di Michele Paris

Al termine di una settimana che ha sconvolto gli equilibri nella corsa alla nomination repubblicana, l’ex speaker della Camera dei Rappresentanti, Newt Gingrich, ha conquistato una netta vittoria nelle terze primarie dell’anno, riaprendo inaspettatamente una competizione che sembrava ormai chiusa dopo il voto del New Hampshire.

In Carolina del Sud, Gingrich ha staccato il favoritissimo Mitt Romney e la sorpresa dei caucus dell’Iowa, Rick Santorum, capitalizzando i consensi degli evangelici e dei conservatori, più che mai decisivi per l’assegnazione dei delegati in palio nel primo appuntamento elettorale nel sud degli Stati Uniti.

La campagna di Gingrich per la Casa Bianca è stata dunque resuscitata sabato almeno per la seconda volta a partire dallo scorso anno. Dato per finito in partenza, l’ex leader repubblicano di maggioranza negli anni Novanta era stato protagonista di un imprevisto recupero nei sondaggi, per poi finire vittima del fuoco incrociato dei rivali che fin dalla vigilia delle primarie lo avevano bersagliato con un’ondata di messaggi televisivi negativi.

A fermare l’ascesa di Gingrich in Carolina del Sud non sono riusciti, nell’ultima settimana, nemmeno un’intervista rilasciata alla ABC della sua seconda moglie, Marianne, la quale ha raccontato delle infedeltà del marito durante il loro matrimonio, né l’appoggio ufficiale dato a Rick Santorum dai leader evangelici americani nel corso di un meeting in Texas. Secondo i dati ufficiali, Newt Gingrich ha così ottenuto il 40,4% dei suffragi espressi, contro il 27,8% di Mitt Romney, il 17% di Santorum e il 13% del deputato libertario del Texas, Ron Paul.

Nella settimana precedente il voto in Carolina del Sud, il campo degli sfidanti in casa repubblicana si era ridotto a quattro. L’ex governatore dello Utah e già ambasciatore di Obama in Cina, John Huntsman, e il governatore del Texas, Rick Perry, avevano infatti abbandonato la corsa a distanza di pochi giorni l’uno dall’altro, contribuendo a veicolare una parte del voto moderato e conservatore sui candidati rimasti in gara.

Il risultato di sabato della Carolina del Sud potrebbe in realtà rappresentare solo un ostacolo temporaneo nel percorso verso la nomination di Romney, il quale rimane di gran lunga il candidato meglio finanziato e con l’organizzazione più solida in vista di una possibile sfida prolungata. Oltre al fatto che dal 1980 il vincitore delle primarie repubblicane in questo Stato ha sempre finito per conquistare la nomination, la vittoria di Gingrich può aver determinato una dinamica temuta dal team di Romney, cioè la convergenza del voto conservatore su un unico candidato, mettendo fine alle divisioni nell’ala destra del partito di cui aveva appunto beneficiato il miliardario mormone.

Anche se i sondaggi subito dopo le primarie del New Hampshire lo davano con un chiaro margine sui rivali in Carolina del Sud, Romney è andato incontro a una serie di contrattempi che hanno finito per essergli fatali in uno Stato nel quale l’elettorato repubblicano risultava già di per sé cauto nei confronti del suo messaggio relativamente moderato. A contribuire al suo declino sono stati poi altri fattori, a cominciare dall’agguerrita prestazione di Gingrich nei due dibattiti televisivi che hanno preceduto il voto.

Un paio di giorni prima, inoltre, il Partito Repubblicano dell’Iowa aveva rivelato che il riconteggio delle schede dei caucus del 3 gennaio aveva dato un risultato diverso, privando Romney della vittoria - inizialmente annunciata con un margine di appena otto voti - e consegnandola a Rick Santorum.

La retorica populista adottata dai rivali ha poi contribuito a dipingere Romney come un candidato lontano dai bisogni delle classi più disagiate. Pressato soprattutto da Gingrich a rivelare la propria dichiarazione dei redditi, Romney si è limitato a valutare attorno al 15% il carico fiscale gravante sulle sue entrate milionarie, mentre in un’altra occasione ha definito “non molto” il compenso ricevuto per i suoi discorsi pubblici nel corso del 2010 e pari a 374 mila dollari.

Con la sfida repubblicana almeno parzialmente riaperta, i candidati sposteranno ora la loro attenzione verso il prossimo appuntamento, previsto per il 31 gennaio in Florida, il primo grande Stato americano a tenere le primarie repubblicane. Qui, dove il mercato pubblicitario televisivo è estremamente costoso e dove lunedì andrà in scena un nuovo dibattito, si stanno già riversando svariati milioni di dollari, soprattutto delle Super PAC affiliate in maniera non ufficiale ai candidati, come quella di Romney che ha speso 4 milioni ancora prima dell’inizio ufficiale della campagna elettorale nello Stato. E anche qui, Gingrich sembra essersi portato avanti, grazie alla manifestazione tenuta alcuni giorni orsono a Miami dove la lobby cubanoamericana gestita dalla FNCA ha già promesso il suo sostegno in cambio delle promesse di "mano dura contro Cuba" offerte dall'ex speacker del Congresso. Un'ulteriore segno di una candidatura all'insegna del bellicismo reazionario che conferma l'indirizzo elettorale dei fan repubblicani.

Anche se sconfitti nettamente, Rick Santorum e Ron Paul hanno annunciato infine di voler rimanere in corsa. Se per il 76enne Paul il risultato negativo in Carolina del Sud era ampiamente previsto (il suo staff è già concentrato nelle primarie e caucus negli USA occidentali che seguiranno la Florida) Santorum sperava in una prestazione migliore dopo le notizie positive dei giorni precedenti. Lo spostamento dei voti conservatori verso Gingrich non preannuncia perciò nulla di buono per l’ex senatore della Pennsylvania, il quale oltretutto non può contare sulle finanze e sull’organizzazione dei suoi rivali.

di Michele Paris

Il celebre giudice spagnolo Baltasar Garzón è stato chiamato ad apparire qualche giorno fa in un’aula di tribunale a Madrid per la prima udienza di uno dei tre procedimenti legali nei quali si trova coinvolto a causa della sua attività di magistrato. I tre casi hanno motivazioni esclusivamente politiche e sono stati sollevati nei suoi confronti per porre fine alle indagini su questioni ritenute scomode dalle élite politiche di Spagna, a cominciare da quella sulle responsabilità nei crimini dell’era franchista.

Nel processo aperto questa settimana, Garzón è accusato di aver disposto intercettazioni illegali in carcere durante alcuni incontri tra gli indagati e i loro legali nel cosiddetto caso Gürtel. In esso sono coinvolti, tra gli altri, esponenti del Partito Popolare (PP) di governo, implicati in un giro di corruzione, riciclaggio ed evasione fiscale.

Nel secondo procedimento, per il quale il 56enne giudice andaluso dovrà apparire in aula il 24 gennaio, le accuse sono invece di abuso di potere in merito ad un’inchiesta sui crimini commessi durante la Guerra Civile (1936-1939) e la successiva dittatura franchista fino alla morte del Caudillo nel 1975. In questo processo, Garzón sarà alla sbarra per aver provato ad indagare sulle responsabilità di crimini come omicidi, abusi, torture e la sottrazione di decine di migliaia di neonati alle detenute politiche per affidarli a membri del regime.

Il terzo caso, per il quale non è stata ancora fissata la data della prima udienza, riguarda infine presunti pagamenti che Garzón avrebbe ricevuto dal Banco Santander durante un soggiorno negli Stati Uniti per tenere dei seminari presso la New York University. Alla luce di questi compensi, peraltro smentiti dall’università americana, il giudice spagnolo avrebbe dovuto ricusare se stesso in un caso che vedeva coinvolto lo stesso Banco Santander.

Riassumendo il fuoco incrociato al quale è sottoposto Garzón nel proprio paese, il suo legale, Gonzalo Martinez-Fresnada, l’altro giorno ha definito una “tempesta perfetta” quella che il suo assistito si trova ad affrontare. Se condannato, Garzón potrebbe essere escluso dalla magistratura spagnola fino ad un periodo di vent’anni.

Il caso più controverso e che ha suscitato maggiormente i malumori della classe dirigente iberica è senza dubbio quello relativo ai crimini del franchismo. Gli altri due appaiono invece studiati a tavolino per screditare Garzón agli occhi dell’opinione pubblica. Dopo la morte di Franco e l’avvio della transizione democratica, nel 1977 la Spagna approvò un’amnistia che andava a coprire tutti i crimini del regime. A tutt’oggi nel paese non è stata perciò emessa alcuna condanna per le atrocità commesse durante la dittatura fascista.

In questa situazione, nel 2008 Garzón aprì un procedimento su richiesta dei familiari delle vittime del regime. Quasi subito, gli ambienti di estrema destra, tra cui il sindacato fascista Manos Limpias, chiesero però di fermare l’inchiesta e accusarono Garzón di aver abusato delle sue facoltà. Quest’ultimo, da parte sua, ha sempre sostenuto che l’indagine non contrasta con il dettato della legge sull’amnistia. Ciononostante, l’indagine è stata successivamente fermata e Garzón sospeso dal proprio incarico.

Le critiche più dure verso l’azione intrapresa da Garzón erano giunte dal Partito Popolare, nato proprio dalle ceneri delle formazioni di destra del dopo-Franco e i cui esponenti non desiderano vedere riaperte le “vecchie ferite”. Anche da sinistra, tuttavia, le reazioni non sono state tenere. L’ex segretario del Partito Comunista Spagnolo (PCE), Santiago Carrillo, uno dei protagonisti della transizione, aveva ad esempio denunciato Garzón, il quale a suo parere aveva commesso un errore e la sua indagine non era il modo migliore per ristabilire la memoria storica del periodo segnato dalla dittatura franchista.

In due decenni di carriera giudiziaria, Baltasar Garzón si è distinto per numerosi casi eclatanti, primo fra tutti quello che portò all’arresto e alla richiesta di estradizione dell’ex dittatore cileno Augusto Pinochet durante un suo soggiorno in Inghilterra. Facendo affidamento sul principio della “giurisdizione universale” per perseguire i crimini contro l’umanità, il magistrato spagnolo ha anche aperto procedimenti riguardanti le torture subite da connazionali detenuti nel lager di Guantánamo, la collaborazione del governo di Madrid nelle “rendition” della CIA e l’uccisione a Baghdad di un cameraman spagnolo finito sotto il fuoco americano. Nel 2009 inoltre, Garzón tentò di mettere sotto processo sei membri dell’amministrazione Bush - compreso lo stesso ex presidente - per crimini contro l’umanità.

L’intraprendenza del giudice della Corte Nazionale spagnola ha comprensibilmente sollevato molte inquietudini non solo in patria. Come hanno rivelato alcuni cablo pubblicati da Wikileaks, l’amministrazione Obama aveva fatto più di una pressione sul governo di Madrid per tenere a freno Garzón. Dopo l’apertura della già citata indagine sulle torture a Guantánamo, in particolare, i diplomatici statunitensi presero contatti sia con l’allora Procuratore Generale, Cándido Conde-Pumpido, che con il superiore di Garzón alla Corte Nazionale, Javier Zaragoza.

Sotto pressione da Washington, il governo Zapatero decise così di limitare il principio della giurisdizione universale per i magistrati spagnoli e di lasciar procedere le inchieste ai danni di Baltasar Garzón. Il Partito Socialista (PSOE) non ha infatti espresso alcun commento ufficiale circa la vicenda giudiziaria di Garzón, forse anche perché quest’ultimo aveva già messo sotto accusa alcuni esponenti del partito nell’ambito di un’indagine sulle squadre della morte che negli anni Ottanta avevano assassinato membri dell’ETA.

I processi farsa contro Baltasar Garzón hanno prodotto una situazione paradossale in Spagna, per cui colui che intende indagare su crimini atroci commessi durante i decenni della dittatura franchista finisce per essere perseguito legalmente, mentre i complici e i responsabili degli stessi reati godono della totale impunità e, anzi, hanno spesso potuto arricchirsi o avere accesso a posizioni di potere dopo la transizione alla democrazia.

Solo per citare il caso più clamoroso, la famiglia di Franco, cui il re di Spagna ha tra l’altro conferito titoli nobiliari, secondo un articolo del novembre 2011 del quotidiano El País, ha accumulato enormi ricchezze anche grazie alla posizione di capo di Stato del defunto dittatore. Malgrado l’evidenza, non solo nessuna indagine è mai stata aperta dalle autorità spagnole, ma, ad esempio, fino alla sua morte nel 1988, lo Stato ha addirittura garantito alla vedova del “Generalissimo”, Carmen Polo, una cospicua pensione, ben superiore allo stipendio previsto per la carica di primo ministro.

di Michele Paris

In un clima di crescenti minacce e aperte provocazioni verso l’Iran, gli Stati Uniti stanno intensificando lo sforzo diplomatico con i loro alleati per aumentare le pressioni sul governo di Teheran e, ufficialmente, convincerlo a rinunciare al suo discusso programma nucleare. Pur mantenendo aperta ogni ipotesi, compresa quella militare, è l’arma dell’embargo sulle esportazioni di petrolio che Washington sta promuovendo in questo inizio d’anno per colpire l’economia iraniana e destabilizzare il regime.

La campagna diplomatica anti-iraniana è in pieno svolgimento in questi giorni con delegazioni americane inviate in vari paesi per spingere i rispettivi governi a sottostare al dettato delle sanzioni unilaterali firmate dal presidente Obama lo scorso 31 dicembre. Le nuove disposizioni USA prevedono l’esclusione dal mercato americano di qualsiasi entità - pubblica o privata - che faccia affari con la Banca Centrale iraniana, la quale gestisce appunto le transazioni relative alle esportazioni di greggio.

Le attenzioni dell’amministrazione Obama si stanno concentrando in particolare sugli alleati asiatici. Martedì, il consigliere speciale del Dipartimento di Stato, Robert Einhorn, e l’assistente al Segretario al Tesoro per i crimini finanziari, Daniel Glaser, hanno incontrato a Seoul il vice ministro degli Esteri sudcoreano, Kim Jae-shin, al quale hanno manifestato la richiesta di ridurre sensibilmente le importazioni di petrolio dall’Iran. Secondo il quotidiano locale Dong-A Ilbo, gli Stati Uniti vorrebbero vedere dimezzate le forniture di petrolio dall’Iran alla Corea del Sud, mentre quest’ultima sarebbe disponibile a valutare al massimo un taglio del 30 per cento.

Seoul paga tramite la Banca Centrale iraniana le forniture di greggio, che ammontano a circa il 10 per cento del totale del proprio fabbisogno energetico. Nonostante la promessa di collaborare con Washington, i sudcoreani si sono mostrati piuttosto cauti, poiché temono per la propria sicurezza energetica e per una possibile impennata del prezzo del petrolio che farebbe lievitare l’inflazione, con conseguenze nefaste per le chances di rielezione del presidente conservatore, Lee Myung-bak, a pochi mesi dal voto. Dopo la visita in Corea del Sud, la delegazione americana si recherà in Giappone, altro importatore di greggio iraniano cui verrà chiesto di sottostare alle nuove sanzioni USA.

Le resistenze di altri paesi a limitare i rapporti commerciali con Teheran appaiono decisamente più esplicite. L’India, ad esempio, tramite il ministro degli Esteri Ranjan Mathai, ha fatto sapere martedì di voler continuare ad acquistare il petrolio iraniano senza chiedere alla Casa Bianca di essere esentata dalle sanzioni, come prevede la legge licenziata a dicembre dal Congresso. In sostanza, Nuova Delhi ha deciso di ignorare del tutto le misure decise a Washington, anche perché, malgrado alcune dispute sui pagamenti nel recente passato, l’Iran è per l’India il secondo fornitore di petrolio dopo l’Arabia Saudita.

Ancora più ferme nella loro opposizione a qualsiasi misura contro l’Iran sono poi Cina e Russia. Pechino è il primo partner commerciale di Teheran, da cui riceve il 22 per cento delle proprie importazioni di petrolio e, come previsto, ha respinto le sanzioni americane. Il governo cinese vuole proseguire la collaborazione con la Repubblica Islamica, nonostante abbia recentemente ridotto le importazioni di greggio dall’Iran a causa di una contesa sul prezzo.

La sicurezza energetica per la Cina viene prima di tutto e Pechino, per assicurarla, intende mantenere rapporti cordiali sia con l’Iran che con i paesi alleati degli USA in Medio Oriente, come dimostra la visita in corso nella regione del premier, Wen Jiabao, il quale ha appena siglato una serie di accordi in ambito petrolifero e nucleare con il regime saudita.

Mosca, da parte sua, appare anche più esplicita nel condannare integralmente la politica USA nei confronti dell’Iran, come ha confermato mercoledì il ministro degli Esteri, Sergey Lavrov. In una dichiarazione riportata dalla Associated Press, il capo della diplomazia russa si è detto seriamente preoccupato che un attacco militare contro Teheran possa innescare una “reazione a catena” che finirebbe per destabilizzare l’intero pianeta. Lavrov ha anche criticato l’imposizione delle sanzioni, le quali penalizzano l’economia iraniana colpendo soprattutto la popolazione.

Se Cina e Russia pongono al primo posto i rispettivi interessi riguardo la questione iraniana, l’atteggiamento dell’Unione Europea sembra al contrario privilegiare l’alleanza con gli Stati Uniti a scapito degli interessi di molti paesi membri. L’UE sta infatti valutando l’adozione di un embargo totale sul greggio iraniano e la decisione definitiva dovrebbe essere presa nel corso di un summit in programma il prossimo 23 gennaio. Alcuni paesi come Francia, Germania e Gran Bretagna, appoggiano in pieno il provvedimento, mentre altri - tra cui Italia e Grecia, le quali importano quantitativi importanti di petrolio da Teheran a prezzi vantaggiosi - hanno posto delle condizioni.

Come ha fatto notare qualche giorno fa in un’intervista diffusa dall’agenzia di stampa Mehr il rappresentante iraniano all’OPEC, Seyyed Mohammad Ali Khatibi, “uno scenario nel quale le esportazioni di petrolio verso l’UE vengono bandite corrisponderebbe ad un suicidio economico per i paesi membri”. Secondo alcune statistiche, l’Iran esporta verso l’Europa circa 800 mila barili di petrolio al giorno e un eventuale embargo provocherebbe un ulteriore aumento del prezzo del greggio, peggiorando la crisi economica in atto. A confermare l’autolesionismo dei governi europei è stato il ministro degli Esteri di Madrid, José Manuel Garcia-Margall, il quale mercoledì ha affermato che il suo paese potrebbe appoggiare le sanzioni anche se esse causeranno “gravi danni” ai due principali importatori spagnoli di petrolio iraniano.

Per far fronte al possibile venir meno del petrolio iraniano sul mercato internazionale - circa 2,2 milioni di barili al giorno - il ministro del Petrolio dell’Arabia Saudita, Ali Naimi, l’altro giorno in un’intervista alla CNN ha promesso di aumentare la produzione di greggio del proprio paese fino a 2,7 milioni di barili al giorno, portandola complessivamente a 11,8 milioni di barili. L’uscita di Naimi ha suscitato le ire di Teheran, da dove il ministro degli Esteri, Ali Akbar Salehi, ha invitato i sauditi a “riflettere e a riconsiderare la proposta”. Per Salehi, quelli che provengono da Riyadh sono “segnali poco amichevoli” e potrebbero creare problemi tra l’Iran e l’Arabia Saudita.

Oltre alla campagna diplomatica e alla guerra economica, gli USA e i loro alleati continuano a portare avanti anche operazioni segrete contro Teheran, i cui effetti si sono visti solo pochi giorni fa con l’assassinio nella capitale dell’ennesimo scienziato nucleare iraniano, Mustafa Ahmadi Roshan.

Come ha messo in luce un’indagine del Sunday Times pubblicata il 15 gennaio, l’operazione è con ogni probabilità da attribuire al Mossad israeliano, verosimilmente con la collaborazione dell’organizzazione terroristica sunnita attiva in Iran, Jundallah. Azioni simili, ovviamente non commentate o smentite da Washington e Tel Aviv, sono mirate a provocare una reazione da parte iraniana, così da giustificare un’aggressione militare.

Un attacco preventivo contro le installazioni nucleari iraniane non sembra in ogni caso imminente. Qualche segnale di cautela da parte di Israele è giunto negli ultimi giorni. Non solo è stata rimandata un’esercitazione militare congiunta tra USA e Israele che avrebbe potuto alimentare le tensioni con Teheran, ma anche il ministro della Difesa Ehud Barak nel corso di un’intervista alla radio militare israeliana mercoledì ha affermato che la decisione da parte del suo governo di attaccare l’Iran è ancora “molto lontana”.

Queste rassicurazioni contribuiscono in ogni caso ben poco a dissipare i timori di un nuovo conflitto in Medio Oriente dalle conseguenze rovinose. Stati Uniti e Israele sembrano infatti disposti a tutto pur di spezzare l’asse di resistenza nella regione che si fonda precisamente sulla Repubblica Islamica. Minacce, sanzioni e operazioni segrete di stampo terroristico rimarranno così all’ordine del giorno fino a quando a Teheran non verrà installato un regime meglio disposto verso i loro interessi.

di Michele Paris

Il presidente e autocrate della repubblica centro-asiatica del Kazakistan, Nursultan Nazarbayev, aveva presentato le elezioni parlamentari di domenica scorsa come uno dei primi passi verso la democratizzazione del paese ex sovietico. I risultati, tuttavia, pur avendo rotto formalmente il monopolio del partito di governo, hanno assegnato nuovamente una maggioranza schiacciante alla formazione politica di Nazarbayev, suscitando le critiche degli osservatori internazionali che hanno sorvegliato le operazioni di voto.

Il partito del presidente, Nur Otan (“luce della patria”), ha ottenuto domenica l’81% dei suffragi e nel nuovo parlamento (Mazhilis) dovrà per la prima volta cedere il controllo assoluto dell’Assemblea. Due soli altri partiti sono riusciti a superare a malapena la soglia di sbarramento del 7%, Ak Zhol (7,5%) e il Partito Comunista Popolare del Kazakistan (7,2%), uno dei due partiti comunisti del paese.

Difficilmente, in ogni caso, questi due partiti rappresenteranno un qualche ostacolo all’azione del governo. Ak Zhol, soprattutto, è un partito pro-business vicino al presidente, e il suo fondatore, Azat Peruashev, era fino a pochi mesi fa membro di Nur Otan.

La Camera Bassa del Parlamento kazako conta un totale di 107 seggi, di cui 98 vengono assegnati con il voto popolare, mentre i restanti 9 sono decisi dalla stessa assemblea e rappresentano i diversi gruppi etnici del paese. In base alla tornata elettorale di domenica, Nur Otan ha conquistato 83 seggi, Ak Zhol 8 e il Partito Comunista Popolare 7. Quando lo scorso novembre Nazarbayev sciolse il Parlamento, il suo partito occupava tutti e 98 i seggi elettivi. Nel recente passato, in realtà, un altro partito (Asar) aveva ottenuto una rappresentanza in Parlamento, ma era guidato da una delle figlie del presidente, Dariga Nazarbayeva, ed è stato successivamente assorbito da Nur Otan.

In Kazakistan erano presenti circa 400 osservatori internazionali, tra cui quelli della missione OCSE. Proprio quest’ultimo organismo ha sollevato seri dubbi circa la regolarità di un voto che non avrebbe avuto “i requisiti fondamentali di un’elezione democratica”. Secondo il capo degli osservatori dell’OCSE, “il voto ha avuto luogo sotto stretto controllo” da parte delle autorità governative e ha evidenziato “gravi restrizioni dei diritti dei cittadini”.

Il governo, inoltre, ha depennato dalle schede elettorali numerosi partiti e candidati dell’opposizione proprio alla vigilia del voto. Gli osservatori hanno documentato decine di episodi sospetti presso i seggi visitati, tra cui manipolazioni delle schede, voti multipli e irregolarità varie. Il voto, più in generale, è stato segnato da severe restrizioni alla libertà di assemblea e d’informazione, con i media che in gran parte hanno esercitato una sorta di auto-censura.

La condanna delle elezioni in Kazakistan da parte degli osservatori internazionali è d’altra parte pratica comune. Solo nell’aprile del 2011, erano stati denunciati brogli diffusi e intimidazioni durante il voto che aveva confermato Nazarbayev alla presidenza con il 95% dei consensi. In quell’occasione, anche un candidato rivale aveva dichiarato pubblicamente di aver votato per il presidente.

Nazarbayev e la sua cerchia di potere intendevano utilizzare il voto di domenica per legittimare di fronte alla comunità internazionale l’immagine di un regime dalle tendenze autoritarie e macchiato dalle ripetute accuse di violazioni dei diritti umani. Solo un mese fa, ad esempio, la città di Zhanaozen era stata teatro di violenti scontri tra le forze di polizia e i lavoratori del settore petrolifero in sciopero che causarono 17 morti. In seguito a questi fatti, il presidente aveva decretato lo stato di emergenza fino al 5 gennaio scorso, poi prolungato fino alla fine del mese.

Nonostante le proteste contro il regime non abbiano finora visto nemmeno lontanamente la partecipazione di massa vista da un anno a questa parte nei paesi arabi, il malcontento popolare in Kazakistan sembra covare sotto le ceneri. A conferma dei malumori crescenti, uno dei partiti dell’opposizione che non ha superato la soglia di sbarramento - Partito Social Democratico Nazionale (OSDP) - ha organizzato una piccola manifestazione martedì nella principale città del paese, Almaty, chiedendo l’annullamento del voto. Per tutta risposta, le autorità hanno subito oscurato un sito web allineato con l’OSDP.

Il Kazakistan è uno dei quattro paesi centro-asiatici dell’ex Unione Sovietica guidati da leader autoritari già facenti parte della vecchia oligarchia stalinista. Gli altri sono Tagikistan, Turkmenistan e Uzbekistan, mentre il quinto paese della regione, il Kirghizistan, dopo una sollevazione popolare nel 2010 è alle prese con un complicato processo di transizione verso un sistema apparentemente democratico e multipartitico.

Alla guida del paese fin dall’indipendenza da Mosca, il 71enne Nursultan Nazarbayev ha saputo destreggiarsi abilmente per due decenni tra Russia e Stati Uniti, in virtù della posizione strategica del Kazakistan e delle sue ingenti risorse energetiche (petrolio e gas naturale). Grazie a queste ultime, l’ex primo segretario del Partito Comunista Kazako nell’era sovietica e il suo entourage si sono arricchiti enormemente coltivando rapporti di favore con le grandi compagnie estrattive che operano nel paese.

Affacciato sul Mar Caspio, il Kazakistan ha una superficie nove volte superiore a quella dell’Italia ma conta appena 16 milioni di abitanti. Oltre alla presenza di numerosi giacimenti petroliferi sfruttati da varie corporation americane, il paese rappresenta una via di transito fondamentale per le forniture statunitensi dirette nel vicino Afghanistan. Per queste ragioni, malgrado la natura marcatamente autoritaria del regime, Washington continua ad intrattenere rapporti più che cordiali con Nazarbayev.

Di conseguenza, le reazioni degli Stati Uniti al voto di domenica e alle denunce degli osservatori internazionali sono state fin troppo pacate. “Siamo ansiosi di collaborare con il nuovo Parlamento multi-partitico e di proseguire la nostra cooperazione con il governo e il popolo del Kazakistan”, recitava lunedì una nota ufficiale del Dipartimento di Stato. Ricalcando poi la consueta retorica che caratterizza i rapporti degli USA con i regimi anti-democratici alleati, la dichiarazione non è andata oltre un generico auspicio che il governo del Kazakistan “possa mantenere la promessa di introdurre le riforme necessarie a creare un genuino pluralismo” del sistema.

di Michele Paris

Le elezioni presidenziali tenutesi sabato scorso sull’isola di Taiwan hanno assegnato la vittoria al candidato dei nazionalisti del Kuomintang (KMT), Ma Ying-jeou. Il presidente in carica si è imposto con un margine superiore a quello previsto alla vigilia sulla rivale del Partito Democratico Progressista (DPP), Tsai Ing-wen. L’esito del voto ha fatto trarre un sospiro di sollievo a Pechino e a Washington, da dove più o meno apertamente si auspicava una conferma di Ma e della sua politica di distensione nei confronti della Cina, così da evitare l’apertura di un nuovo fronte nella contesa sempre più aspra tra le due superpotenze nel continente asiatico.

Quello che si annunciava come un “testa a testa” tra i due principali candidati alla guida del paese si è risolto dunque in un successo piuttosto agevole di Ma Ying-jeou, il quale ha raccolto il 51,6% dei consensi, vale a dire circa 800 mila voti in più rispetto alla leader dell’opposizione, fermatasi al 45,6%. Un terzo candidato di centro-destra, James Soong, ha ricevuto appena il 2,8% dei suffragi, senza riuscire ad attrarre una parte consistente del voto conservatore deluso dal presidente uscente.

Nonostante la vittoria, Ma Ying-jeou ha visto un sensibile calo dei consensi rispetto al 2008, quando ottenne il 58,5% dopo i due mandati del presidente DPP, Chen Shui-bian, caratterizzati da crescenti tensioni con Pechino. Oltre alle presidenziali, sabato scorso a Taiwan si è votato anche per il rinnovo del Parlamento, con il KMT che ha conquistato 64 seggi su 113, perdendo la supermaggioranza dei due terzi di cui disponeva.

I rapporti con la Cina sono stati al centro della campagna elettorale taiwanese. Tsai Ing-wen aveva puntato su un appello populista che faceva leva sulle crescenti disparità economiche nel paese e sulla perdita di posti di lavoro causata dalla delocalizzazione di molte aziende locali verso la Cina grazie alla politica perseguita da Ma. Favorevole all’indipendenza totale dalla madrepatria, il DPP aveva promesso di rivedere il cosiddetto “Consenso 1992”, l’accordo che il Partito Comunista Cinese e il KMT avevano raggiunto in quell’anno e con il quale accettavano il principio di una sola Cina. Per entrambi, cioè, Taiwan è parte integrante della Cina, della quale però entrambi continuano a considerarsi il governo legittimo.

Con questa peculiare soluzione, Taipei e Pechino hanno costruito stretti legami economici, a partire soprattutto dall’ascesa al potere di Ma nel 2008. Allo stesso tempo, Taiwan ha potuto così mantenere la propria autonomia politica dalla Cina, grazie ad un equilibrio che rischiava di essere messo a repentaglio da un’eventuale successo elettorale di Tsai Ing-wen. A prevalere tra gli elettori sembrano essere stati perciò i timori di un possibile nuovo deterioramento dei rapporti con Pechino con un governo DPP. Pechino da parte sua, continua a considerare l’isola una provincia ribelle e minaccia di scatenare una guerra nel caso Taipei dovesse dichiarare la propria indipendenza.

Dopo la rivoluzione cinese del 1949, il Kuomintang sconfitto fuggì a Taiwan, dove mantenne significativamente la denominazione “Repubblica di Cina”. Da allora, il regime del KMT ha avuto il pieno appoggio degli Stati Uniti, i quali anzi fino al 1972 lo riconoscevano come l’unico governo legittimo di tutta la Cina. Il riavvicinamento al governo comunista portò però al riconoscimento da parte di Washington della sovranità di Pechino su tutta la Cina, compresa Taiwan, anche se il sostegno economico e militare a Taipei prosegue tuttora. Il DPP, bandito fino agli anni Ottanta, è diventato il principale partito di opposizione nel 1987, quando a Taiwan venne revocata la legge marziale ed ebbe inizio il percorso verso un sistema multipartitico.

Oggi la Cina è diventata ormai il principale partner commerciale di Taiwan. Nel 2010 il governo guidato da Ma ha siglato un importante accordo di cooperazione economica con Pechino che ha fatto lievitare gli scambi commerciali e gli investimenti tra i due paesi. Nel 2008, invece, erano stati inaugurati i primi collegamenti diretti, favorendo in particolare il flusso turistico verso Taiwan dove milioni di visitatori cinesi contribuiscono annualmente con circa 3 miliardi di dollari alla crescita economica dell’isola.

La politica di Ma ha trovato il consenso delle grandi aziende di Taiwan, agevolate dalla disponibilità di manodopera a basso costo in Cina, dove hanno avuto accesso negli ultimi anni. Per questo, nelle settimane precedenti il voto, i vertici di queste compagnie attive nella madrepatria avevano incoraggiato i loro dipendenti taiwanesi a recarsi sull’isola per votare a favore del Kuomintang. Secondo i resoconti dei media, circa 200 mila taiwanesi residenti in Cina hanno partecipato alle elezioni di sabato scorso e le spese per il viaggio di molti di essi sarebbero state pagate interamente dalle loro aziende.

La sconfitta del Partito Democratico Progressista è dovuta in parte anche al venir meno del sostegno della sua tradizionale base elettorale, rappresentata dai proprietari agricoli e dalle piccole aziende. Entrambi i settori hanno infatti beneficiato dell’accordo di cooperazione economica del 2010 che ha abbattuto le tariffe doganali di centinaia di prodotti destinati alla Cina, dando un grande impulso alle esportazioni taiwanesi. Gli scambi commerciali con Pechino nel 2011 hanno fatto registrare un saldo positivo per Taiwan pari a 78,8 miliardi di dollari, mentre si stima che senza il suddetto accordo di cooperazione il disavanzo per Taipei sarebbe stato di circa 10 miliardi.

Ma Ying-jeou ha inoltre capitalizzato l’appoggio di Washington per il Kuomintang. Nonostante l’amministrazione Obama fin dal 2009 abbia intrapreso una politica aggressiva nei confronti della Cina, l’atteggiamento americano su Taiwan rimane estremamente cauto. Pechino attribuisce d’altra parte un interesse vitale alla questione dell’isola, sulla quale tiene puntati più di mille missili balistici. Gli Stati Uniti, da parte loro, sarebbero obbligati ad intervenire in difesa di Taiwan in caso di aggressione militare.

Vista la delicatezza della situazione, non è sorprendente che la visita della candidata alla presidenza per il DPP a Washington lo scorso settembre non abbia convinto la Casa Bianca che una sua eventuale vittoria avrebbe garantito la stessa stabilità nei rapporti con Pechino che ha contraddistinto il primo mandato di Ma Ying-jeou.

Il risultato elettorale, in ogni caso, conferma la diffidenza e i dubbi che rimangono tra l’elettorato di Taiwan nei confronti della Cina e che peseranno sulla politica del presidente nei prossimi quattro anni. Le difficoltà che attendono il KMT derivano anche dalle crescenti tensioni sociali nel paese, dove a beneficiare della crescita economica innescata dalla partnership con Pechino sono state soprattutto le aziende private e i grandi interessi economici, a scapito di lavoratori e classe media. A conferma di un certo malcontento, l’affluenza alle urne è stata la più bassa tra le cinque elezioni presidenziali tenute nella storia di Taiwan (74%).

I prossimi passi nel riavvicinamento tra i due paesi promesso dal presidente rischiano di scontrarsi con una certa opposizione anche in Cina. Le aziende pubbliche cinesi si oppongono infatti alla cancellazione dei dazi doganali per le importazioni da Taiwan, così come le compagnie finanziarie sembrano temere la concorrenza delle banche dell’isola. Ma, infine, dovrà fare i conti a breve con la nuova leadership che si installerà a Pechino durante il 2012 e i cui orientamenti saranno tutti da verificare.


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