifica della crisi in Siria. Dichiarazioni simili tralasciano ovviamente di ricordare come le violenze e la deriva della guerra civile siano alimentate anche da questi stessi governi per giustificare un intervento militare esterno.

L’atteggiamento sempre più aggressivo degli Stati Uniti è stato confermato poi sabato da un esponente dell’amministrazione Obama, il quale ha detto alla NBC che Washington sta operando una “missione” con aerei senza pilota in Siria. La fonte della rivelazione ha escluso che gli USA stiano preparando un intervento armato in questo paese. Il dispiegamento dei droni, che rappresenta un’evidente violazione dello spazio aereo siriano, servirebbe piuttosto a raccogliere informazioni circa la repressione del dissenso da parte delle forze del regime, in vista di una “risposta della comunità internazionale”.

Ancora sabato, inoltre, il giornale israeliano Haaretz ha scritto che l’esercito siriano ha arrestato più di 40 agenti turchi che stavano collaborando con l’opposizione in territorio siriano. Gli arrestati, secondo quanto riportato dalla stampa ufficiale del regime di Assad, avrebbero confessato di avere ricevuto addestramento dal Mossad israeliano ed avevano il compito di organizzare attentati per destabilizzare il paese. Uno degli agenti turchi avrebbe anche rivelato che il Mossad sta addestrando i disertori che fanno parte dell’Esercito Libero della Siria, così come membri di Al-Qaeda in Giordania da inviare in Siria per mettere in atto azioni terroristiche. Attorno ai 40 arrestati sarebbero in coso trattative tra Ankara e Damasco. Per la loro liberazione, il governo siriano vorrebbe in cambio l’estradizione di ufficiali e soldati che hanno defezionato e trovano ora rifugio in Turchia.

Che le confessioni estratte dagli agenti turchi corrispondano o meno alla verità, la presenza di cellule di Al-Qaeda in Siria è stata confermata recentemente anche dal direttore dell’intelligence americana, James Clapper, riferendosi alle bombe esplose nelle ultime settimane a Damasco e Aleppo.

L’atteggiamento sempre più spregiudicato dell’opposizione armata siriana è emerso anche da una serie di assassini mirati. Nella provincia nord-occidentale di Idlib vicino al confine turco, domenica sono stati uccisi da uomini armati un pubblico ministero, Nidal Ghazal, il procuratore generale Mohammed Ziyadeh e il loro autista mentre viaggiavano sulla stessa auto. Il giorno precedente era caduto invece vittima di un’esecuzione Jamal al-Bish, membro del consiglio comunale della città di Aleppo. Questi episodi sono tutt’altro che isolati. L’11 febbraio era stato infatti assassinato in un’imboscata fuori dalla sua abitazione di Damasco il generale Issa al-Khouli, noto medico militare legato alla famiglia Assad, mentre a gennaio la stessa sorte era toccata al capo della Mezzaluna Rossa nella città di Idlib, Abdulrazak Jbero, mentre si stava recando nella capitale siriana.

Oltre alla repressione del regime in corso nelle città dove è forte la presenza dei “ribelli” (Deraa, Hama, Homs), basandosi sui resoconti di dubbia affidabilità delle organizzazioni con sede all’estero legate all’opposizione, la stampa occidentale nel fine settimana ha dato ampio spazio alla manifestazione di protesta contro il regime nel quartiere borghese di Mezze, a Damasco. La dimostrazione sembra aver raccolto alcune centinaia di partecipanti dopo che le forze di sicurezza avevano aperto il fuoco su un funerale di un manifestante.

La capacità dell’opposizione di mobilitare un vasto numero di siriani, in ogni caso, appare ancora scarsa, soprattutto nelle principali città del paese come Aleppo e Damasco. Secondo la Associated Press, domenica alcuni attivisti nella capitale avevano cercato di organizzare un giorno di sciopero in solidarietà delle vittime della repressione nelle altre località sotto assedio. La risposta è stata però a dir poco tiepida, tanto che tutte le attività commerciali e gli uffici pubblici sono rimasti aperti.

Il 26 febbraio prossimo, intanto, si terrà l’annunciato referendum sulla nuova costituzione che, nelle intenzioni di Assad, dovrebbe aprire la strada verso il multipartitismo in Siria. La consultazione, anticipata di un mese rispetto alla data originariamente prevista, si svolgerà tuttavia in un’atmosfera carica di tensioni, mentre le opposizioni e l’Occidente hanno già denunciato l‘iniziativa come una manovra puramente di facciata da parte del regime.

Sostegno al referendum è stato espresso invece dall’inviato di Pechino a Damasco, il vice-ministro degli Esteri Zhai Jun, il quale dopo aver incontrato Assad nella giornata di sabato ha fatto un appello a tutte le parti per fermare le violenze. La posizione cinese riguardo la Siria appare d’altra parte molto chiara, come ha evidenziato un editoriale apparso lunedì sulla prima pagina dell’organo del Partito Comunista, Il quotidiano del popolo, e che accusa esplicitamente l’Occidente di alimentare la guerra civile nel paese, tramite il sostegno all’opposizione e le richieste di dimissioni di Assad, così da promuovere un intervento militare.

Un ultimo segnale della pericolosa escalation delle tensioni in Siria si è avuto infine qualche giorno fa, quando due navi da guerra iraniane hanno attraversato il Canale di Suez per attraccare nel porto siriano di Tartous. In questa località, la Russia mantiene una base navale strategicamente fondamentale per i suoi interessi nella regione e per difenderli sembra essere disposta a impedire ad ogni costo qualsiasi interferenza esterna che possa sconvolgere gli equilibri esistenti.


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